I. L'infinito dai filosofi Ionici ad Aristotele - II. La riflessione di Tommaso d'Aquino e la valenza teologica della nozione di infinito - III. L'infinto della scienza galieliana e newtoniana - IV. L'infinito di Cantor - V. Osservazioni conclusive.
Il termine «infinito» ha una vasta gamma di significati e applicazioni, essendo stato impiegato, fin dall'antichità, nel linguaggio comune, come in quello filosofico e teologico, in quello matematico come in quello poetico. Il termine conosce un impiego in senso "oggettivo", per indicare un'effettiva caratteristica di "non limitatezza" di qualcosa (una retta, la successione dei numeri interi, ecc.), o anche di "perfezione assoluta" dell'Ente (essenzialmente in riferimento a Dio), ed uno in senso "soggettivo", per segnalare la percezione del soggetto conoscente che considera infinito qualcosa di oggettivamente finito, ma molto più grande di lui (l'altezza del cielo, l'estensione dell'oceano, ecc.). In quest'ultimo caso abbiamo un uso del termine di tipo relazionale, per indicare una sorta di "rapporto di scala" tra il soggetto e l'oggetto, rapporto che può anche essere ribaltato per parlare dell'infinitamente piccolo (infinitesimo), anziché dell'infinitamente grande. Etimologicamente il significato del termine include una negazione (gr. á-peiron, lat. in-finitus ) caratterizzato da un alpha privativo o da altra preposizione negativa: non -finito, cioè senza confini (lat. fines ), senza limiti, non solo in senso "estensivo", ma anche nel senso "intensivo" di limitazioni, imperfezioni, e quindi dotato della pienezza della positività, della totale "attualità". L'infinito, inteso estensivamente, si presenta quindi come non completamente percorribile, non attraversabile da parte a parte (non si può percorrere interamente una retta); inteso intensivamente, si presenta come non totalmente afferrabile, e perciò inesauribile o incomprensibile (lat. in-comprehensus , non circoscrivibile), indisponibile ad una completa intellezione mediante gli atti propri della conoscenza umana, di per sé necessariamente limitati e in numero finito. Nel suo senso negativo, volendo indicare qualcosa che non ha limiti o contorni, il termine è talvolta impiegato anche come sinonimo di «indefinito», quindi «indeterminato», «informe», senza proprietà, senza volto, e perciò totalmente privo di "attualità": non come il nulla però, bensì come pura disposizione a ricevere qualsiasi determinazione, pura potenzialità. Nella storia del pensiero, l'accesso filosofico all'infinito è stato segnato, specie a partire da Aristotele, dalla nozione di infinito "potenziale", mentre in ambito teologico, con Tommaso d'Aquino, verranno sottolineate le proprietà dell'infinito "attuale", ed in tempi a noi più vicini, con Georg Cantor, l'accesso all'infinito in matematica si arricchirà della nozione di «transfinito».
I. L'infinito dai filosofi Ionici ad Aristotele
1. I filosofi presocratici: gli Ionici, Pitagora, Parmenide, Democrito. La prima scuola filosofica, la cosiddetta Scuola di Mileto (Asia Minore) si caratterizza per la ricerca del principio (gr. arché ) di tutte le cose, che da Talete (640- 560 a .C.) sarà riconosciuto nell'acqua. Per Anassimandro (610- 547 a .C.) le cose sono tali proprio in quanto "definite", mentre è il loro principio ad essere "indefinito" ( á-peiron). Appare così, per la prima volta il termine «infinito», con il senso di «indefinito», «indeterminato». Per Anassimene, poi (585- 528 a .C.), la materializzazione dell' ápeiron di Anassimandro conduce a riconoscere l'aria come origine di tutte le cose, attraverso un meccanismo di rarefazione-condensazione.
Nella Scuola Pitagorica, sviluppatasi a Crotone in Magna Grecia nel VI sec. a.C. a partire dall'insegnamento del suo fondatore Pitagora di Samo, si elaborarono le tesi di Anassimandro e Anassimene ricorrendo - per la prima volta nella storia del pensiero occidentale - ad un fondamento di tipo matematico. Per Pitagora tutte le cose derivano dalla sintesi di "definito-indefinito", di "limitato-illimitato". L'essenza di tutte le cose è quella di essere figure geometriche. Esse ultimamente sono costituite di punti o unità indivisibili, quindi punti-numeri. Le cose sono così definite perché "misurabili" (in quanto enti estesi o figure geometriche) e "numerabili" (in quanto composte da unità indivisibili). La realtà nasce, allora, dall'armonia degli opposti: innanzitutto dalla prima e fondamentale opposizione, quella di "limitato-illimitato", ovvero, rispettivamente, del "dispari" (uno, limitato, forma) e del "pari" (due, illimitato, materia), visto che dall'uno e dal due si possono costruire tutti i numeri e anche tutte le figure geometriche. Le altre opposizioni derivate dalla precedente sono quella di "diritto-curvo"; "quiete-movimento", etc. Si incomincia ad intravedere il ruolo dell'illimitato, dell'infinito come "disposizione" a ricevere determinazioni.
Un primo collegamento fra la problematica metafisica e quella antropologica si ha con Parmenide di Elea (520- 440 a .C.) grazie al quale viene per la prima volta tematizzata la nozione di essere nel pensiero occidentale. Parmenide afferma l'identità tra il pensiero e l'essere: concepisce l'essere univocamente, come "genere generalissimo", come un'unica nozione, la più universale di tutte, che ancora non si dice «in molti modi» come, invece scopriranno Platone e Aristotele. Si deve a Parmenide la formulazione di quella legge logica fondamentale che è il «principio di non contraddizione», che per Parmenide è anche la legge "metafisica" fondamentale, senza distinguere fra un uso metalogico ed uno metafisico del principio, com'è invece indispensabile per evitare confusioni ed errori. Con queste premesse, Parmenide afferma il carattere puramente apparente della molteplicità quantitativa, della diversità qualitativa e del divenire nelle sue diverse forme. Melisso di Samo, suo discepolo, snida la contraddizione di questa visione: se l'essere è un unico ente, esso non può essere illimitato, perché "illimitato" indica un non-essere, una negatività (qui "infinito" come privo di delimitazione, viene inteso come indetermniato, imperfetto). Esso sarà dunque limitato, uno "sfero". Ma se è limitato e tutto l'essere è per definizione nello sfero, chi limiterà lo sfero? Tale limite dovrebbe essere "fuori" dello sfero. Ma se tutto l'essere è nello sfero chi potrà limitarlo se non il non-essere? Ma il non-essere non è, quindi, comunque l'essere venga considerato, limitato o illimitato, avrà a che fare col non-essere: di qui l'antinomia. Come si vede, la metafisica parmenidea, come ogni metafisica razionalista - ma anche, modernamente, come ogni metalogica formalista - è intimamente esposta ad antinomia.
Una prima risposta a Parmenide si ha attraverso Democrito di Abdera (460- 370 a .C.) che dimostra la non-contraddittorietà del molteplice. Infatti, se Zenone, discepolo di Parmenide, aveva mostrato la contraddittorietà della divisibilità all'infinito dell'esteso materiale (cfr. Koyré, 1971, pp. 9-35), d'altra parte per ammettere l'esistenza di parti ultime indivisibili (atomi), della realtà estesa bisognava superare l'accusa di contraddittorietà della nozione di molteplicità numerica fatta da Parmenide e Zenone. Per giustificare la molteplicità non serve l'esistenza del "nulla" (non essere assoluto), ma basta il "vuoto" (non essere relativo, o assenza di materia). L'entità del vuoto non è il non-essere in assoluto, ma la pura e semplice "privazione" o "assenza di materia". Ciò che è contraddittorio è la contrapposizione "assoluta" fra essere e non-essere, ma nulla vieta che qualcosa sia rispetto a qualcosa, e non-sia rispetto a qualcos'altro. Il vuoto è "assenza di materia" e non assurda esistenza del non-essere. Il vuoto non è il nulla, ma il "non-essere di qualcosa". Ugualmente - ma a questa raffinatezza il pensiero matematico arriverà solo più tardi, nel Medio Evo, con la matematica araba - rispetto all'" 1" , con cui enumero una certa entità discreta o atomo, lo " 0" non è affatto un "nulla", ma denota l'assenza di quell'entità o, appunto il vuoto (l'«insieme vuoto» come diranno i matematici nel quadro della moderna teoria insiemistica). Tutto questo aprirà, un po' alla volta, la possibilità di considerare un ente «infinito» in senso positivo, privo di negazioni relative nell'essere, e non solo nel senso negativo di indeterminato.
2. Platone e Aristotele. Sarà tuttavia con Platone, e poi soprattutto con Aristotele, quando si svilupperà quella spiegazione dell'essere, come non univoco, per cui l'«ente» si dice in molti modi, che consente di passare dalla nozione puramente negativa di infinito (come indeterminato) a quella positiva (infinito "in atto"). Platone realizza il primo passaggio in questa direzione con il suo dualismo. Nel cosmo esistono due mondi: l'uno materiale, composto di enti in continuo divenire, l'altro "immateriale", composto di enti immobili nella loro fissità senza divenire. E la definizione della "diversità", pur con i limiti di uno schema dualistico, implica già il superamento della presunta contraddizione affermata da Parmenide, introducendo una possibilità di molteplicità. La "diversità" fra A e B,ad esempio, sebbene implichi che A significhi non-B e che B significhi non-A, non implica più la nozione di non-essere assoluto. Ciò che si nega è qualcosa di determinato di A o di B, non «tutto A » o «tuttoB », ma solo la "forma a " di A e la "forma b " di B. Diversità dunque implica il non-essere relativo, non quello assoluto. I "diversi" non si oppongono per opposizione di contraddizione ( A/non-A ), ma per opposizione di contrarietà ( A/non-a ). Si tratta di un'opposizione secondo la forma, non di un'opposizione secondo l'essere, perché affermando B non si nega «tutto» A, ma solo la sua forma a . Evidentemente, allora, l'ente A o l'ente B non è composto solo dalla «forma», ma anche da una «materia», fisica o intelligibile, a seconda che si tratti di un ente fisico o di un ente logico. Lo sviluppo di questa pregevolissima intuizione platonica, spetterà ad Aristotele, con la sua dottrina dell'atto e della potenza.
Attraverso la distinzione di due principi costitutivi e irriducibili, «materia» e «forma», dell'essenza di ogni ente fisico, sia esso sostanza o accidente, Aristotele fornisce una risposta al problema di Parmenide della presunta contraddittorietà del divenire. Per fare questo, egli considera la materia come "potenzialità ad esistere", o essere in potenza, e la forma come "attualità di essere", come ciò che attualizza determinando la materia ad esistere secondo uno specifico ente in atto. Divenire non è passaggio da essere a non-essere o viceversa, bensì dall'essere in potenza all'essere in atto e viceversa. La distinzione dei modi di essere, in potenza e in atto, consente ad Aristotele di introdurre anche una diversificazione degli enti che rende conto della molteplicità di "sfumature" dell'essere che si riscontrano nell'esperienza e di pensare anche all'infinito in termini di potenza e atto. Nasce in tal modo la distinzione, divenuta classica, tra «infinito potenziale», sempre passibile di "ampliamento" e di attuazione, che non è mai considerato nella sua totalità, e «infinito attuale», un infinito in pienezza che viene invece considerato simultaneamente nella sua totalità.
L'infinità potenziale della materia aristotelica dice un'essenziale, irriducibile indeterminazione del sostrato materiale finito dell'ente fisico. Quest'essenziale indeterminazione della materia è definita da Aristotele come un «essere delimitato, eppure sempre diverso» (Fisica, III, 206a, 34), come quella che sarà poi «l'indefinita variazione del finito» di Cantor (vedi infra, IV). L'infinità potenziale della materia, allora, è ciò per cui la materia, senza la forma, sarebbe un «esser sempre diverso», sarebbe la pura casualità del divenire. Per esempio, una sequenza casuale di numeri è una sequenza in cui non vi è alcuna ripetizione, alcuna periodicità e quindi dove non vi è alcuna funzione o "legge" mediante cui predire il valore successivo, dati i valori precedenti. La materia, in quanto principio costitutivo di ogni ente fisico, dice essenzialmente l'instabilità intrinseca dei moti di un sostrato di elementi. Per questo Aristotele affermava che alla materia compete tanto l'essere in potenza (per se stessa) come l'essere in atto (per la forma). L'infinità in potenza della materia fisica dice, insomma, un divenire assolutamente impredicibile, senza alcuna stabilità o periodicità, ovvero, senza ordine reciproco delle parti, né spaziale, né temporale, predicibile mediante una legge. Perciò la fisica non poteva ridursi, per Aristotele, a geometria, contrariamente a gran parte del pensiero greco e moderno. Vale la pena rilevare come la filosofia della natura aristotelica pare essere proprio quella che meglio rende conto dello stato dell'arte della fisica contemporanea, dopo la scoperta del ruolo preponderante delle instabilità dinamiche nello studio dei sistemi fisici reali.
II. La riflessione di Tommaso d'Aquino e la valenza teologica della nozione di infinito
Rispetto ad Aristotele, Tommaso d'Aquino (1224-1274) puntualizzerà alcune importanti questioni che troveranno, in tempi recenti, un riscontro anche nella trattazione, oggi divenuta classica, data all'infinito da Georg Cantor. Tommaso mostra come la nozione di «infinità in atto» sia di per sé contraddittoria, mentre non è contraddittorio parlare di «oggetti attualmente infiniti», sia "assolutamente" come "relativamente". È di fondamentale importanza, a questo proposito, sottolineare il fatto che, contrariamente a quanto spesso si è ritenuto, Tommaso non rifiuta in blocco l'infinito attuale, ma precisa le condizioni alle quali è corretto parlarne. In particolare, ciò aiuta a capire in che senso per l'Aquinate sia contraddittorio parlare di «oggetti-collezione infiniti in atto» (infiniti in actu), mentre non sia affatto contraddittorio parlare di «oggetti attualmente infiniti» (actu infiniti), sia relativamente (secundum quid), che assolutamente (simpliciter). Tenuto presente che di oggetti infiniti attualmente in senso assoluto può esisterne solo uno, l'Essere Assoluto o Essere Sussistente che Tommaso riconoscerà come attributo filosofico di Dio, tutto ciò porta ad una triplice distinzione riguardo ai generi di infinità: a) oggetti «infiniti in potenza»; b) oggetti «attualmente infiniti in senso relativo»; c) oggetti «attualmente infiniti in senso assoluto». Essi risultano tutti perfettamente consistenti, in contrapposizione alla nozione contraddittoria di «oggetti infiniti in atto». La concezione tommasiana corregge, ampliandola, quella aristotelica che, invece, riconosceva nella scienza due soli tipi di infinito, quello in potenza (consistente) e quello in atto (inconsistente). Sarebbe dunque erroneo ritenere che la messa a punto, operata da Cantor, di metodi insiemistici per confrontare rigorosamente i diversi tipi d'infinito in matematica, smentisse la dottrina scolastica che considerava tout court contraddittoria la nozione di infinito in atto, eccetto che quando applicata alla divinità.
Uno studio attento dell'opera dell'Aquinate mostra che la nozione di «infinito attuale relativo» ( infinitum actu secundum quid ) era da lui perfettamente riconosciuta come non contraddittoria, e dunque ammissibile come ente logico, anche se non come nozione "costruttiva" (cioè come infinitum "in actu" ), perché sarebbe contraddittorio concepire un infinito come potenziale e insieme come completamente attuato. Ha dunque senso, per Tommaso, parlare dell'attualità di un «infinito relativo» solo come infinità negativa di una certa totalità, secondo una sua specifica modalità di essere. Ad esempio è perfettamente consistente affermare, per lo stesso Tommaso, che la totalità dei numeri naturali è infinita perché non esiste né può esistere un numero naturale massimo di una qualsiasi successione infinita di numeri naturali: in altri termini, se si vuol parlare di un «estremo superiore» di un insieme come quello dei numeri naturali, occorre pensarlo all'esterno dell'insieme stesso dei naturali, come qualcosa che è di altro genere (un numero transfinito nel senso di Cantor) e non all'interno della succesione, come suo numero "massimo".
In merito all'infinito come attributo di Dio va ricordato che egli dedica all'argomento un'intera questione nella Prima Pars della Summa theologiae (I, q. 7: De inifinitate Dei), subito dopo la Bontà di Dio e immediatamente prima dell'esposizione circa la Presenza di Dio in tutte le cose (che della riflessione sull'infinito raccoglie in parte i risultati: cfr. q. 8, a . 4), riconoscendo Dio come «l'Essere sussistente, infinito e perfetto». L'ordine dei quattro articoli è discendente, dal livello teologico-filosofico a quello fisico ed infine matematico, passando dalla domanda «Se Dio sia infinito» (a. 1), a quella «Se qualche altra cosa oltre a Dio possa essere infinita per essenza» (a. 2), a «Se si possa dare un infinito attuale in estensione» (a. 3), per chiedersi in chiusura «Se nella realtà si possa dare un infinito numerico» (a. 4).
Nella logica della quaestio , l'infinità di Dio viene fatta discendere dalla sua realtà di Atto puro, dalla convergenza fra la sua pienezza di Essere e la sua incondizionata capacità di essere causa omnium formarum , senza avere in Sé alcuna composizione di materia. Mentre l'infinito attribuito alla materia contiene sempre qualche restrizione, la forma è invece di per sé illimitata e conosce limitazioni solo se unita alla materia che attualizza, cosa che in Dio non si dà. L'infinito che si attribuisce a Dio non è l'infinito che compete alla quantità, bensì quello che compete all'Atto puro che determina, e perciò trascende, ogni quantità nell'ordine materiale. L'infinità propria delle forme destinate ad unirsi alla materia (ma anche della materia destinata ad unirsi a molte possibili forme, come quelle che può assumere la materia di un determinato tronco di legno lavorato dall'artista) è sempre limitata (e dunque infinita solo in senso relativo), perché condizionata dalla "relativa" infinità di ciò che è composto. Per gli angeli, nei quali non vi è composizione di materia, la non infinitezza assoluta delle forme è dettata dal fatto che essi, pur nella loro spirituale molteplicità, posseggono una natura "determinata", cosa che non si predica invece di Dio: se vi è qualcosa di infinito oltre a Dio, può trattarsi solo di un «infinito in senso relativo ma non in senso pieno e assoluto» (q. 7, a . 2, resp.). Ne discende che non possono darsi infiniti attuali assoluti nell'ordine dimensivo, né fisico né geometrico, perché trattasi sempre di enti che posseggono una forma determinata.
Il tema dell'attributo di Dio come «Infinito» resterà caro alla teologia medievale, che ne aveva forse conosciuto la prima formulazione speculativamente interessante nelle riflessioni di Anselmo di Aosta (1033-1109), quando all'inizio del Monologium si riferiva a Dio come a «ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande» ( id quod maius cogitari nequit) per parlarne poi, nell'itinerario del Proslogium, come «qualcosa sempre più grande di ciò che si può pensare» (quiddam maius quam cogitari possit). Nel primo caso si tratterebbe di una nozione che tutti gli uomini sono per natura predisposti a riconoscere significativa, mentre il secondo caso è piuttosto una conclusione del pensiero credente che confronta la sua conoscenza di Dio con tutto quanto non è Dio. Accanto agli attributi che confessano l'onnipotenza, la verità, la bontà o l'onniscenza di Dio, quello che si riferisce alla sua "infinità" ha trovato posto in alcune professioni di fede del Magistero, come quella del Concilio Vaticano I (1870): «Creatore e Signore del cielo e della terra, onnipotente, eterno, immenso, incomprensibile, infinito nel suo intelletto, nella sua volontà, e in ogni perfezione» (DH 3001), sebbene vada ugualmente ricordato che il termine, di per sé filosofico, non è quasi presente nella Scrittura. Quest'ultima accede infatti alla "infinità" divina attraverso altre chiavi di lettura, di indole storico-salvifica o anche esistenziale, quali la sua onnipotenza e signoria sulla storia e la cifra incommensurabile del suo amore per l'uomo rivelatosi in Cristo, come ben espresso da una nota pagina paolina: «Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19).
III. L'infinto della scienza galieliana e newtoniana
È senza dubbio corretto identificare la nascita della scienza e della matematica moderne, nel loro proficuo e continuo reciproco fecondarsi, nella dimostrazione offerta da Galileo Galilei (1564-1642) della legge della caduta dei gravi e nella conseguente necessità di ammettere l'«infinità attuale» come componente indispensabile del framework teoretico della "nuova" scienza (cfr. Koyré, 1974, pp. 87-98). Infatti la supposizione galileiana che ogni corpo in movimento dovesse percorrere attualmente "tutti" gli infiniti «momenti di velocità minore (o di tardità maggiore)», contro la medievale teoria (non aristotelica) dell' impetus , implicava necessariamente l'accettazione dell'attualità dell'infinito. Sappiamo come Torricelli (1608-1647) e Cavalieri (1598-1647) - allievi dello scienziato pisano in quella «geometria degli infinitesimi», che pur senza conoscere il Metodo di Archimede (scoperto solo nel 1906), tuttavia ne continuava ed approfondiva il messaggio - usassero l'idea di divisibilità di un continuo in un insieme infinito in atto di parti indivisibili. E sappiamo come Cavalieri, a differenza di Torricelli, che aveva un atteggiamento più pragmatico, pensasse di poter dare dignità dimostrativa al metodo degli indivisibili (principio di Cavalieri), e non di semplice euristica come invece Archimede supponeva (cfr. Koyré, 1976, pp. 300-311). Questo seppure Cavalieri non osò mai affermare che il continuo fosse composto da infiniti indivisibili, asserzione non dimostrabile razionalmente (cfr. Koyré, 1973, pp. 334-361).
Galilei, invece, introduce un principio, diremmo così, "parmenideo" in tutta la discussione, legando l'esistenza degli infinitesimi, da una parte, alla necessità della loro pensabilità, dall'altra alla loro non contraddittorietà secondo un particolarissimo ragionamento. Egli affermava, infatti, che il continuo è composto dai suoi infiniti indivisibili «non quanti». Intendeva così ribaltare la critica degli aristotelici affermando che, siccome una quantità estesa può essere divisa in un numero infinito di parti, ciò suppone che le parti siano infinite, altrimenti «la divisione sarebbe terminabile». D'altra parte, se queste parti infinite fossero «quante», la loro infinità implicherebbe che l'estensione risultante dalla loro composizione fosse infinita. Quindi ogni continuo è composto di infinite parti indivisibili non-quante (cfr. Lombardo-Radice, 1981, p. 33).
Per capire un simile modo di procedere piuttosto originale, bisogna comprendere come, per Galilei, conformemente alla matematica greca euclidea, le «unità» non fossero «numeri» bensì espressione di rapporti di proporzionalità fra grandezze continue. Un principio che aveva un immediato significato sperimentale per lui, che effettuava i suoi calcoli usando soltanto numeri interi e frazioni di essi, calcolandoli come rapporti derivati da misurazioni di grandezze continue, che egli variava per rendere tali rapporti tutti «razionali». E, come gli storici dimostrano, fu proprio lavorando a due di queste tabelle in parallelo, l'una che riportava le variazioni (raddoppio) di lunghezza l del suo pendolo, l'altra che riportava i tempi t necessari al pendolo per compiere metà periodo di oscillazione, misurati in «grani d'acqua» del suo ingegnosissimo orologio ad acqua (del quale egli poteva regolare l'intensità del flusso), che s'accorse della legge della caduta dei gravi nella forma del quadrato dei tempi. Si accorse infatti che, assumendo che ciascun tempo sia la media geometrica fra il numero 2 e la lunghezza del pendolo, le due tabelle diventano correlate riga per riga. Variando opportunamente le due grandezze in questione, si accorse insomma che la relazione era biunivoca solo se quel rapporto era soddisfatto (cfr. Drake, 1990, p. 16ss).
Riportandola al suo ambito sperimentale originario, si comprende così l'idea che Galileo aveva del continuo fatto di indivisibili non-quanti. Con una genialità tutta italiana egli tentava di ricondurre la nuova scienza sperimentale nell'alveo della grande tradizione greca, che non considerava l'unità (fondamento della quantificazione discreta) come un numero, ma come un generatore di insiemi numerici reciprocamente irriducibili, ottenuti attraverso l'operazione di successione. Viceversa, l'inizio della matematica moderna si identifica proprio con la rinuncia a questa reciproca irriducibilità fra insiemi numerici fondata sul carattere non numerico dell'unità, considerando numeri anche quei rapporti irrazionali che i Greci invece consideravano come non-numeri. Una considerazione che, attraverso l'invenzione del calcolo infinitesimale e la progressiva definizione del concetto di «limite», porta alla teoria dei numeri reali di Dedekind (cfr. Courant e Robbins, 1988, pp. 130-131), e quindi alla teoria cantoriana degli insiemi come suo primo tentativo di sistematica coerente. Correlativamente, la storia della scienza moderna portò all'abbandono dell'originaria formulazione del calcolo infinitesimale per "indivisibili", difesa da G. Leibniz (1646-1716), risolvendo il paradosso di Zenone, implicito nell'affermazione che la somma di infinite parti quante porta sempre ad un risultato infinito, attraverso la scoperta delle serie convergenti e la sua applicazione alla fisica da parte di I. Newton (1642-1727). Scoperta, legata a quell'algebrizzazione della geometria cui R. Descartes (1596-1650) diede un non piccolo contributo. Per fondare il calcolo infinitesimale sembrava così non esserci più bisogno dell'infinito attuale, ovvero di considerare, "tutti" i punti, "tutte" le linee o "tutti" i piani compresi fra due punti qualsiasi di una retta, fra due lati di un poligono o fra due superfici di un volume. Si parte invece da una suddivisione "finita" e, in relazione ad essa, si fa un calcolo approssimato. Il calcolo approssimato si tramuta in calcolo esatto quando il numero delle parti tende all'infinito, divenendo ciascuna parte "evanescente", ed in questo senso infinitamente piccola, cioè «infinitesima». Veniva così introdotta implicitamente da Newton la nozione di «limite», che attraverso successive tappe, tendenti a rendere formalmente rigorosa tale nozione, condusse alla sua successiva formulazione ottocentesca, portandoci così fino a Georg Cantor (1845-1918).
IV. L'infinito di Cantor
1. Tre generi di infinito. È ormai storicamente certo che Cantor considerava tre generi d'infinito (cfr. Hallett, 1984, pp. 8-10), con una modalità di distinzione che ha molti punti in comune con quella tommasiana (vedi supra, II): a) l'infinito «in potenza», indeterminato e incrementabile, b) l'infinito «transfinito», determinato e incrementabile, c) l'infinito «assoluto», determinato e non incrementabile che - anche per Cantor - era soltanto predicabile di Dio, l'Essere Assoluto. Tale distinzione era usata dal matematico di Pietroburgo per opporsi a due generi di strumentalizzazione illuminista della scienza e della matematica moderne, l'una di indole spinoziana, l'altra kantiana, confutandone due capisaldi.
Il primo orientamento si basava sull'equivalenza spinoziana fra Dio e Natura (Deus sive Natura), fondamento dell'ateismo teoretico moderno. Tale equivalenza si basa sulla supposta riducibilità di ambedue le nozioni ad una medesima nozione di infinità attuale, completamente determinata, come fondamento immanente sia dell'ordine della natura, sia della necessità ed universalità delle spiegazioni della «nuova scienza geometrica» galileiano-cartesiana della natura. Il secondo orientamento è quello kantiano, che concepiva l'infinità attuale come limite di quella potenziale, fondandosi sulle quattro antinomie kantiane, antimetafisiche, circa l'idea di mondo (finitezza/infinità, discrezione/continuità, indeterminismo/determinismo, causato/incausato), tutte fondate sulla medesima concezione dell'infinità attuale assoluta come limite del finito.
Contro ambedue questi capisaldi della filosofia illuminista e del suo programma anti-metafisico, si pone la distinzione cantoriana fra infinito attuale relativo, o «transfinito», come nozione matematica, e l'infinito attuale «assoluto», come nozione metafisica e teologica, attributo tipico della natura divina, assolutamente inattingibile alla conoscenza matematica. Purtroppo, Cantor pensò di dover contrapporre la sua visione dell'infinito a quella tomista e si deve soltanto alla sua scarsa conoscenza del pensiero dell'Aquinate, e alla scarsa erudizione di alcuni suoi interlocutori, se egli ritenne di dover opporre sistematicamente questa sua concezione dell'infinità attuale in matematica alla dottrina scolastica sull'infinito attuale, in particolare alla dottrina tomista. Con Cantor la necessità dell'infinità attuale riappare in un senso che coniuga istanza "parmenidea" e istanza "platonica". La necessità dell'esistenza dell'infinito attuale viene a legarsi alla necessità della sua pensabilità (istanza parmenidea), proprio in relazione alla definizione rigorosa della nozione di limite nel calcolo analitico ed alla definizione di Dedekind di «numero reale» come limite di una successione di «razionali», non appartenente alla successione stessa. Queste due nozioni implicano infatti, perché la matematica fondata su di esse risulti davvero autoconsistente (istanza parmenidea), che l'indefinita variazione del finito (infinito potenziale) richiesta dalla nozione di limite, supponga a sua volta la «completa determinazione» a priori del dominio della variazione (istanza platonica). «Non vi è dubbio che noi non possiamo fare a meno di quantità variabili nel senso dell'infinito potenziale; e da questo può essere dimostrata la necessità dell'infinito attuale. Affinché vi sia una quantità variabile in una teoria matematica, il "dominio" della sua variabilità dev'essere strettamente parlando conosciuto in anticipo attraverso una definizione. Comunque, questo dominio non deve essere a sua volta qualcosa di variabile, altrimenti qualsiasi base fondata per lo studio della matematica verrebbe meno. Quindi questo dominio è un insieme di valori definito, attualmente infinito» (Cantor, 1886, p. 9).
Le tre nozioni di infinito sono strettamente legate a tre principi fondamentali che danno unità a tutto il pensiero cantoriano: il riduzionismo, il finitismo e l'istanza (o la postulazione) di un Assoluto. La necessità che la matematica, al suo livello più fondamentale, dovesse occuparsi di "domini completi di variazione", così da considerarli i suoi oggetti propri, portò Cantor ad affermare la tesi che, a tale livello fondante, la matematica dovesse interessarsi di oggetti-collezione, ovvero di «insiemi». Ridurre tutti gli oggetti pensabili senza contraddizione a insiemi può essere definito il "riduzionismo" della teoria degli insiemi di Cantor. Egli decise poi di trattare le stesse infinità matematiche come "oggetti finiti", ovvero come "totalità chiuse", cosa che lo condusse, come sappiamo, a sviluppare la sua teoria dei «transfiniti» a cui sperava poter ridurre la stessa nozione di continuo, in particolare quella legata alla rielaborazione di Dedekind. Infine, probabilmente a motivo di un pregiudizio platonico di fondo, egli individuò la necessità che tutte le entità matematiche pensabili, e quindi tutti gli insiemi, facessero parte di qualche "collezione assoluta" nella quale risultassero tutti definiti, affinché questi potessero godere di consistenza ultima. Allo stesso tempo, era però necessario che questa collezione assoluta non fosse matematicamente determinabile, ed in particolare non fosse a sua volta un «insieme»; e ciò allo scopo di sfuggire alle relative antinomie.
La genialità di Cantor, universalmente riconosciuta in matematica solo dopo David Hilbert (1862-1943), consiste nel fatto che egli aveva già compreso il nucleo di ogni antinomia. Pur vicino, in vari aspetti del suo pensiero, a Von Neumann (1903-1957), Cantor se ne distanzia, perché la sua fondazione delle collezioni assolute non è assiomatica, ma metafisica. In ogni caso, la dimostrazione cantoriana, attraverso l'antinomia dell'«insieme potenza» (l'insieme di tutti i sottoinsiemi di un insieme dato), della contraddittorietà dell'«insieme universale», o «insieme di tutti gli insiemi», non è una sorta di incidente di percorso nello sviluppo della sua ricerca, ma qualcosa di profondamente legato alla radice platonica della sua metafisica riguardo all'impredicatività ultima dell'Uno che, almeno in questo, è profondamente anti-parmenidea. L'Assoluto non può essere pensato, senza contraddizione, come un insieme predicativamente specificato, ovvero come una "totalità dell'essere" o un "intero semantico". Allo stesso tempo, l'altra radice, quella parmenidea, della metafisica cantoriana, legata alla supposizione che la pensabilità implica formalmente l'esistenza, ci fa vedere come, in fondo, non si può essere platonici senza accettare di essere parmenidei (in termini cantoriani: «ciò che non è contraddittorio esiste» ed esiste nella «collezione Assoluta», il che implica che qualsiasi ente per esistere deve appartenere alla collezione Assoluta, risultando così ogni ente impredicativamente costituito nell'esistenza). Di qui la "struttura originaria" autentica di ogni contraddizione.
L'esiziale "indecisione" fra istanza platonica (non definibilità dell'Assoluto come insieme o totalità infinita "chiusa", e quindi sua "trascendenza" rispetto alla matematica predicativa, ma sua necessità per la matematica come collezione assoluta dove tutti i non contraddittori già esistono e da sempre) e istanza parmenidea (l'esistenza dipende dalla non contraddittorietà, e dunque dall'appartenenza al tutto) è a nostro giudizio la radice ultima della debolezza teoretica della teoria cantoriana degli insiemi. E proprio la centralità della questione dell'"unità" dell'insieme e del fondamento di questa unità, sarà il culmine della riflessione cantoriana, in particolare dopo la scoperta dell'antinomia di Burali-Forti (1861-1931) che evidenzia la contraddittorietà dell'idea di «ordinamento assoluto». Essa, dall'interno della teoria cantoriana stessa, fece riflettere Cantor proprio sulla consistenza della sua idea di collezione assoluta, senza però mai farlo arrivare a dubitare che l'esistenza stessa di un insieme non dovesse fondarsi ultimamente su questa appartenenza alla collezione assoluta.
Impostata così la questione filosofica della retta comprensione dell'"infinito attuale" cantoriano, veniamo a considerare l'aspetto più costruttivo della sua teoria degli insiemi. La sua positiva considerazione dell'infinito attuale «transfinito». Questa nozione ci introdurrà immediatamente nella considerazione dell'antinomia dell'insieme-potenza, preziosissima controprova per Cantor che l'Assoluto non può essere pensato come un insieme ordinario.
2. La nozione di transfinito. Nel suo studio sull'infinito in matematica e filosofia, introducendo la teoria di Cantor sui transfiniti, Lucio Lombardo Radice (1981) afferma che il centro costruttivo dell'idea di Cantor è la critica alla nozione di limite che Kant ha introdotto nella filosofia moderna con le sue antinomie del continuo. L'idea, cioè, che «il limite del finito sia l' assoluto ». Questo sarebbe vero se esistesse un solo modo di considerare l'infinito attuale, ma per Cantor ciò non è vero: esiste, come sappiamo, anche l'infinito «transfinito», ovvero, l'infinito "determinato", specificato entro un limite, eppure "incrementabile", dove non tutti i termini della serie sono «attualmente definiti» (cioè enumerati). Cantor dimostra che qualsiasi insieme infinito di elementi che sia possibile "contare", ovvero porre in corrispondenza biunivoca con l'insieme infinito N dei naturali N = {1, 2, 3, 4, ., n , .} ha la «potenza del numerabile», ovvero ha lo stesso «numero cardinale infinito di elementi». È facile dimostrare che, p. es., l'insieme Z degli interi relativi Z = {. - n . -3, -2, -1, 0, 1, 2, 3, ., n , .} è numerabile, ovvero ha la stessa potenza del numerabile. Con un'analoga procedura si può dimostrare che anche l'insieme Q di tutti i numeri razionali ha la potenza del numerabile, e, addirittura che anche l'insieme U di tutti i numerabili è ancora numerabile. Teorema potentissimo, questo, che fa vedere come un insieme infinito può avere la stessa potenza di una sua parte propria . Ma affermare che un insieme infinito ha la stessa potenza di una sua parte propria, non significa assolutamente negare il principio classico secondo cui «la parte non può essere uguale al tutto». Difatti, «avere la stessa potenza» non vuol dire assolutamente «essere identici» (cfr. Lombardo Radice, 1981, pp. 52ss): una "parte", per definizione, manca di qualcosa che il "tutto" ha, quindi non può mai essere identica al tutto. Per lo stesso motivo bisogna prestare molta attenzione all'attributo di infinito attuale applicato da Cantor al suo transfinito. Nel linguaggio di Tommaso d'Aquino, gli infiniti «determinati ma incrementabili» di Cantor, le totalità infinite che questi ci insegna a trattare attualmente, sarebbero semplicemente degli infiniti attuali, non "in atto" perché incrementabili, secundum quid , ovvero essenzialmente dei "finiti", perché tutto ciò che è determinato e/o specificato, è perciò stesso "delimitato" entro un'essenza, seppure si tratta di "infiniti" rispetto a qualche loro modalità o proprietà. Nel caso di Cantor, l'elemento di indeterminatezza è proprio l'incrementabilità del transfinito, il fatto cioè che si possa pensare una totalità infinita come specificata, pur se all'interno lacunosa. «I termini di una serie infinita sono tutti individuabili dalla legge di formazione della serie stessa, che rende superflua l'enumerazione dei suoi termini: è la legge ad individuare la serie, e non "tutti" i termini contati uno per uno» (Zellini, 1980, p. 195).
Partendo dalla differenza specifica della «numerabilità», Cantor ha definito un criterio di uniformità che gli ha permesso di estendere rigorosamente il concetto di numerabilità ad altri insiemi numerici. Avendo scoperto come correlare gli elementi di un insieme infinito, per renderli enumerabili (cioè porre i loro elementi in corrispondenza biunivoca con quelli di N mediante un particolare ordinamento), Cantor ha potuto anche scoprire l'equipotenzialità fra Z, Q ed N. Avendo una differenza specifica in comune (la numerabilità), essi appartengono ad uno stesso genere, quello che egli ha definito il «transfinito di ordine minimo»: l'ordine transfinito fondamentale degli infiniti con la potenza del numerabile. Mostrando, però, di non conoscere il principio metafisico tomista della differenza reale fra essenza ed esistenza, ovvero, perdurando in lui il pregiudizio parmenideo dell'esistenza del non contraddittorio (essenza = esistenza), non si accorse che, se avesse riletto la sua scoperta alla luce della differenza essenza-esistenza, avrebbe trovato il modo per ottenere quel principio generalizzato ed universale di «limitazione della dimensione di un insieme» che egli cercò inutilmente lungo tutta la sua vita e che avrebbe risolto ogni antinomia. Così, egli continuò ad interpretare quell'incrementabilità dell'insieme transfinito nei termini di pura contingenza logica. Ovvero, quegli elementi non attualmente definiti all'interno del transfinito continuò a considerarli come "altrove" formalmente esistenti, all'interno della «collezione Assoluta», fallendo così nel tentativo di fondare sui transfiniti la reductio ad unumda lui invano cercata. Di qui l'inconsistenza finale della sua giustificazione della nozione di insieme ed in particolare della nozione insiemistica di numero che ha aperto la via alle assiomatizzazioni.
3. La potenza del continuo. Dall'antinomia dell'insieme-potenza all'assioma dell'insieme-potenza. Un'altra conseguenza importantissima della teoria cantoriana è il fatto che i numeri reali, posti da Dedekind in corrispondenza biunivoca con i punti del "continuo", e dunque il continuo stesso, eccedono la potenza del numerabile. Infatti, i numeri reali sono definiti da Dedekind come il limite di una successione di razionali, limite che sta "fuori" di una qualsiasi di queste successioni. Il problema che allora Cantor si pose fu il seguente. Il continuo ha potenza maggiore della potenza del numerabile (chiamata « alef -0»): ma la potenza del continuo è quella immediatamente superiore a quella del numerabile? Siccome Cantor non riuscì a costruire cardinali transfiniti compresi tra la potenza del numerabile e la potenza del continuo, formulò la congettura della cosiddetta «ipotesi del continuo» (Continuum Hypothesis, CH), e cioè che «il continuo è la potenza immediatamente successiva alla potenza del numerabile».
Immediatamente legata alla nozione di insieme potenza, come «insieme di tutti i sottoinsiemi di un insieme dato», vi è l'«antinomia dell'insieme potenza», ovvero la contraddittorietà di ammettere un insieme di potenza massimale, o «insieme universale». Se osserviamo la costruzione dell'insieme potenza di un insieme A, vediamo che esso contiene anche lo stesso A come suo sottoinsieme. Ne consegue che «ogni insieme è sottoinsieme [proprio] del suo insieme potenza perciò non può esistere l'insieme di tutti gli insiemi o insieme universale U», perché dovrebbe essere sottoinsieme proprio del suo insieme-potenza, e non sarebbe quindi più insieme universale, in contraddizione con la sua stessa definizione.
Come abbiamo visto, la dimostrazione dell'antinomia dell'insieme potenza era funzionale alla nozione neoplatonica di «collezione Assoluta» e dunque alla nozione di trascendenza come pura "indicibilità". Nozione fortemente condizionata, fra l'altro in Cantor, dalla teologia agostiniana sul numero che poneva la totalità dei numeri attualmente infinita come pienamente conosciuta nella mente di Dio (cfr. Agostino, De civitate Dei, XII, 18; cfr. Hallett 1984, pp. 35-37).
Più tardi, poi, fu scoperta l'antinomia di Burali-Forti, che dimostrò come non solo l'idea di un insieme universale fondato sui numeri cardinali, ma anche quella di un «ordinamento assoluto» fosse contraddittoria. Ciò dipende dalle originali proprietà dei transfiniti ordinali. Infatti, mentre le proprietà di numeri ordinali finiti coincidono con quelle dei cardinali finiti, non così per gli ordinali infiniti. Quest'antinomia pone in crisi l'idea cantoriana stessa di «assoluto», come insieme massimale di tutti gli ordinamenti transfiniti. Infatti se questo insieme ordinale massimale esistesse, il suo elemento limite dovrebbe (in quanto è l'insieme massimale) e non dovrebbe (in quanto elemento limite) appartenere all'insieme ordinale «assoluto» che esso ordina.
V. Osservazioni conclusive
Il concetto di infinito si presenta, in conclusione, una nozione dotata di più di un significato. A partire dai primi pensatori che la identificavano prevalentemente con l'"indeterminato" (Anassimandro, Parmenide), o l'"interminato", cogliendone prevalentemente il valore negativo di imperfezione, essa è poi evoluta grazie alla comprensione dei diversi modi di dirsi della nozione trascendentale di "ente" (analogia entis ), fino ad assumere un valore positivo di attualità piena e perfetta, priva di ogni limitazione (Platone e Aristotele). Questo percorso di elaborazione della nozione nei suoi diversi significati si è reso possibile con i contributi concorrenti e cooperanti della matematica, della metafisica e della teologia. Da un lato la matematica aveva bisogno di spiegare la molteplicità dal punto di vista numerico: non si dà solo l'uno, ma anche il due, come osservavano i Pitagorici, e da questa diade si rende possibile la costruzione di tutta la successione dei naturali, e quindi degli interi e dei razionali, intesi come successori dell'uno (come, in tempi moderni, l'assiomatizzazione di Peano basata sui concetti primitivi di "uno" e di "successore"), e infine degli irrazionali, definiti come limiti a cui tendono certe successioni di razionali (Dedekind). Dall'altro lato la metafisica aveva bisogno sia di spiegare la molteplicità dell'essere (e quindi il moto e il divenire), che sarebbe risultata una pura apparenza in una prospettiva parmenidea, sia di risolvere la contraddizione di un ente totalmente indifferenziato (Melisso).
Questa molteplicità, una volta fondata per l'ente come tale in fisica-metafisica (già con Democrito), e per il numero (più tardi per gli insiemi) in matematica, poteva presentarsi, almeno concettualmente, come finita o come infinita, come incrementabile o non incrementabile. Aristotele, con la sua dottrina della potenza e dell'atto, riesce a spiegare la molteplicità differenziata dell'ente e a concepire l'infinito stesso come potenziale, quindi attualmente finito ma incrementabile all'infinito oppure attualmente infinito e non ulteriormente incrementabile. Tommaso d'Aquino e Cantor distinguono ulteriormente l'infinito attuale in relativo ( secundum quid per Tommaso e «transfinito» per Cantor) e assoluto. Un oggetto infinto, infatti, in quanto considerato attualmente come un'unica "cosa", può essere relativamente infinito quando non possiede al suo interno qualcosa che lo delimiti - come avviene per la successione dei numeri naturali - oppure assolutamente infinto come accade quando un infinto non possiede limitazione alcuna né al suo interno né al di fuori di esso, essendo perfettamente attuato, - come accade solo in Dio. Ed è proprio l'analogia dell'ente che consente di concepire questa attualità infinita assolutamente in atto, evitando la contraddizione parmenidea, in quanto collocata ad un livello dell'ente che è "oltre ogni altro tipo" di ente, oltre ogni distinzione dei generi e delle differenze (trascendenza). A questo livello la metafisica si incontra con la teologia: l'infinto attuale assoluto del Dio metafisico si riconosce nel Dio rivelato della teologia, il primo intravisto dalla ragione naturale, che ne dimostra l'esistenza e gli attributi principali tra i quali quello dell'infinità, il secondo comunicato dalla Rivelazione, iniziativa di Dio stesso, che svela alla ragione umana sia ciò che essa, pur con difficoltà e rischio di errori, può conoscere di Lui, sia quello che da sola non potrebbe mai neppure immaginare.
Ciò che è importante dal punto di vista logico, sia per la matematica che per la metafisica e per la teologia, è il risultato teoretico - parte dei fondamenti comuni di queste tre discipline - che non è contraddittorio pensare all'infinito attuale ed anche a molti generi di infiniti attuali, alcuni però relativi ed uno solo Assoluto, assolutamente semplice.
Crediamo di poter dire, in conclusione, che dopo Cantor e Russell abbiamo oggi imparato che, per una scienza, il rigore di un formalismo spinto, quale solo un approccio costruttivo può garantire, può essere usato solo con un sottoinsieme degli oggetti propri di quella scienza. Ovvero limitando la dimensione degli insiemi costruibili, degli insiemi cioè la cui esistenza può essere dimostrata, e non solo supposta mediante un apposito assioma. La sfida che oggi si apre è allora: questo sottoinsieme degli oggetti costruibili dev'essere fisso o può variare, variando con esso gli assiomi del sistema formale relativo? Detto in altri termini: entro la collezione universale devono essere supposti come attualmente esistenti tutti gli oggetti, oppure possono essere concepiti come esistenti, volta per volta, un diverso sottoinsieme di essi, essendo tutti gli altri solo virtualmente esistenti? Dove con "virtualmente esistenti" s'intende "chiamati ad esistere attualmente", mediante un'opportuna procedura dimostrativa - quindi costruttivamente - ogni volta che se ne presenti la necessità logica. Questo è il suggerimento che la visione tomista sembra poter dare alle ricerche che sfidano quegli studiosi che oggi, occupandosi della teoria dei fondamenti, sono giunti di fatto alle soglie della metafisica, incontrandosi ormai con le problematiche che impegnarono le migliori menti dell'antichità. E da questo incontro potranno maturare verosimilmente dei frutti utili sia alla matematica, che alla metafisica e alla teologia, in quanto collocati al livello di una teoria dei fondamenti comuni delle diverse discipline quali premesse indispensabili di una sintesi che restituisca al sapere il suo equilbirio e la sua unità.
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