Il logico-matematico inglese, fondatore della filosofia del processo e co-autore dei Principia con Bertrand Russell sostiene l’importanza della matrice medievale-cristiana nello sviluppo della scienza moderna, acquisendone semplicemente il dato storico e fenomenologico, al di là di ogni interpretazione apologetica o strumentale. «Non intendo sostenere che la fede europea nella possibilità di perscrutare la natura fosse logicamente giustificata dalla sua stessa teologia. Cerco solo di capire come essa sia sorta. La mia tesi è che la fede nelle possibilità della scienza, nata prima dello sviluppo della teoria scientifica moderna, è un derivato inconsapevole della teologia medioevale...»
La tesi che intendo sviluppare è che il calmo sviluppo della scienza ha virtualmente dato un nuovo stile alla nostra mentalità, così che modi di pensare eccezionali in altri tempi sono ora diffusi in tutto il mondo civile. Ma il nuovo stile ha dovuto progredire lentamente per vari secoli tra i popoli europei prima di sbocciare nel rapido sviluppo della scienza, che quindi, con le sue sempre più esplicite applicazioni, lo ha ulteriormente consolidato. Tuttavia la nuova mentalità è perfino più importante della nuova scienza e della nuova tecnica. Ha modificato i presupposti metafisici e le facoltà immaginative del nostro spirito, di modo che i vecchi stimoli provocano reazioni nuove. Forse la mia metafora di un nuovo stile è un po' eccessiva. Ciò che intendo affermare è solo quel semplicissimo cambiamento di sfumatura che però determina un'assoluta diversità. Ciò è reso esattamente in una frase di una lettera di quel genio meraviglioso che fu William James. Mentre stava terminando il suo grande trattato sui Princìpi di psicologia, ebbe a scrivere a suo fratello Henry James: «Debbo forgiare ogni affermazione a dispetto di fatti irriducibili e ostinati».
Questa nuova sfumatura dello spirito moderno sta appunto nell'interesse appassionato e risoluto nel ricercare le relazioni tra i princìpi generali e i fatti irriducibili e ostinati. Nel mondo intero e in tutte le epoche sono esistiti uomini di mentalità pratica, occupati nell'osservazione di tali fatti; nel mondo intero e in tutte le epoche vi sono stati uomini di temperamento filosofico intenti a tessere la trama dei princìpi generali. È proprio dall'unione dell'interesse appassionato per i particolari materiali con una non minor passione per le generalizzazioni astratte che scaturisce la novità caratteristica della nostra attuale società. Precedentemente una tale unione si era verificata, ma sporadicamente e come per caso.
Questo equilibrio dello spirito è ormai diventato una tradizione che caratterizza il pensiero colto. È il sale, il sapore della vita. Il compito principale delle università è di trasmettere questa tradizione, come un'eredità che deve accrescersi da una generazione all'altra.
L'altra caratteristica che distingue la scienza dagli altri movimenti europei del sedicesimo e del diciassettesimo secolo è la sua universalità. La scienza moderna è nata in Europa, ma il suo ambiente naturale è il mondo intero. Nel corso degli ultimi due secoli vi è stata una persistente e conturbante incidenza dei modelli occidentali sulle civiltà dell'Asia. Per i saggi dell'Oriente ha costituito e costituisce un rompicapo individuare la misteriosa regola di vita che potrebbe essere trasmessa dall'Occidente all'Oriente senza distruggere vandalicamente quell'eredità spirituale che gli orientali a buon diritto stimano e amano. Ora pare sempre più evidente che l'Occidente può dare all'Oriente, senza alcuna difficoltà per esso, la propria scienza e la propria mentalità scientifica. Esse sono infatti trasferibili da un paese all'altro e da una razza all'altra, ovunque esista una società pensante razionalmente.
Non tratterò qui particolareggiatamente delle scoperte scientifiche. Il mio tema è lo sviluppo rigoroso di un dato stato spirituale nel mondo moderno, la sua vasta generalizzazione e la sua incidenza su altre forze spirituali. Vi sono due modi di leggere la storia: dal prima al poi e dal poi al prima. Nella storia del pensiero abbiamo bisogno di entrambi i metodi. Il clima ideale, per usare la felice espressione di uno scrittore del diciassettesimo secolo, per essere capito esige l'esame dei suoi antecedenti e delle sue risultanti. Conseguentemente in questo capitolo prenderò in esame alcuni antecedenti del nostro modo di studiare la natura.
Prima di tutto, non può esservi alcuna scienza vivente senza la convinzione istintiva e generalizzata che esiste un Ordine delle Cose e più precisamente un Ordine della Natura. Ho deliberatamente usato il termine “istintivo”. Poco importa ciò che gli uomini esprimono con parole finché le loro attività sono governate da istinti stabili. Le parole possono in definitiva annullare l'azione degli istinti. Ma, fin che ciò non accade, esse non hanno importanza. Rilevarlo è particolarmente importante quando si consideri la storia del pensiero scientifico. Possiamo osservare infatti che, con e dopo Hume, la filosofia scientifica in auge ha teso a negare la razionalità della scienza. Questa conclusione balza subito agli occhi in Hume. Si consideri ad esempio il seguente passo del quarto capitolo del suo libro Ricerche sull'intelletto umano: «In una parola, dunque, ogni effetto costituisce un evento distinto e separato dalla sua causa. Di conseguenza non potrebbe essere scoperto nella causa; e la prima invenzione o concezione di esso deve essere, a priori, assolutamente arbitraria». Se la causa in sé stessa non rivela alcuna conoscenza dell'effetto, così che la prima scoperta di questo deve essere necessariamente del tutto arbitraria, ne consegue immediatamente che la scienza stabilisce relazioni assolutamente arbitrarie, non giustificate da nulla che sia intrinseco alla natura sia delle cause sia degli effetti. Qualche variante di questa filosofia di Hume ha prevalso abbastanza diffusamente tra gli uomini di scienza. Ma la fede scientifica si è dimostrata all'altezza della situazione e ha silenziosamente mosso le montagne della filosofia.
Al cospetto di questa strana contraddizione del pensiero scientifico è molto importante prendere in considerazione gli antecedenti di una fede inaccessibile alle pretese di razionalità coerente. Dobbiamo dunque rintracciare l'origine e lo sviluppo di questa fede istintiva nell'esistenza di un Ordine della Natura la cui impronta può essere scoperta in ogni evento circostanziato. Beninteso, noi tutti partecipiamo di questa fede, e crediamo inoltre che la ragione di tale fede risieda nella nostra intuizione della sua verità. Ma la formazione di un'idea generale, quale l'idea dell'Ordine della Natura, la capacità di capire la sua importanza e l'osservazione delle sue manifestazioni in una grande varietà di circostanze, non sono affatto conseguenze necessarie della verità dell'idea in questione. Eventi comuni e consueti accadono senza che l'umanità se ne preoccupi. Occorre uno spirito d'eccezione per intraprendere l'analisi delle cose evidenti. Mi propongo quindi di esaminare gli stadi per i quali è passata questa analisi prima di diventare esplicita e d'improntare infine, inalterabilmente, le menti colte dell'Europa occidentale.
Chiaramente il ripetersi dei principali fenomeni della vita è troppo persistente per sfuggire alla percezione anche nel meno razionale degli umani; perfino prima dello spuntare della razionalità, questo ripetersi si è imposto agli istinti degli animali. È assolutamente superfluo insistere sul dato di fatto evidente che, nel loro complesso, certi stati generali della natura si ripetono e che la nostra propria natura si è adattata a queste ripetizioni.
Vi è tuttavia un dato di fatto complementare, che risulta del pari vero ed evidente: nulla si ripete esattamente nei minimi particolari. Non esistono due giorni né due inverni esattamente uguali. Ciò che è passato è passato per sempre. Di conseguenza, per secoli e secoli la filosofia pratica del genere umano è consistita nell'attendersi la ripetizione delle cose nei loro tratti generali, e nell'ammettere che i particolari promanino dall'imperscrutabile matrice delle cose preclusa alla razionalità. L'umanità si aspettava il sorgere regolare del sole, ma anche “che il vento soffia dove vuole”.
Certamente, dalla civiltà classica greca in poi vi sono stati uomini e anche gruppi di uomini che si sono emancipati da questa accettazione di un'irrazionalità finale. Tali uomini si sono sforzati di spiegare tutti i fenomeni come conseguenze di un ordine delle cose che si estende ad ogni particolare. Geni come Aristotele, Archimede o Bacone dovevano essere dotati di quella mentalità scientifica completa la quale considera istintivamente che tutte le cose, grandi e piccole, sono concepibili come manifestazioni di princìpi generali che regnano ovunque nell'ordine naturale.
Fino alla fine del Medioevo, però, il mondo colto, nel suo complesso, non sentiva riguardo a quest'idea né l'intima convinzione né l'interesse circostanziato necessari a produrre con continuità uomini capaci di condurre e alimentare una ricerca coordinata, diretta alla scoperta dei princìpi ipotizzati. Gli uomini dubitavano dell'esistenza di tali princìpi, o dubitavano della possibilità di trovarli, o non si davano la pena di pensarci, o non si rendevano conto della loro importanza pratica ogni volta che fossero stati trovati. La ricerca, per una ragione o per l'altra, languiva, e questa stasi è tanto più notevole se si tiene conto delle opportunità offerte dall'alto livello di civiltà e del lungo periodo di tempo dell'epoca in questione. Perché la spinta è venuta e si è accelerata nel sedicesimo e diciassettesimo secolo? Con la fine del Medioevo si dischiuse una nuova mentalità. Le invenzioni stimolarono il pensiero, il pensiero accelerò la speculazione riguardo alla fisica, i manoscritti greci rivelarono ciò che gli antichi avevano trovato. Alla fine, mentre nel 1500 l'Europa ne sapeva meno di Archimede, che era morto nel 212 a .C., nel 1700 erano stati scritti i Princìpi di Newton e il mondo entrava nell'epoca moderna.
Vi sono state grandi civiltà nelle quali l'equilibrio peculiare dello spirito necessario al progresso della scienza è apparso soltanto saltuariamente e ha prodotto risultati assai poco consistenti. Ad esempio, più noi conosciamo l'arte cinese, la letteratura cinese e la filosofia cinese applicata alla conoscenza della vita, più ammiriamo l'altezza raggiunta da questa civiltà. Per migliaia e migliaia di anni vi sono stati in Cina uomini colti, dallo spirito penetrante, i quali hanno consacrato tutta la loro vita agli studi. Considerata la massa di popolazione interessata nell'arco della sua storia, la Cina costituisce la più grande mole di civiltà che il mondo abbia mai veduto. Non v'è ragione di dubitare delle capacità intrinseche del cinese, preso individualmente, di perseguire la conquista della scienza. Eppure la scienza cinese è praticamente trascurabile. Non v'è alcuna ragione per supporre che la Cina , abbandonata a sé stessa, avrebbe, prima o poi, conseguito un qualsiasi progresso scientifico. La stessa cosa si può dire dell'India. Non vi sono neppure ragioni valide per credere che, se i persiani avessero conquistato la Grecia , la scienza sarebbe fiorita in qualche altro paese d'Europa. I romani, a questo riguardo, non hanno dimostrato alcuna particolare originalità. D'altronde gli stessi greci, che pure diedero al movimento scientifico il primo impulso, non lo sostennero poi con l'interesse concentrato del quale ha dato prova l'Europa moderna. Non alludo, riferendomi a questa, alle ultime generazioni di popoli europei delle due rive dell'Oceano, bensì all'Europa più limitata del periodo della Riforma, pur tutta presa com'era dalle guerre e dalle lotte religiose. Consideriamo il mondo dell'Oriente mediterraneo, dalla Sicilia all'Asia occidentale, durante il periodo di circa millequattrocento anni che va dalla morte di Archimede ( 212 a .C.) fino all'invasione dei mongoli. Vi furono, in questo periodo, guerre, rivoluzioni e importanti cambiamenti di religioni; avvenimenti però non più gravi delle guerre dei secoli sedicesimo e diciassettesimo in Europa. Vi furono in tale periodo grandi civiltà: la pagana, la cristiana, l'islamica. La scienza si arricchì di molti apporti. Ma, in complesso, il progresso fu lento e incerto, e, fatta eccezione per ciò che riguarda le matematiche, gli uomini del Rinascimento praticamente partivano dal punto cui era arrivato Archimede. Vi fu un certo progresso nel campo della medicina e in quello dell'astronomia. Ma il risultato totale fu minimo in confronto al meraviglioso sviluppo che doveva caratterizzare il diciassettesimo secolo. Si paragoni ad esempio, il progresso del sapere scientifico tra il 1560, poco prima della nascita di Galileo e di Keplero, e il 1700, quando Newton era già all'apogeo della sua celebrità, a quello del lungo periodo precedente del quale abbiamo parlato, durato esattamente dieci volte tanto.
Cionondimeno la madre dell'Europa fu la Grecia ed è alla Grecia che dobbiamo riferirci per trovare le origini delle nostre idee moderne. Tutti sappiamo che sulle coste occidentali del Mediterraneo prosperò una fiorente scuola di filosofi ionici profondamente interessati a teorie riguardanti la natura. Le loro idee ci sono state trasmesse, arricchite dal genio di Platone e di Aristotele. Ma, a eccezione di Aristotele, e bisogna convenire che questa è un'eccezione importante, tale scuola di pensiero non attinse alla mentalità puramente scientifica. Da un certo punto di vista fu meglio così. Il genio greco era filosofico, lucido e logico. Gli uomini di tale gruppo si ponevano questioni essenzialmente filosofiche. Qual è il substrato della natura? Il fuoco, la terra, l'acqua, o una combinazione di due di questi elementi o di tutti e tre? O si tratta di un puro fluire che non può essere ridotto a sostanza statica? Le scienze matematiche li interessavano enormemente. Ne scopersero l'universalità, ne analizzarono le premesse e giunsero a teoremi importanti attenendosi rigorosamente al ragionamento deduttivo. Le loro menti erano dominate dalla brama, dell'universalità. Essi esigevano idee chiare, nette, e un ragionamento serrato che partisse da tali idee. Tutto ciò era eccellente, significava genio, costituiva un lavoro preparatorio ideale. Ma non era scienza quale la intendiamo noi […].
Per la scienza tuttavia è indispensabile qualcosa di più del senso generale dell'ordine delle cose. Non occorre che io precisi come l'abitudine al pensiero chiaro e rigoroso si sia radicata saldamente nella mentalità europea sotto il lungo predominio della logica e della teologia scolastica. Resta il fatto che dopo il ripudio di tale filosofia, rimase la preziosa abitudine di ricercare un dato reale esatto e, una volta trovatolo, di non lasciare la presa. Galileo deve ad Aristotele assai più di quanto il suo Dialogo non lasci superficialmente apparire: gli deve la lucida ragione e spirito analitico.
Non credo però di aver ancora messo in evidenza il grande contributo dato dal Medioevo alla formazione del movimento scientifico. Intendo parlare della fede inespugnabile che ogni evento particolare può essere correlato, in modo perfettamente definito, ai suoi antecedenti e fungere da esempio di princìpi generali. Senza questa fede l'enorme lavoro degli scienziati sarebbe disperato. A questa fede istintiva, vivamente sostenuta dall'immaginazione, che costituisce il principio motore della ricerca: v'è un segreto, e questo segreto può essere svelato. Come si è insediata così saldamente nello spirito europeo questa convinzione?
Se paragoniamo il “tono” del pensiero europeo con l'atteggiamento di altre civiltà abbiamo la sicura impressione che il primo sia originato da una sola fonte. Non può infatti provenire che dalla concezione medioevale, che insisteva sulla razionalità di Dio, al quale veniva attribuita l'energia personale di Yahwèh e la razionalità di un filosofo greco. Ogni particolare era controllato e ordinato: le ricerche sulla natura non potevano sfociare che nella giustificazione della fede nella razionalità. Non parlo, si badi, delle convinzioni dichiarate di pochi individui. Ciò che ho in mente è l'impronta lasciata nello spirito europeo da una fede secolare e incontestata. A questo che intendo con “tono” istintivo del pensiero e non un mero credo espresso con parole.
In Asia i concetti di Dio riguardavano un essere troppo arbitrario o troppo impersonale perché tali idee di esso riuscissero a determinare abitudini istintive della mente. Qualunque evento determinato poteva essere attribuito al fiat di un despota irrazionale o scaturire da qualche “origine delle cose” impersonale e imperscrutabile. Mancava quella fiducia che proviene dall'idea della razionalità intelligibile di un essere personale. Non intendo sostenere che la fede europea nella possibilità di perscrutare la natura fosse logicamente giustificata dalla sua stessa teologia. Cerco solo di capire come essa sia sorta. La mia tesi è che la fede nelle possibilità della scienza, nata prima dello sviluppo della teoria scientifica moderna, è un derivato inconsapevole della teologia medioevale.
Ma la scienza non è solamente il risultato di una fede istintiva; essa esige anche un interesse attivo ai semplici fenomeni della vita in quanto tali.
Questa precisazione, “in quanto tali”, è molto importante. La prima fase del Medioevo fu un'epoca di simbolismo. Un'epoca di grande idealità e di tecnica primitiva. Non v'erano punti di contatto con la natura, tranne che per strapparle l'occorrente al duro vivere materiale. Vi erano invece grandi domìni spirituali da esplorare, domìni di filosofia e domìni di teologia. L'arte primitiva seppe tradurre in simboli queste idealità che impregnavano gli spiriti meditativi. La prima fase dell'arte medioevale ha un fascino incomparabile: il suo valore intrinseco è aumentato dal fatto che il suo messaggio, superando la giustificazione dell'arte come conseguimento estetico, costituisce una rappresentazione simbolica delle cose che stavano dietro la natura in sé e per sé. Durante questa fase simbolistica, l'arte medioevale si avvalse della natura come di un medium per raggiungere un altro mondo.
Per comprendere il contrasto tra l'inizio del Medioevo e l'atmosfera necessaria all'esistenza di una mentalità scientifica, porremo a confronto il sesto secolo e il sedicesimo in Italia. In questi due secoli, infatti, il genio italiano pose le basi di un'epoca nuova. La storia dei tre secoli che precedettero il primo dei due periodi, malgrado le prospettive aperte dall'avvento del cristianesimo, è sempre più viziata dal sentimento della decadenza della civiltà. Ad ogni generazione si perdeva qualcosa. Quando ne leggiamo i documenti sentiamo incombere lo spettro della barbarie che avanza. Non mancano, certo, anche uomini grandi nell'azione come nel pensiero. Ma il loro effetto globale è solo quello di arrestare per un po' il declino generale. Nel sesto secolo si tocca, per quanto attiene all'Italia, il punto più basso della curva. Ma, durante lo stesso secolo, vari eventi contribuirono a porre le basi del prodigioso sviluppo della nuova civiltà europea. L'Impero bizantino, sotto Giustiniano, determinò in tre modi il carattere dell'inizio del Medioevo nell'Europa occidentale. In primo luogo i suoi eserciti, al comando di Belisario e di Narsete, liberarono l'Italia dalla dominazione dei goti. In tal modo rimase libero campo all'esercizio dell'antico talento italico di creare organizzazioni, che allora furono destinate a proteggere gli ideali dell'attività civilizzatrice. Non è possibile non provare una certa simpatia per i goti, eppure è fuori di dubbio che un millennio di Papato è stato infinitamente più prezioso per l'Europa di qualunque effetto che sarebbe potuto derivare da un ben consolidato regno goto in Italia.
In secondo luogo la codificazione del diritto romano stabilì l'idea della legalità che dominò poi il pensiero sociologico dell'Europa durante i secoli seguenti. La legge è al tempo stesso uno strumento per governare e una condizione che impone limiti al governare. Il diritto canonico della Chiesa e il diritto civile dello Stato debbono ai giuristi di Giustiniano la loro influenza sullo sviluppo dell'Europa. Essi fissarono nello spirito occidentale l'ideale di un potere che dovrebbe al tempo stesso essere legale, capace di esigere l'obbedienza alle leggi e tale da rappresentare in sé stesso un sistema di organizzazione regolato in modo razionale. Il sesto secolo in Italia fu la prima dimostrazione di come queste idee, favorite dal contatto con l'impero bizantino, si siano impresse in modo duraturo.
In terzo luogo, nelle sfere non politiche dell'arte e del sapere, Costantinopoli rivelò modelli di realizzazione che, in parte incitando a una imitazione diretta, in parte per ispirazione indiretta derivante dalla semplice conoscenza della loro esistenza, costituirono uno stimolo costante per la civiltà occidentale. La sapienza dei bizantini, nel modo in cui colpì l'immaginazione della mentalità medioevale nella prima fase, svolse una funzione analoga a quella che ebbe la sapienza degli egizi per i greci dell'epoca arcaica. Nei due casi, le conoscenze effettive erano probabilmente della giusta misura per essere utili agli interessati. Costoro ne possedevano abbastanza per sapere quali modelli potevano raggiungere, ma non tanto da restare impastoiati in forme di pensiero statiche e tradizionali. Perciò, in entrambi i casi, si poté procedere in piena indipendenza e si fece di meglio. Nessuna spiegazione dell'origine della mentalità scientifica europea può tralasciare di tener conto di questo influsso della civiltà bizantina. Nel sesto secolo, tuttavia, si verifica una crisi nelle relazioni tra i bizantini e l'Occidente; e in contrapposizione a questa crisi deve essere messa in risalto l'influenza della letteratura greca che inciderà poi sul pensiero europeo del sedicesimo e diciassettesimo secolo. I due uomini di primo piano, che posero nel sesto secolo le fondamenta dell'avvenire, furono san Benedetto e Gregorio Magno. Soltanto considerando costoro possiamo misurare fino a che punto fosse decaduta la mentalità relativamente scientifica che era stata raggiunta dai greci. Si era ormai allo zero del termometro scientifico. Ma l'opera di Gregorio e di Benedetto contribuì alla ricostruzione dell'Europa con elementi che racchiudevano la garanzia di una mentalità scientifica futura più reale ed efficiente di quella del mondo antico. I greci erano ultrateorici. Per essi la scienza non era che un ramo della filosofia. Gregorio e Benedetto erano uomini pratici, che non perdevano di vista l'importanza delle cose ordinarie, e portavano questa loro concretezza nelle attività religiose e culturali. Dobbiamo in modo particolare a san Benedetto che i monasteri abbiano ospitato abili agricoltori non meno che santi, artisti ed eruditi. L'alleanza tra scienza e tecnologia che ha conservato il contatto tra il sapere e “i fatti irriducibili e ostinati”, deve molto all'indole pratica dei primi benedettini. La scienza moderna deriva quindi da Roma non meno che dalla Grecia, ed è a questa componente romana del suo linguaggio che essa deve l'incrementata energia del pensiero tenuto in intimo contatto col mondo della realtà.
L'influsso del contatto tra i monasteri e i fatti della natura si mostrò in un primo tempo nell'arte. Il naturalismo, sorto nel tardo Medioevo, rappresentò l'ingresso nello spirito europeo dell'ultimo elemento necessario alla nascita della scienza. Con esso nacque l'interesse per i fenomeni naturali in sé e per sé. Il fogliame tipico delle foreste della regione fu scolpito perfino in punti secondari e remoti degli edifici per il mero piacere di riprodurre cose familiari. L'intera atmosfera di ciascuna arte esprimeva la gioia spontanea di percepire e fissare la comprensione delle cose che circondano gli uomini. Sotto questo aspetto agli artigiani che eseguirono le sculture decorative medioevali dell'ultimo periodo non sono dissimili da Giotto, Chaucer, Wordsworth, Walt Whitman e dal poeta del New England, nostro contemporaneo, Robert Frost. I semplici fatti immediati sono oggetti di interesse e si ritrovano poi nel pensiero scientifico sotto l'aspetto di “fatti irriducibili e ostinati”.
Lo spirito dell'Europa era ormai preparato alla nuova avventurosa impresa del suo pensiero. Non è necessario trattare particolareggiatamente dei vari eventi e uomini che hanno contrassegnato l'avvento della scienza: l'aumento della ricchezza e del tempo per l' otium , lo sviluppo delle università, l'invenzione della stampa, la caduta di Costantinopoli, Copernico, Vasco de Gama, Colombo, la realizzazione del telescopio. Sole, clima, seme, tutto era pronto, e la foresta nacque e crebbe.
Alfred N. Whitehead, La scienza e il mondo moderno, tr. it. di A. Banfi, Boringhieri, Torino 1979, pp. 20-25 e 30-34.