In questo saggio Jaspers ripercorre l’itinerario storico dei rapporti fra filosofia e scienza mostrando come la prima ha influito sulle visioni totalizzanti della seconda. In realtà neanche la filosofia dovrebbe, secondo il filosofo tedesco, concedersi a visioni troppo unificanti se queste sono costruite su analisi parziali o rispondono a preconcetti del soggetto. Va invece privilegiata la philosophia perennis, capace di attingere all’universalità dell’essere. Per fare bene il suo lavoro il filosofo deve ascoltare quanto dicono le scienze, venendo da esse aiutato a mantenersi aderente alle esigenze dettate dal reale. Come l’uomo di scienza deve ascoltare il filosofo per comprendere che la sua attività, lungi dal costituirsi in emancipazione dal sapere filosofico, se ne nutre continuamente.
Sin da quando ebbe inizio, la filosofia si è presentata come scienza, come la scienza senz’altro. La meta, versa cui presero il volo coloro che si dedicarono al sua servizio, fu la conoscenza più alta e più certa.
Il problema se la filosofia sia scienza ha potuto porsi soltanto a partire dallo sviluppo delle scienze, in senso specifico, moderne. Le quali hanno compiuto, nel secolo XIX, la loro evoluzione per lo più senza filosofia, spesso in opposizione alla filosofia, insomma in atteggiamento di indifferenza di fronte a essa. Se ora si chiede che la filosofia sia scienza, ciò significa qualcosa di nuovo, e cioè: che essa, la filosofia, debba essere scienza allo stessa modo di queste scienze moderne, casi convincenti per l’opera loro. Se non può essere scienza in questa senso, vuol dire che essa è diventata senza oggetto e potrà benissimo scomparire.
Alcuni decenni or sono era assai diffusa l’opinione che la filosofia avrebbe continuato a sopravvivere sino che a una a una si fossero staccate da essa, scienza originaria e universale, tutte le scienze. E ora, dopo che ogni sfera di ricerca è stata assegnata, la filosofia dovrebbe aver fatto il suo tempo. Dopo che si è acquistata consapevolezza delle fonti da cui la scienza trae la sua universalità vincolante, si sarebbe pure dimostrato che la filosofia in base a questi stessi criteri non ha più ragione di essere. Essa produce pensieri vuoti, perché mette innanzi asserzioni indimostrabili; essa non si fonda sull’esperienza, seduce illudendo, sottrae le energie necessarie alla ricerca autentica, per dissiparle in un’azione di nessun conto, in una chiacchiera generale sopra il tutto.
Tale immagine della filosofia si era formata alla luce della. scienza intesa come conoscenza metodica, vincolante e universale. Avrebbe ancora potuto una filosofia atteggiarsi a scienza? Di fronte a questa domanda si ebbero due diverse reazioni.
In primo luogo: si riconobbe giusta l’offensiva contro la filosofia. I rappresentanti della filosofia si ritirarono quindi su posizioni più ristrette. Se è vero che la filosofia è giunta alla sua fine per aver ceduto tutti i propri oggetti alla scienza, rimane tuttavia da conoscere la sua storia, prima di tutto come un fattore della storia delle scienze stesse, in secondo luogo come un evento della storia dello spirito, intesa questa storia come la storia degli errori, delle anticipazioni, dei processi di liberazione, attraverso i quali la filosofia si è resa da se stessa superflua. La storiografia filosofica ha infine il compito di custodire la conoscenza degli scritti filosofici e sia pure soltanto come se si trattasse di manifestazioni interessanti dal punto di vista estetico, le quali, sebbene sprovviste di valore scientifico rilevante, sono ancor meritevoli di essere lette per il loro stile e per lo stato d’animo che vi si esprime.
Altri invece seguirono l’orientamento scientifico del tempo, rifiutando la filosofia passata e proponendosi di fondare la filosofia come scienza rigorosa. Così assunsero un compito che continuava a essere riservato alla filosofia, essendo comune a tutte le scienze: ad esempio i problemi della logica, della teoria della conoscenza, della fenomenologia. La filosofia, per riacquistare la sua reputazione, doveva, fattasi imitativa e servile, diventare ancella delle scienze. Come tale essa diede un fondamento gnoseologico alla validità scientifica che anche senza ciò era egualmente incontrovertibile: fece, cioè, cosa assolutamente superflua. Come logica, però, diede sviluppo ad una scienza speciale che, in virtù della universalità del suo oggetto, identificato con la forma di ogni pensare valido in generale, di una mathesis universalis, apparve adatta a prendere il posto della filosofia precedente. Oggidì la logistica viene considerata da più parti come la filosofia tutta intera.
Questa prima reazione sembra aver condotto, oggi, al seguente risultato: la filosofia è una scienza tra le altre, una sfera particolare di conoscenza accanto alle altre. Come queste, essa viene promossa da specialisti, ha la sua cerchia ristretta di competenti, i suoi congressi e le sue riviste specializzate.
Contro questo troppo zelante atteggiamento scientifico si è formata una seconda reazione. L’offensiva contro l’esistenza della filosofia fu respinta per il fatto che si rifiutò in generale la sua pretesa ad essere scienza. Si disse che la filosofia non era di fatto una scienza, ma riposava sul sentimento e sulla intuizione, sulla fantasia e sul genio. Essa è una evocazione in concetti, non una conoscenza del mondo. Essa significa lo slancio del sentimento o la morte invocata con occhi desti. E altri andarono ancora più innanzi; il darsi pena per la scienza non è affare della filosofia, perché essa penetra nel profondo della problematicità di ogni verità scientifica. Le scienze moderne sono del resto una strada sbagliata, soprattutto per le conseguenze rovinose che la vita razionale ha per l’anima e l’esistenza in generale. La filosofia non è una scienza, ma appunto perciò sta accanto alla autentica verità.
Entrambe le reazioni - tanta la sottomissione alla scienza quanto il rifiuto della scienza, concepita come una conoscenza vincolante, metodica e universale - sembrano essere la fine della filosofia. Sia che essa sia sacrificata alla scienza, sia che neghi ogni scienza, in nessuno dei due casi essa è ancora filosofia.
L’apparente trionfo delle scienze sulla filosofia ha prodotto da alcuni decenni una situazione, in cui si cerca partendo da diverse origini, ancora una volta il vero filosofare. Se un siffatto filosofare esiste, il problema del rapporto tra filosofia e scienza deve pur trovare una risposta, così in via di principio come nell’azione concreta. È un problema reale di prim’ordine.
Tale problema reale viene compreso in tutto il suo peso, se ci si richiama alla mente la sua origine storica. Esso è sorto dal confuso intrecciarsi di tre motivi. Eccoli: primo, il senso della scienza moderna; secondo, il vecchio e sempre ripetuto tentativo di elaborare un sapere filosofico totale; terzo, il concetto filosofico di verità., quale si rivela con chiarezza per la prima volta e per sempre in Platone.
In primo luogo: le scienze moderne, sviluppatesi soltanto negli ultimi secoli, hanno introdotto nel mondo una nuova idea della scienza, che non esisteva né in Asia né nell’antichità né nel medioevo.
Certamente, già i Greci possedevano una scienza come conoscenza metodica, che era certa e universale in modo vincolante. Ma le scienze moderne non hanno soltanto portato a una forma più pura questa senso fondamentale d’ogni scienza (compito ancor sempre incompiuto), ma hanno formato e fondato in forma nuova il senso, l’ambito, l’unità della ricerca scientifica. Accenno ad alcuni suoi caratteri fondamentali.
Alla scienza moderna nulla è indifferente. Ogni cosa, la più piccola e la più brutta, la più lontana e la più estranea, tutta ciò che è in qualche modo esistente di fatto, è per essa rilevante soltanto per il fatto che esiste. Essa cosi è diventata senz’altro universale. Non vi è nulla che si possa a essa sottrarre. Nulla deve rimaner nascosto, nulla deve cader sotto silenzio, nulla deve restare mistero.
Inoltre: la scienza moderna è fondamentalmente incompiuta, perché procede all’infinito, mentre la scienza antica si presentava in ogni sua configurazione di volta in volta come compiuta, e non elevava alla consapevolezza del proprio senso il suo sviluppo effettivo che finiva pur sempre per esaurirsi troppo presto. La scienza moderna ha compreso che una immagine onnicomprensiva del mondo, che spieghi ciò che è, a partire da uno o da pochi principi, è scientificamente impossibile. Una immagine del monda ha altre fonti; e può pretendere di avere una sua falsa validità solo quando in una critica scientifica zoppicante venga assolutizzato un evento particolare.
Le grandiose unificazioni - come quelle della fisica - che nessuna conoscenza precedente aveva raggiunto, abbracciano solo un lato della realtà. La realtà nella sua totalità à diventata per opera della scienza moderna assai più frantumata e più sradicata di quanto mai fosse stata prima per la coscienza. Di qua, la mancanza di coerenza del mondo moderno a differenza del cosmo greco.
Ancora: le scienze antiche rimangono disperse per mancanza di relazioni reciproche. Esse mancavano dell’idea della completezza concreta. Al contrario, le scienze moderne cercano la connessione onnilaterale tra loro. Mentre non è più per esse possibile una immagine vera del mondo, diventa possibile l’idea di un cosmo delle scienze. Insoddisfatte di ogni conoscenza particolare, esse cercano l’unione di tutto il conoscere.
Ancora: le scienze moderne tengono in ben poco conto la possibilità del pensiero, e fanno valere il pensiero soltanto in una conoscenza determinata e concreta, se esso si è verificato nel processo di scoperta e con ciò si modifica all’infinito. Cosi, l’antica e la moderna teoria degli atomi coincidono solo fugacemente in certe rappresentazioni tipiche. Ma l’antica teoria era un’interpretazione di possibilità, un’interpretazione in sè compiuta, applicata mediante indizi plausibili a esperienze già presenti; mentre la moderna è una trasformazione della teoria stessa come strumento della ricerca, una trasformazione stabilmente compiuta, con la verifica e con la ripetizione, in stretto rapporto con l’esperienza.
Ancora: le scienze moderne procedono nel loro interrogare sino all’estremo, per esempio: il pensiero aveva, si, già nell’antichità, cominciato a contrapporsi alla vista, per esempio nella concezione della prospettiva e nella sua applicazione all’astronomia, ma era pur sempre rimasto legato all’intuizione. Ora, invece, come accade nella fisica moderna, la scienza osa ciò che vi è di più paradossale, per giungere a conoscenze reali che schiantano ogni immagine chiusa del mondo.
Concludendo: con tutto ciò è diventato oggi possibile un atteggiamento scientifico, che nella ricerca si oppone a tutto ciò che incontra, può sapere in un modo chiaro e decisivo, è in grado di distinguere ciò che si sa da ciò che non si sa, ha attinto una straordinaria pienezza di conoscenza (come sapeva infinitamente poco al confronto il medico greco a il tecnico greco!). L’etica della scienza moderna sta in questa volontà fiduciosa di sapere in base a una ricerca e a una critica spregiudicata. Se noi entriamo nel suo orizzonte, abbiamo la sensazione di respirare aria pura, di veder scomparire il chiacchierare approssimativo, l’opinione plausibile, la altezzosa competenza, la cieca fede.
Appartiene alla scienza moderna pure un secondo motivo, l’antichissimo impulso verso il sapere filosofico totale. La filosofia si è presentata sin dai tempi più remoti come scienza che conosce la totalità delle cose, non come una conoscenza di fatto in continuo sviluppo, ma come una dottrina compiuta. Ora la filosofia moderna dopo Descartes si è identificata con la scienza, moderna, ma in modo tale che ha continuato a mantener fede al vecchio concetto filosofico di un sapere totale. Tuttavia occorre rilevare come Descartes, proprio per questa ragione, non abbia affatto compreso la scienza moderna, per esempio la ricerca di Galileo, e come la sua opera abbia per il suo significato ben poco da fare con la scienza moderna, per quanto poi egli stesso come matematico di grande capacità creativa abbia contribuito al progresso di questa scienza. I filosofi successivi, e persino entro certi limiti un filosofo come Kant, rimasero prigionieri di questa idea del totalismo. Hegel credette di aver portato ancora una volta a totale compimento la vera scienza e di possedere nel suo mondo spirituale tutte le scienze.
Questa identificazione della scienza moderna e della filosofia moderna con la loro vecchia pretesa di sapere totale fu fatale ad entrambe. Le scienze moderne che, a causa di una comune illusione, videro nelle grandi filosofie del XVII secolo e in altre posteriori la possibilità di trovare i pilastri per appoggiarvi il proprio edificio, furono viziate dalle pretese di un sapere che si poneva come assoluto. Ma la nuova filosofia ha potuto edificare la propria grandezza, per così dire soltanto «ad onta di se stessa», in un costante misconoscimento di se medesima.
Vi è ancora un terzo motivo. Né il concetto moderno della scienza né l’idea di una scienza che si risolva nel sapere filosofico totale di un sistema, coincidono con l’idea più propriamente filosofica della scienza, idea che troviamo in forma insuperabile in Platone. La verità, la cui rivelazione nel processo del nostro conoscere ci viene indicata da Platone nel mito della caverna e toccata nel gioco della sua dialettica, questa verità che concerne l’Essere e ciò che è al di sopra di ogni Essere, quanto lontana, quanto originariamente diversa è dalla verità delle scienze che si muovono sempre soltanto nella sfera delle apparenze, senza mai attingere l’Essere; e quanto è diversa dalla verità del sistema, che ritiene di avere in suo possesso la totalità dell’essere! Quale distanza tra la verità che non può essere scritta in nessun luogo, ma, secondo la Lettera Settima, si accende soltanto nel pensiero, se pur tra individui, che la comprendono nel momento propizio della comunicazione, e la verità che esiste scritta, vincolante per tutti, universalmente intellegibile, accessibile a tutti gli esseri intelligenti!
Tre concetti così diversi - quello della scienza moderna, quello del sapere filosofico totale, quello della verità di fede che si rivela nel pensiero (di cui abbiamo un esempio in Platone) - sono confluiti l’uno nell’altro sino alla presente confusione. Un esempio:
il marxismo è diventato un momento importante dello sviluppo scientifico nei problemi e nelle ricerche economiche, ma ciò non lo distingue a sufficienza da altre correnti di pensiero, né determina l’importanza del suo influsso. Essa è piuttosto una teoria di filosofia della storia, l’affermazione cioè del corso dialettico della storia considerata come un evento totale, che si presume di potere scrutare sino in fondo. Viene dunque alla luce nel marxismo una dottrina filosofica, la quale però pretende di avere una validità scientifica universale. Dal punto di vista del tipo di conoscenza, il marxismo è identico alla filosofia di Hegel, il cui metodo logico adopera come proprio strumento. La differenza sta soltanto nel fatto che il germe della storia risiede per Hegel in ciò che egli chiama «idea», mentre per Marx risiede nelle forme di produzione dell’uomo, il quale a differenza degli animali si procaccia i propri mezzi di sussistenza mediante un lavoro regolato. Entrambi, Hegel e Marx, deducono da ciò che per loro costituisce il nucleo originario, tutti i fenomeni, Marx dice perciò a ragione che ha rimesso sui piedi quel che Hegel aveva posto sulla testa, ma ciò vale soltanto per il contenuto, dal momento che egli non ha abbandonato il metodo di Hegel, consistente nel costruire la realtà, con la dialettica del concetto.
Ora l’errore di Hegel, errore che fu introdotto se pure in altra forma dalla filosofia moderna da Descartes in poi e ripetuto da Marx, sta proprio in questa identificazione tra la conoscenza economica, che viene acquistata scientificamente e quindi in un ambito particolare, e rimane per la sua stessa natura in continuo Movimento, e la conoscenza dialettica del processo totale, che vale come conoscenza fondamentalmente definitiva.
L’origine della pretesa assoluta ed esclusiva di Marx sta dunque nell’accettazione dell’idea che la filosofia sia un sapere totale entro un sistema, ma si presenta come se fosse il risultato della scienza moderna, mentre non deriva affatto da essa.
All’una e all’altra pretesa se ne aggiunge poi una terza, vale a dire lo slancio verso una verità assoluta che soddisfi pienamente la volontà e l’aspirazione dell’uomo, a somiglianza dell’idea platonica di verità, se pur con diverso carattere. Il marxismo si pone come la vera coscienza dell’umanità senza classi. E questa certezza di fede rende possibile il moderno fanatismo, che si affida non alla fede ma alla scienza e taccia l’avversario di stupidità, e di cattivo volere; o altrimenti rende possibile un vincolo di classe, assolutamente indissolubile, e ciò in antitesi alla verità autentica e puramente umana che non è legata a nessuna classe e perciò è assoluta.
Analoghe forme di pensiero in cui una ricerca, che ha il suo pieno significato solo se è limitata, viene assolutizzata acriticamente in un sapere totale, e quindi si congiunge con un atteggiamento fideistico, si possono constatare sul terreno della dottrina razzistica, della psicoanalisi e in molti altri casi.
Le conseguenze di questo reciproco intrecciarsi di cose eterogenee sono, in grande, quelle stesse che vediamo cosi diffuse, in piccolo, nella vita d’ogni giorno: le pose del competente, l’essere soddisfatti della mera plausibilità, la boria di chi guarda e giudica senz’ombra di critica, l’incapacità, di condurre una ricerca effettiva, di ascoltare, ponderare, sperimentare, di riflettere sino in fondo su se stessi.
È davvero irritante che in nome della scienza ci venga presentato ciò che è proprio l’opposto dello spirito scientifico. La scienza infatti ci porta a sapere in qual modo e per quali motivi ed entro quali limiti ed in qual senso sappiamo quel che sappiamo. Essa c’insegna a sapere con la consapevolezza metodologica nei confronti di qualsiasi sapere.
Essa porta a compimento una certezza, la cui relatività, cioè la riferibilità a certi presupposti e a certi metodi di ricerca, è la sua caratteristica più netta.
La manifestazione pubblica della scienza è dunque oggi ambigua. La scienza vera e propria può apparire in. ogni tempo e anche oggi quasi come nascosta, come un pubblico segreto, «pubblico», perché a tutti accessibile, «segreto» perché non è affatto da tutti realmente compreso. Tanto più chiaro brilla l’atteggiamento scientifico, quello genuino, che non si lascia fuorviare e non cede, e che proprio per questa coscienza critica dei propri limiti lascia libero spazio a ogni altra origine della verità nell’uomo.
Ma perciò scaturisce dalla scienza una mirabile forza. Nello sviluppo della scienza viene accolto durevolmente solo ciò che è stato propriamente oggetto di conoscenza, mentre tutto il resto si lascia in seguito cadere, e, precisamente, per opera della critica. Così si forma - sino a che vi è libera discussione - un qualche cosa che è più degli uomini che lo esprimono, e che nella totalità del suo orizzonte non può essere compresa da nessun individuo singolarmente considerato.
In questa. situazione di confusione per i concetti di scienza, si pongono ora tre compiti che corrispondono ai tre motivi su esposti.
In primo luogo bisogna superare l’idea che il sapere filosofico totale sia un sapere presuntivamente scientifico. Partendo dalle stesse scienze, questo falso sapere totale è stato criticamente dissolto. Qui ha 1a sua origine l’opposizione contro la filosofia, qui il disprezzo della filosofia. trova la sua giustificazione.
In secondo luogo bisogna conquistare la purezza delle scienze. Tale compito può essere adempiuto solo nella prassi della ricerca in una lotta incessante. Una fondamentale chiarezza sopra la scienza e i suoi limiti è generalmente e facilmente riconosciuta anche da coloro che sbagliano continuamente nei particolari. Quel che importa è di realizzare questa purezza nella concretezza delle singole scienze. Il che avviene essenzialmente mediante lo stesso lavoro critico degli scienziati. Chi però vuole, filosofando, mettere alla prova il senso di verità delle conoscenze scientifiche, e per così dire «tastarlo», deve immettersi nel procedimento di questi scienziati.
In terzo luogo bisogna ricostituire completamente la filosofia tenendo conto delle nuove condizioni che le scienze moderne hanno imposto. Il che, già per le stesse scienze, è inevitabile, infatti la filosofia è sempre viva nelle scienze, e tanto da esse inseparabile che, solo con un’opera comune può essere raggiunta la purezza di entrambe. La negazione della filosofia suole far crescere inavvertitamente una cattiva filosofia. Lo scienziato, quando filosofa, ne sia o non ne sia cosciente, trova in se stesso la guida della propria visione concreta, che egli non può riconoscere come vincolante dal punto di vista scientifico.
Per esempio: non si può dimostrare scientificamente che debba esserci in generale la scienza, Oppure: non si può scegliere scientificamente quel che diventa oggetto della ricerca a partire dalla infinità del ricercante stesso, dall’interesse che il ricercante ha per questo oggetto. Oppure, ancora: le idee che ci guidano vengono confermate nella sistematica della ricerca, ma non sono esse stesse sottoponibili alla ricerca.
La. scienza, abbandonata a se stessa come pura e semplice scienza, va a finire in azioni incontrollate. L’intelletto è una prostituta, diceva Nicola da Cusa, perché si concede a qualsiasi cosa. La scienza è una prostituta, diceva anche Lenin, perché si vende a ogni interesse di classe. Per Cusano è la ragione e in definitiva la conoscenza di Dio, che dà alla conoscenza dell’intelletto un senso, una consistenza, una probità; per Lenin è l’umanità senza classi che esige la scienza pura. Nell’uno e nell’altro caso, il farsene consapevoli è opera della riflessione filosofica. Nelle stesse scienze reali, la filosofia costituisce la sostanza di cui lo scienziato vive, tanto da dare serietà alla sua opera, la sostanza che guida il suo lavoro metodico. Colui che rafforza questa guida riflettendoci sopra, e acquistando piena consapevolezza di sé, fa già espressamente della filosofia. Se questa guida fallisce, la scienza si degrada nella inesauribilità dell’arbitrario e dell’esattezza indifferente, nell’irrequietezza di un’attività senza senso, in una compiacente prosternazione.
La purezza della scienza richiede la purezza della filosofia.
Ma come può la filosofia diventar pura? Non ha essa avuto sin dai tempi più antichi valore di scienza, non ha essa voluto essere scienza? Noi rispondiamo: essa è scienza, ma in tale modo che secondo il senso della ricerca scientifica moderna è ad un tempo meno che scienza e più che scienza.
La filosofia si può chiamar scienza in quanto le scienze siano il suo presupposto. Non vi è nessuna filosofia sostenibile al di fuori delle scienze. La filosofia si lega incondizionatamente alla scienza nella coscienza che essa ha della sua differenza da quella. Essa non deve cozzare contro la conoscenza vincolante. Chi fa della filosofia, deve esser versato nei metodi scientifici.
Chi non ha studiato una scienza particolare e non vive costantemente in contatto con la conoscenza scientifica, ben presto nel suo filosofare inciamperà e presenterà progetti senza fondamento quasi fossero un sistema compiuto di sapere. Ma nella scienza deve essere preservato ciò che, per l’esuberante dissipazione di sentimenti e di passioni, non deve rimanere un fuoco di paglia di poca durata o diventare un astioso fanatismo.
Ancora: chi fa della filosofia, aspira al sapere scientifico, perché è l’unica via che conduce ad un autentico non-sapere. È come se il più grandioso complesso delle nostre conoscenze si formasse proprio per il fatto che l’uomo cerca i limiti in cui la conoscenza si arena, non per finta o in via provvisoria ma in modo autentico e definitivo, non in condizioni di perdita a di disperazione, ma in uno stato di autentica consapevolezza. Salo un sapere compiuto, potrebbe render possibile un compiuto non sapere. Solo a questo punto avrebbe luogo il genuino naufragio, in cui si rivelerebbe non più soltanto l’ente che passibile di essere appreso e trasmesso, ma l’Essere stesso.
Poiché la scienza moderna attua il grande disincantamento, raggiunge la via che conduce a intuire la vera profondità, l’autentico segreto, che diventa presente mediante il sapere più decisivo nel non sapere pienamente conquistato.
La filosofia perciò si oppone agli spregiatori delle scienze, ai falsi profeti, che mettono in sospetto la ricerca scientifica, che fan passare per scienza gli errori della scienza e vorrebbero rendere responsabile la scienza, la scienza «moderna», dell’infelicità e della disumanità del nostro tempo.
Contro il mito della scienza e contro il disprezzo della scienza la filosofia si comporta dunque di fronte alla scienza moderna senza condizioni. La scienza è per la filosofia il meraviglioso avvenimento, a cui incomparabilmente ci si può affidare, è la più profonda incisione che abbia intaccato la storia del mondo, l’origine di grandi. pericoli come di ancora più grandi possibilità, e condizione d’ora in avanti di ogni dignità dell’uomo. Senza questa scienza, il filosofo sa bene che la sua propria opera cade nel nulla.
Quest’opera del filosofo si può ben chiamare scientifica, perché la filosofia procede metodicamente ed è consapevole dei propri metodi.
Ma questi metodi, a paragone di tutti i metodi scientifici, sono diversi per il fatto che non hanno un oggetto della ricerca. Ciò che costituisce un oggetto determinato, è per ciò stesso oggetto di una scienza determinata. Se io considero, ad esempio, come oggetto della filosofia, il «tutto», il «mondo», l’«essere», son parole queste che, come mostra la critica filosofica, non si riferiscono a nessun oggetto. I metodi filosofici sono metodi per il trascendimento al di là di ciò che è oggettivo. Filosofare vuol dire trascendere. E ciò pur tuttavia si compie, perché il nostro pensiero è legato sempre ad oggetti di tal natura che vengono eliminati nel corso del movimento del pensiero. Queste oggettività, fili conduttori del trascendimento filosofico, sono le grandi creazioni della filosofia. È quindi insostituibile per noi il profondo linguaggio dei metafisici che ci parla, dalle radici dei secoli: e l’appropriazione che noi ne facciamo nella filosofia storica a partire dalle sue origini, non solo ci permette di conoscerlo come un evento del passato, ma lo trasforma in un elemento della nostra vita presente.
Ma la grande massa delle conoscenze presuntivamente filosofiche, rivolte a oggetti trasmissibili per insegnamento, deriva dal fatto che si costruisce in un corpo autonomo di dottrine quella oggettività che ha servito alla filosofia come filo conduttore, ma poi la stessa filosofia ha di nuovo messo da parte. Si crede, impadronendosi di codesta oggettività, di saper qualche cosa, che pur è, filosoficamente, un’assurdità: sono infatti i capita mortua, gli ossarii dei grandi metafisici. Nel filosofare non è permesso di lasciarsi prendere da ciò che è oggettivo, di cui pure abbiamo a ogni istante bisogno. Dobbiamo restar padroni dei nostri pensieri, non sottometterci a essi.
In questo pensiero del trascendimento, ch’è proprio della filosofia e ha qualche analogia con le forme scientifiche, la filosofia è meno che scienza. Essa, infatti, non raggiunge risultati dimostrabili, né una conoscenza vincolante per ogni intelletto. Non è da trascurare il semplice fatto che la conoscenza scientifica si diffonde nella stessa forma in tutto il mondo, mentre la filosofia, nonostante tutte le sue pretese ad una validità universale, non diventa effettivamente universale in nessuna delle sue forme. Questo fatto é il segno esteriore della caratteristica essenziale della verità scientifica e di quella filosofica: la verità scientifica, è, sì, universale, ma relativa ai metodi di cui si vale e ai presupposti su cui si fonda; la verità filosofica è incondizionata per colui che la realizza nella realtà storica, ma nelle affermazioni che essa fa non è universale. La verità scientifica è eguale per tutti; quella filosofica è molteplice nei suoi successivi travestimenti storici, che sono sempre manifestazioni di una singolarità e hanno, tutti quanti, egual diritto, ma non sono allo stesso modo trasferibili.
L’unica filosofia è la philosophia perennis intorno alla quale stanno in circolo tutte le filosofie, se pur nessuno la possieda; a essa partecipa qualsiasi filosofo autentico, per quanto essa non possa mai conquistare la configurazione di un edificio del pensiero che sia valido per tutti, e sia, essa soltanto, il vero.
Ma con ciò la filosofia non è soltanto qualcosa di meno, ma anche qualcosa di più della scienza, in quanto è la fonte di una verità che è inaccessibile al sapere vincolante della scienza. A questa filosofia corrispondono affermazioni come le seguenti: il filosofare insegna a morire; è slancio verso il divino; è conoscenza dell’Essere in quanto Essere. Tali proposizioni significano: il pensare della filosofia è a un tempo un agire interiore; è un’invocazione alla libertà; un’evocazione della trascendenza. In altre parole la filosofia, l’accertamento che ciascuno fa di se stesso nell’Essere autentico, è il pensiero di una fede che è data con l’uomo, e che deve essere illuminata con sforzo infinito, è la via attraverso cui l’uomo attua, mediante il pensiero, l’ultima affermazione di se stesso.
Peraltro, nessuna di tali proposizioni costituirà una precisa definizione. Non esiste una definizione della filosofia, perché la filosofia non è determinabile mediante qualcosa d’altro che non sia filosofia. Non vi è un genere superiore, di cui la filosofia sia una specie, la filosofia si determina da sé, si riferisce immediatamente alla divinità, non trova il proprio fondamento in una particolare utilità. Emerge dall’origine stessa, in cui l’uomo viene donato a se medesimo.
E ora riassumo ciò che ho voluto dire; le scienze non abbracciano tutta la verità, ma soltanto il rigore che è vincolante per ogni intelletto e valido universalmente. La verità è più ampia. Essa si deve mostrare alla ragione che è propria del filosofare. Col titolo De veritate molte opere filosofiche sono state scritte dal primo medioevo lungo tutti i secoli; oggi sta dinanzi a noi lo stesso compito urgente di acquistare una chiara visione dell’essenza della verità in tutto il suo ambito, nelle attuali condizioni del sapere scientifico e della esperienza storica.
Tale meditazione implica pure il rapporto tra filosofia e scienza. Soltanto scindendo rigorosamente l’una dall’altra, si realizza in modo puro e vero la insolubile connessione di entrambe.
L’Università, cerca l’unità pratica tra le scienze e la filosofia, nell’indagine, scientifica e nell’insegnamento. Nelle Università hanno pur sempre trovato il loro luogo di diffusione, con gli stessi mezzi della scienza, le diverse concezioni del mondo.
L’Università è la sede in cui tutte le scienze s’incontrano. Nella misura in cui le scienze rimangano un aggregato, l’Università assomiglia a una bottega spirituale; ma nella misura in cui queste tendano a una unità del sapere, essa assomiglia all’impresa di una costruzione, non mai finita, d’un tempio.
Un secolo e mezzo fa tutto questo era ovvio: ciò che gli scienziati recavano in sé di filosofia, era stato portato alla più lucida consapevolezza dagli stessi filosofi. Le cose ora vanno altrimenti. Le scienze si sono frantumate in tanti rami specializzati. E la conoscenza scientifica, fondandosi sulla nitidezza delle singole nozioni a carattere vincolante, ha creduto di potersi liberare della filosofia.
È forse questa dispersione delle scienze l’ultima e inevitabile fase? Si desiderò pure una filosofia che recasse dentro di sé, già elaborata, tutta intera la tradizione, e fosse emersa dalla situazione spirituale del nostro tempo, e rivelasse una sostanza comune a noi tutti, e tutto ciò fosse in grado di esprimere, a un tempo, in sublimi costruzioni del pensiero e in proposizioni semplici tali da trovare facile risonanza in ciascuno. Ma una cosiffatta filosofia oggi non la possediamo.
Negli antichi scettri delle Università, che risalgono al secolo XV, si trovano figure cesellate in oro che rappresentano Cristo mentre assegna alle singole Facoltà i propri compiti. Tali scettri sono ancora in uso, ma non esprimono più la realtà di oggi, per quanto ancora additino il compito: l’unità di tutte le cose.
Non più la teologia, non più la. filosofia dà forma alla totalità. C’è oggi ancora nelle Università uno spirito comune? Nel suo ordinamento, essa appare come un compendio sempre in via di mutamento senza simmetria né logica, senza coerenza, in perpetuo ampliamento, e in cui via via i posti vengono occupati da tutto ciò che viene ad assumere una validità scientifica. Ma qui pur ci s’incontra con l’ignoto. Senza quell’unità che è prodotta da una scienza che abbraccia il tutto, ciascuno è, in questo incontro, costretto a veder ciò che da lui è ignorato. Impara a farsi sfiorare dall’ignoto. E di qui emerge la vita spirituale, l’impulso verso la sommità e la libertà del pensiero. Così, se vi è uno spirito comune, esso non si trova più nella sostanza di una fede obbligatoria per tutti, ma soltanto nella indagine critica come tale, nel riconoscimento di ciò che è logicamente ed empiricamente indimostrabile, nel risoluto ripudio del sacrificium intellectus, nell’apertura verso sempre nuovi orizzonti, nel porre senza limiti problemi, nella probità della ricerca.
Questo spirito é il risultato degli ultimi secoli. Potrà, l’università mostrarsi ancora a lungo soddisfatta di cotesto spirito? Alla filosofia, sembra che questa situazione possa offrire straordinarie possibilità. Ma sarebbe assurda delineare un programma per un compito che non può essere l’opera di una sola persona, ma è possibile soltanto, come creazione di un mondo spirituale realmente comune.
Colui che filosofa, sta, sino a che si mantiene nella verità, entro la modestia del non sapere, la quale peraltro non è da confondere con una diversa modestia che oggi è necessaria al professore, di filosofia. I migliori filosofi non si trovano forse, in questi tempi, tra coloro che sono espressamente incaricati d’insegnare la filosofia. Infatti la filosofia concreta, la filosofia che si realizza nel complesso di una scienza particolare, è la filosofia nelle scienze, che pone in guardia dalla dissipazione nel non sapere, e incita alla ricerca scientifica. Questa filosofia diventa per così dire la rappresentante del sapere, in quanto tiene continuamente desta l’attenzione affinché si guardi la cosa particolare in riferimento a tutto la scibile e quindi si venga a radicarla nel profondo.
Il professore di filosofia, in quanto si pone al servizio di questi sforzi, non è una guida che dà il tono, ma un ascoltatore, che presta attenzione a se stesso, e che vorrebbe far risuonare e sentire nei più vasti campi il significato di tutti questi sforzi.
Egli è pieno di rispetto dinanzi ai grandi filosofi che non costituiscono un tipo, ma sono dei creatori, e oggi non ce ne sono. Ma rigetta l’idoleggiamento dell’uomo, che ebbe inizio già nella scuola di Platone, perché anche i più grandi filosofi sono uomini ed errano; nessuna è un’autorità a cui si debba obbedienza.
Egli è pur piena di rispetto di fronte a ogni scienza, le cui conoscenze sono vincolanti. Ma respinge da sé la boria scientifica che crede di poter tutto sapere dalle fondamenta o addirittura di aver tutto conosciuto.
Il suo ideale è quello dell’essere razionale che vive insieme con altri esseri razionali. Si spinge da se stessa nel dubbio, desidera fortemente di essere criticato e attaccato, vorrebbe diventar capace di parlare con gli altri in una comunicazione destinata ad approfondirsi infinitamente, dalla quale ogni verità scaturisce e senza la quale non c’è nessuna verità.
La sua speranza è che nella misura in cui egli diventa un essere razionale, gli vengano donate quelle verità sostanziali di cui l’uomo può vivere; che la sua volontà, nella misura dell’onestà, dei suoi sforzi, diventi buona con l’aiuto della trascendenza, immediatamente, senza alcuna intermediazione umana.
Ma come insegnante di filosofia egli sente la responsabilità comune che ciò che è grande non venga dimenticato, che i metodi filosofici continuino a essere oggetto d’insegnamento, e che le scienze esercitino il loro influsso sul modo di pensare dei filosofi. Egli vuole nel tempo presente, venendo in chiaro di tutto ciò, pervenire a gettare uno sguardo sull’eterno, in comunione coi suoi discepoli.
da “Rivista di Filosofia” 41 (1950) 245-259. Or. ted. pubblicato in Die Wandlung III (1948) 721-734. tr. it. di Norberto Bobbio.