Augustinum Hipponensem, cap. II: La ragione e la fede, l’uomo e Dio: originalità ed attualità del pensiero agostiniano

I principi-guida del pensiero di Agostino sul rapporto fra fede e ragione vengono ripresi nella lettera apostolica di Giovanni Paolo II, Augustinus Hipponensem, pubblicata il 28 agosto 1986 in occasione del XVI centenario della conversione del Vescovo di Ippona. «Egli ascoltò la fede, ma non esaltò meno la ragione, dando a ciascuna il suo primato, o di tempo o di importanza. Disse a tutti il crede ut intelligas, ma ripeté anche l'intellige ut credas».

[...] E' difficile inoltrarsi nel mare del pensiero agostiniano, e tanto più difficile riassumerlo, se pur questo è davvero possibile. Mi si consenta però di ricordare, a comune edificazione, alcune luminose intuizioni di questo sommo pensatore.

1. Ragione e fede

Prima di tutto quelle riguardanti il problema che più lo attanagliò in gioventù e sul quale egli tornò con tutta la forza dell'ingegno e la passione dell'animo, quello riguardante le relazioni tra la ragione e la fede: un problema di sempre, di oggi non meno che di ieri, dalla cui soluzione dipende l'indirizzo del pensiero umano. Ma problema difficile, perché si tratta di passare incolumi tra un estremo e l'altro, tra il fideismo che disprezza la ragione e il razionalismo che esclude la fede. Lo sforzo intellettuale e pastorale di Agostino fu quello di mostrare, senza ombra di dubbio, che «le due forze che ci portano a conoscere», devono cooperare insieme.

Egli ascoltò la fede, ma non esaltò meno la ragione, dando a ciascuna il suo primato, o di tempo o di importanza. Disse a tutti il «crede ut intelligas», ma ripeté anche l'«intellige ut credas». Scrisse un'opera, sempre attuale, sull'utilità della fede e spiegò che è la fede la medicina destinata a sanare l'occhio dello spirito, la fortezza inespugnabile per la difesa di tutti, particolarmente dei deboli, contro l'errore, il nido in cui si mettono le penne per gli alti voli dello spirito, la via breve che permette di conoscere presto, con sicurezza e senza errori, le verità che conducono l'uomo alla sapienza. Ma sostenne anche che la fede non è mai senza ragione, perché è la ragione che dimostra «a chi si debba credere». Pertanto «anche la fede ha i suoi occhi con i quali vede in qualche modo che è vero quello che ancora non vede». «Nessuno dunque crede se prima non ha pensato di dover credere», poiché «credere altro non è che pensare con assenso ("cum assentione cogitare")...» tanto che «la fede che non sia pensata non è fede».

Il discorso sugli occhi della fede sfocia in quello della credibilità, di cui Agostino parla spesso adducendone i motivi, quasi a confermare la consapevolezza con cui era tornato egli stesso alla fede cattolica. Giova riportare un testo. Scrive: «Molte sono le ragioni che mi trattengono in seno della Chiesa cattolica. A parte la sapienza dell'insegnamento (questo argomento, per Agostino fortissimo, non era ammesso dagli avversari)... mi trattiene il consenso dei popoli e delle genti; mi trattiene l'autorità fondata coi miracoli, nutrita con la speranza, aumentata con la carità, consolidata con l'antichità; mi trattiene la successione dei vescovi, della sede stessa dell'apostolo Pietro, a cui il Signore dopo la risurrezione diede a pascere le sue pecore, fino al presente episcopato; mi trattiene infine lo stesso nome di cattolica che non senza ragione solo questa Chiesa ha ottenuto».

Nella grande opera della «Città di Dio», che è insieme apologetica e dommatica, il problema ragione e fede diventa quello di fede e cultura. Agostino, che tanto operò per fondare e promuovere la cultura cristiana, lo risolve svolgendo tre grossi argomenti: l'esposizione fedele della dottrina cristiana; il ricupero attento della cultura pagana in ciò che aveva di ricuperabile, e che sul piano filosofico non era poco; la dimostrazione insistente della presenza nell'insegnamento cristiano di quanto di vero e di perennemente valido v'era in quella cultura, col vantaggio di trovarvisi perfezionato e sublimato. Non per nulla la «Città di Dio» fu molto letta nel medioevo; e merita molto di essere letta anche oggi come esempio e stimolo per approfondire l'incontro del cristianesimo con le culture dei popoli. Vale la pena di riportare un importante testo agostiniano: «La città celeste... convoca cittadini da tutte le nazioni non badando alla differenza dei costumi, delle leggi, delle istituzioni... non sopprime né distrugge alcuna di queste cose, anzi accetta e conserva tutto ciò che, sebbene diverso nelle diverse nazioni, tende a un solo e medesimo fine: la pace terrena, a condizione che non impediscano la religione che insegna ad adorare l'unico Dio, sommo e vero».

2. Dio e l'uomo

L'altro grande binomio che Agostino approfondì senza posa è Dio e l'uomo. Liberatosi, come ho detto sopra, dal materialismo che gli impediva di avere un'esatta nozione di Dio - e quindi la vera nozione dell'uomo -, fissò in questo binomio i grandi temi della sua ricerca e li studiò sempre insieme: l'uomo pensando a Dio, Dio pensando all'uomo, che ne è l'immagine.

Nelle «Confessioni» si pone queste due domande: «Che cosa sei tu per me, Signore?», «e che cosa sono io per te...?». Per rispondere ad esse impiega tutte le risorse del suo pensiero e tutta l'insonne fatica del suo apostolato. Egli è pienamente convinto dell'ineffabilità di Dio, tanto da esclamare: «Che c'è di strano se non comprendi. Se comprendi non è Dio»; perciò «non è un piccolo inizio della conoscenza di Dio se, prima di sapere che cosa egli è, cominciamo a sapere che cosa egli non è». Occorre dunque cercar «di capire Dio, se possiamo, per quanto lo possiamo, buono senza qualità, grande senza quantità, creatore senza necessità», e così via per tutte le categorie del reale che Aristotele aveva descritte.

Nonostante la trascendenza e l'ineffabilità divina Agostino, partendo dall'autocoscienza dell'uomo che sa di essere, di conoscere e di amare, e confortato dalla Scrittura che ci rivela Dio come l'Essere supremo (Es 3,14), la somma Sapienza (Sap passim) e il primo amore (1Gv 4,8), illustra questa triplice nozione di Dio: essere da cui procede, per creazione dal nulla, ogni essere, verità che illumina la mente umana perché possa conoscere con certezza la verità, amore da cui procede e a cui tende ogni vero amore. Dio infatti, come egli ripete tante volte, è «la causa del sussistere, la ragione del pensare, la norma del vivere» o, per riportare un'altra formula celebre, «la causa dell'universo creato, la luce della verità che percepiamo, la fonte della felicità che assaporiamo».

Ma dove il genio di Agostino si esercitò maggiormente fu nello studiare la presenza di Dio nell'uomo, presenza che è insieme profonda e misteriosa. Egli trova Dio, «l'interno-eterno», remotissimo e presentissimo: perché remoto l'uomo lo cerca, perché presente lo conosce e lo trova. Dio è presente come «sostanza creatrice del mondo», come verità illuminatrice, come amore che attrae, più intimo di quanto vi è nell'uomo di più intimo e più alto di quanto vi è di più alto. Riferendosi al periodo antecedente la conversione, Agostino dice a Dio: «Dov'eri dunque allora e quanto lontano da me? Io vagavo lontano da te... tu, invece, eri più dentro in me della mia parte più profonda e più alto della mia parte più alta»; «eri con me, e io non ero con te». E insiste: «eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me, e non mi ritrovavo. Tanto meno ritrovavo te». Chiunque non trova se stesso non trova Dio, perché Dio è nel profondo di ciascuno di noi.

L'uomo dunque non s'intende se non in ordine a Dio. Agostino ha illustrato con vena inesauribile questa grande verità, mentre studiava il rapporto dell'uomo con Dio e lo espresse nelle maniere più varie e più efficaci. Egli vede l'uomo come una tensione verso Dio. Sono celebri le sue parole: «Ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te». Lo vede come capacità di essere elevato fino alla visione immediata di Dio: il finito che raggiunge l'Infinito. L'uomo, scrive ne « La Trinità », «è immagine di Dio, in quanto è capace di Dio e può essere partecipe di lui». Questa capacità «impressa immortalmente nella natura immortale dell'anima razionale» è il segno della sua grandezza suprema: «in quanto è capace e può essere partecipe della natura suprema, l'uomo è una grande natura». Lo vede inoltre come un essere indigente di Dio, perché bisognoso della felicità che non può trovare se non in Dio. «La natura umana è stata creata in tanta eccellente grandezza che, per quanto mutabile, solo aderendo al Bene immutabile, che è il sommo Dio, può conseguire la felicità, né può colmare la sua indigenza senza essere felice, ma a colmarla non basta se non Dio».

Da questo rapporto costituzionale dell'uomo con Dio dipende l'insistente richiamo agostiniano all'interiorità. «Torna in te stesso; nell'uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso» per trovare Dio, fonte della luce che illumina la mente. Insieme alla verità c'è nell'uomo interiore la misteriosa capacità d'amare, la quale, come un peso - è questa la celebre metafora agostiniana -, lo porta al di fuori di sé, verso gli altri e soprattutto verso l'Altro, cioè Dio. Il peso dell'amore lo rende costituzionalmente sociale, al punto che «nessuno», come scrive Agostino, «è tanto sociale per natura quanto l'uomo».

L'interiorità dell'uomo, dove si raccolgono le ricchezze inesauribili della verità e dell'amore, costituisce «un abisso», che il nostro dottore non cessa mai di scrutare, e mai cessa di stupirsene. Ma a questo punto occorre aggiungere che l'uomo appare, per chi sia pensoso di sé e della storia, un grande problema, come dice Agostino, una «magna quaestio». Troppi sono gli enigmi che lo circondano: l'enigma della morte, della divisione profonda che soffre in se stesso, dello squilibrio insanabile tra ciò che è e ciò che desidera; enigmi che si riducono a quello fondamentale, che consiste nella sua grandezza e nella sua incomparabile miseria. Su questi enigmi, dei quali ha parlato a lungo il concilio Vaticano II quando si è proposto di illustrare «il mistero dell'uomo», Agostino si è gettato con passione e vi ha esercitato tutto l'acume della sua intelligenza non solo per scoprirne la realtà, che è spesso molto triste - se è vero che nessuno è tanto sociale per natura quanto l'uomo, è vero anche, aggiunge l'autore della «Città di Dio» edotto dalla storia, che «nessuno quanto l'uomo è tanto antisociale per vizio» - ma anche e soprattutto per cercarne e proporne la soluzione. Ora in quanto alla soluzione non ne trova che una, quella che gli era apparsa alla vigilia della sua conversione: Cristo, redentore dell'uomo. Su questa soluzione ho inteso il bisogno di richiamare anch'io l'attenzione dei figli della Chiesa e di tutti gli uomini di buona volontà nella mia prima enciclica, appunto la «Redemptor Hominis», lieto di raccogliere nella mia voce la voce di tutta la tradizione cristiana.

Entrando in questa problematica il pensiero di Agostino, pur restando fondamentalmente filosofico, si fa più teologico, e il binomio Cristo e la Chiesa, che aveva prima negato e poi riconosciuto negli anni della giovinezza, incomincia a illustrare quello più generale di Dio e dell'uomo.

 

Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Augustinum Hipponensem, 28 agosto 1986, cap. II. “Il dottore”