Il 12 aprile 1961, per la prima volta nella storia, un uomo, il Colonnello Yuri Gagarin, usciva dall’atmosfera terrestre ed entrava in orbita intorno al nostro pianeta. Il veicolo spaziale su cui viaggiava, la capsula Vostok, compiva un giro intorno alla Terra alla velocità orbitale di circa 27,000 km/h per rientrare senza problemi nell’atmosfera ed atterrare, come previsto, grazie ad un paracadute.
La notizia si diffuse immediatamente e, come consueto in quegli anni in cui le imprese spaziali di Sovietici e Americani venivano per lo più interpretate alla luce della guerra fredda che allora calamitava l’attenzione di tutti, riempì le prime pagine dei giornali di tutto il mondo e fu ripetuta infinite volte dalla radio e dalla televisione.
Le preoccupazioni e gli entusiasmi politici e ideologici, che in quel clima dominavano i commenti e le cronache, erano predominati e non molti seppero guardare con sufficiente distacco all’avvenimento, rendendosi veramente conto di cosa significasse il fatto che un uomo era riuscito a compiere un, seppur brevissimo, viaggio nello spazio.
Ogni volta che si verifica per la prima volta un avvenimento che, nel bene come nel male, calamita l’opinione pubblica, i commentatori cavalcano l’onda dell’emozione e, sciorinando la loro retorica, parlano dell’inizio di una nuova era. Noi staremmo così vivendo nell’era atomica, nell’era del cinema, dell’informazione, della televisione… Anche mode più o meno effimere vengono spesso spacciate per fatti epocali e preannunciate come l’inizio di una nuova era. Il lancio del primo satellite artificiale, avvenuto solamente 3 anni e mezzo prima, e ancor più il lancio nello spazio di un uomo, non potevano non segnalare l’inizio della nuova, strabiliante, era spaziale. In occidente, la preoccupazione per la possibile perdita della supremazia tecnologico-militare, su cui si basava la sua sicurezza e forse la sua stessa sopravvivenza, era mitigata dalla speranza dei pochi che intravedevano l’apertura di nuove prospettive e dalla divertita ironia di coloro cui tutta la faccenda ricordava solo i fumetti di Flash Gordon e i film di fantascienza di serie B.
In realtà, prima ancora di rappresentare un primo timido passo dell’umanità nello spazio, un primo passo che sarà seguito a soli otto anni di distanza da quell’altro “piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità”, come dirà Neil Armstrong sbarcando sulla Luna, costituiva una conferma definitiva. Non bisogna dimenticare infatti che non pochi erano convinti che l’uomo non potesse lasciare il suo pianeta: l’assenza di gravità (o, meglio, la microgravità) e l’estrema ostilità dell’ambiente spaziale avrebbero impedito all’uomo (in realtà, a qualsiasi essere vivente complesso) di sopravvivere nello spazio.
Non per nulla i sovietici, sin dal secondo lancio (Sputnik 2, avvenuto il 3 novembre 1957), avevano messo in orbita un essere vivente, la cagnetta Laika. Il problema da risolvere era per prima cosa quello: un essere vivente complesso poteva sopravvivere fuori dalla superficie terrestre? Il volo di Gagarin rispose inequivocabilmente di si, come coloro che sostenevano il diritto/dovere dell’uomo ad espandersi oltre il suo pianeta d’origine sostenevano da più di mezzo secolo. L’importanza del volo di Gagarin va quindi ben oltre il contesto della guerra fredda e della rivalità tra il mondo “capitalista” e quello “comunista”, come si diceva allora, così come l’importanza dei viaggi di Colombo va ben oltre la rivalità tra i regni di Spagna e Portogallo.
Prima del volo spaziale di Gagarin si erano già poste le basi per l’utilizzo di satelliti artificiali per le telecomunicazioni, la navigazione e molte altre attività economiche e gli scienziati sapevano che in condizioni di microgravità si potevano compiere esperimenti scientifici impossibili sul nostro pianeta. Gli astronomi che studiavano i corpi del sistema solare avevano già programmato sonde spaziali che permettessero di studiare da vicino la Luna e i pianeti, almeno quelli più vicini, sonde che nei decenni successivi hanno effettivamente rivoluzionato l’astronomia planetaria.
L’esplorazione spaziale può tuttavia essere vista come qualcosa di molto più importante dell’occasione per migliorare i sistemi di telecomunicazione o per realizzare servizi più efficienti e meno costosi; gli stessi fini scientifici sono in fondo limitati rispetto alle prospettive più vaste implicite nella definizione di era spaziale. Il problema di fondo è un altro: la specie umana è destinata a restare per sempre sul suo pianeta di origine o al contrario è destinata a espandersi nello spazio? E, ammesso che tale espansione sia possibile e che si realizzi, esistono comunque dei limiti invalicabili oltre i quali non si potrà mai andare?
Tali prospettive sono state sviluppate da un’intensa elaborazione filosofica che ha il suo culmine, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, nel “Cosmismo” russo, che sosteneva il destino cosmico dell’uomo e l’unità tra l’umanità (anzi, le moltissime comunità di esseri intelligenti che secondo Tsiolkovsky si sono evolute nell’Universo) e il Cosmo. I suoi principali esponenti furono il filosofo Fedorov e lo stesso Tsiolkovsky, ma influenzò molti importanti intellettuali, tra cui anche Dostoevsky e Tolstoy.
Secondo questa visione, la specie umana, che si è evoluta sulla Terra, ha un destino che va ben oltre il proprio pianeta. Lasciare la sua superficie per diffondersi nel cosmo è quindi un vero e proprio imperativo, il cosiddetto imperativo spaziale. Lo spazio è pertanto una vera frontiera dell’umanità da spingere gradualmente sempre più lontano nell’universo che ci circonda. Ovviamente con tutte le suggestioni e i miti che tale termine evoca.
Konstantin Tsiolkovsky ha sintetizzato questa idea, al livello più semplice, osservando che, se è vero che la Terra è la culla dell’umanità, è altrettanto vero che dalla culla bisogna prima o poi uscire per affrontare la vita. La storia dell’umanità sul nostro pianeta non sarebbe quindi che una specie di prologo per la vera storia, che deve ancora sostanzialmente cominciare, la storia dell’uomo abitatore del Cosmo.
Questa visione ha infinite sfumature, da quelle minimaliste, che vedono l’uomo come specie confinata al sistema solare, ad altre che prevedono un’espansione su scala infinitamente più grande. Anche i motivi per cui l’uomo dovrebbe seguire tale imperativo sono molteplici, e vanno dalla pura e semplice sopravvivenza (in quanto non è affatto sicuro puntare tutto su un unico pianeta, che può essere coinvolto in catastrofi di vario genere e che, alla fine, dovrà comunque subire la sorte del nostro sistema solare), a fini di tipo materialistico, storicistico o religioso. Soprattutto nell’ultimo caso, l’uomo può essere visto come l’unico essere intelligente, l’agente in qualche modo incaricato di umanizzare il creato, oppure come una delle tante specie intelligenti destinate a creare una comunità di dimensioni cosmiche.
Recentemente è stata proposta una generalizzazione di tale impostazione con la formulazione di un ipotetico principio, detto “Principio dell’espansione della vita cosciente” (CLEP: Conscious Life Expansion Principle) che, nella forma forte, stabilisce quanto segue: Una specie intelligente e cosciente che si evolve su un pianeta è in grado di intraprendere l’esplorazione dello spazio. Tale impresa non è un’opzione o un evento occasionale nella storia della specie, ma rappresenta un modo obbligatorio di diffusione della vita di livello superiore al di fuori del luogo in cui si è sviluppata. Affinché tale principio sia valido è necessario che le leggi fisiche permettano a tutte le forme di vita intelligente di intraprendere il volo interstellare e che tale possibilità si verifichi in qualsiasi galassia dove sia comparsa vita intelligente, indipendentemente dal numero di sistemi stellari abitati in qualsiasi epoca.
Dello stesso principio esiste una forma debole, la quale stabilisce che le leggi fisiche sono orientate verso la possibilità di esistenza della vita e permettono alla vita cosciente di intraprendere il volo interstellare. Ciascuna civiltà può essere fortemente motivata a esplorare l’universo o in modo indiretto dal proprio sistema stellare o direttamente espandendosi in altri sistemi.
L’espansione nello spazio sarebbe una caratteristica fondamentale dell’intelligenza e quindi anche di ipotetici esseri intelligenti che possono essersi sviluppati altrove, nella nostra galassia o in generale nell’Universo. Più che un fine da perseguire attivamente, un vero e proprio imperativo per la specie umana, si tratterebbe dunque di una logica conseguenza dell’intelligenza dell’uomo, una continuazione della stessa spinta che ha portato la vita a diffondersi su tutta la Terra, occupandone anche gli ambienti apparentemente meno adatti. Primo Levi, commentando il primo sbarco sulla Luna e analizzandone le motivazioni, scriveva: “Alla base di tutti [i motivi], si intravvede un archetipo; sotto l’intrico del calcolo, sta forse l’oscura obbedienza a un impulso nato con la vita e ad essa necessario, lo stesso che spinge i semi dei pioppi ad avvolgersi di bambagia per volare lontani nel vento, e le rane, dopo l’ultima metamorfosi, a migrare ostinate di stagno in stagno, a rischio della vita: è la spinta a disseminarsi, a disperdersi su un territorio vasto quanto è possibile…” (La Luna e noi, “La Stampa”, 21 luglio 1969).
La prospettiva dell’imperativo spaziale ha attirato, sin dal suo inizio, numerose critiche, che vanno dall’accusa di diabolica presunzione a quella, molto più pratica, di propugnare idee irrealizzabili. Una critica del primo tipo può essere trovata nel romanzo Lontano dal Pianeta Silenzioso, scritto nel 1938 dal letterato e critico C.S. Lewis. Se è vero che non sono molti a sottoscrivere obiezioni di questo tipo, tuttavia le difficoltà, che l’uomo incontrerà sulla strada che lo potrebbe portare a diffondersi nell’Universo, o almeno in una piccolissima parte della nostra galassia, paiono a molti insuperabili.
Sino a oltre la metà del XX secolo vi era una diffusa convinzione che persino il primo passo lungo questa strada, l’uscita dal campo gravitazionale terrestre, fosse impossibile. Il viaggio spaziale di Gagarin ci ha dimostrato che questo primo passo è fattibile. Tuttavia ci rendiamo conto che anche soltanto raggiungere l’orbita terrestre richiede macchine molto complesse e costose tecnologie: quello che sembrava impossibile si è rivelato semplicemente difficile e costoso. Le difficoltà poi aumentano man mano che ci si allontana dalla Terra.
Tuttavia c’è oggi un accordo generale sul fatto che i problemi tecnici che si oppongono al volo umano nella parte più vicina del sistema solare, quella compresa tra le orbite di Venere e di Marte, sono superabili, dal punto di vista tecnologico. Quello su cui non vi è accordo è se vi siano fondati motivi per intraprendere tali viaggi, con gli altissimi costi e i potenziali pericoli che essi implicano.
Man mano che la nostra conoscenza dei corpi celesti più vicini a noi diveniva più precisa, infatti, la speranza che nel sistema solare esistessero corpi celesti abitabili, o quanto meno ambienti non troppo ostili, diveniva sempre più remota. Nel 1952, ad esempio, Carlo Emilio Gadda, in una sua prefazione, parlava di esplorazione della Luna, di Venere e di Marte, definendo tali corpi celesti Nuove Indie, definizione che implicava non solo l’esplorazione, ma addirittura la colonizzazione su vasta scala. Certamente le conoscenze che oggi abbiamo di Venere ci portano a escludere tale prospettiva, almeno per un lunghissimo periodo di tempo, e vi sono molti che hanno fortissimi dubbi sul fatto che anche la Luna e Marte possano essere colonizzati. Gli ambienti che si trovano nella parte più lontana del sistema solare, dall’orbita di Giove in poi, oppure in quella più interna, vicino all’orbita di Mercurio, sono ancora più estremi.
Le distanze che l’uomo dovrà affrontare se tenterà di uscire dal sistema solare sono poi talmente spaventose che anche la sola esplorazione, con sonde automatiche, dei sistemi planetari più vicini appare a molti come un’utopia. Vi sono dunque frontiere naturali nello spazio che non potranno essere mai valicate dall’uomo? E in tale caso, dove sono poste queste Colonne d’Ercole che delimitano l’universo umano?
Se le cose stessero così l’imperativo spaziale potrebbe essere un errore di prospettiva: la vita ha occupato tutti gli angoli, anche i più remoti, della Terra e ora deve semplicemente adattarsi alla mancanza di ulteriori spazi in cui espandersi e sopravvivere, fino a quando un qualche evento catastrofico od il naturale invecchiamento del nostro Sole renderanno inabitabile il pianeta. Oppure, anche se l’imperativo spaziale non fosse una chimera, sarebbe comunque prematuro anche solo il parlarne e sarà necessario attendere una tecnologia, per noi inimmaginabile, che permetterà di metterlo in pratica.
D’altro lato bisogna rendersi conto che la tecnologia ci permette di affrontare quotidianamente ambienti estremamente ostili: quello che sta dall’altra parte del sottile guscio della fusoliera di un aeroplano di linea è un ambiente in cui l’uomo non potrebbe mai sopravvivere ed è solamente poco meno ostile dell’ambiente spaziale. Gli edifici che vengono realizzati in località molto calde e desertiche sono completamente isolati dall’ambiente circostante e non sono sostanzialmente differenti da quelli che verranno costruiti un giorno sulla Luna o su Marte.
Accanto alla visione globale dell’imperativo spaziale si è aggiunta più recentemente una visione più pragmatica, secondo la quale l’espansione dell’uomo nello spazio è necessaria per sfuggire a quella situazione di limitatezza delle risorse disponibili che sta frenando, e ancor più frenerà in futuro, lo sviluppo dell’umanità.
La vecchia idea di Malthus per cui la limititatezza delle risorse deve porre un limite allo sviluppo, non solo demografico, dell’umanità è ritornata all’attenzione di tutti a partire dalla metà del XX secolo. In realtà, anche se avessero ragione i critici di Malthus, che sin dal XIX secolo lo accusarono di trascurare il potere inventivo dell’uomo che, creando nuove risorse, permette l’aumento della popolazione che può vivere su un dato territorio, è comunque indubbio che, se l’umanità può contare sulle sole risorse della Terra, prima o poi si troverà necessariamente a fare i conti con questo limite.
Ma queste conclusioni valgono per un’umanità installata su un solo pianeta, con a disposizione solamente le risorse disponibili su di esso. La risposta è la cosiddetta opzione spaziale, basata sull’uso di risorse extraterrestri, sul loro trasporto sulla Terra per provvedere a una significativa frazione delle esigenze della società e anche sullo spostamento di attività produttive che abbiano un notevole impatto ambientale fuori dal nostro pianeta.
L’importazione di materie prime e di energia dallo spazio, senza soprattutto che la loro produzione contribuisca all’inquinamento della Terra, e contemporaneamente l’insediamento in altri luoghi di un numero non indifferente di esseri umani, renderà possibile estendere il benessere, oggi goduto da una parte privilegiata dell’umanità, a coloro che ne sono esclusi senza che i primi debbano rinunciare a una parte considerevole delle loro stesse speranze di progresso.
Molti economisti dubitano che l’opzione spaziale sia praticabile a costi accettabili o che sia attuabile su una scala tale da avere un qualche impatto sullo sviluppo globale dell’umanità. Tuttavia, secondo i sostenitori dell’espansione nello spazio, tale obiezione è un sintomo delle difficoltà psicologiche ad accettare soluzioni non terrestri ai problemi umani. Difficoltà psicologiche a parte, resta comunque il problema dei costi di trasporto delle materie prime e dei prodotti extraterrestri sul nostro pianeta e, soprattutto, quello di spostare dalla superficie della Terra verso lo spazio le attrezzature di estrazione e il personale. Tuttavia, se si tiene conto anche dei costi legati alle conseguenze ambientali che le operazioni di estrazione sulla Terra comportano, man mano che la scarsità delle materie prime costringerà a estrarre e trattare quantità sempre maggiori di minerali sempre più poveri, la bilancia si sposterà sicuramente a favore delle risorse extraterrestri.
Ma il punto fondamentale è che i costi di trasporto dipendono principalmente da dove i materiali estratti devono essere trasportati. Se ad esempio si deve realizzare un’infrastruttura in orbita intorno alla Terra, vi è una notevole convenienza a farlo usando materiale di origine lunare piuttosto che terrestre. Senza dimenticare che i costi maggiori sono legati allo sviluppo delle necessarie tecnologie e alla realizzazione delle infrastrutture e sono quindi costi di investimento. Coloro che sostengono l’opzione spaziale ritengono che gli ingenti investimenti richiesti avranno una produttività molto elevata.
I costi di trasporto dipendono poi moltissimo dalla tecnologia; qualsiasi innovazione che permetta di ridurre i costi di lancio dalla Terra o di trasporto nello spazio renderà lo sfruttamento delle risorse extraterrestri più praticabile. La tecnologia attuale permette di esplorare, e poi di sfruttare, una buona parte della zona a noi più vicina del sistema solare, ma molti sono convinti che solo ulteriori progressi tecnologici permetteranno di rendere realizzabili tali obiettivi anche da un punto di vista economico.
Un bene può essere trasportato in modo economicamente conveniente a distanze tanto maggiori quanto minore è la sua massa per unità di valore e quanto più elevata è la velocità alla quale può essere trasportato. Chiaramente il bene che può più facilmente essere importato dallo spazio è quindi l’informazione, che ha massa nulla e viaggia alla massima velocità possibile, la velocità della luce. Le attività economiche attualmente effettuate nello spazio sono infatti tutte legate al trasporto e alla produzione di informazione (satelliti per telecomunicazioni, satelliti meteorologici, attività di ricerca e sviluppo sulla stazione spaziale…).
Un altro bene facilmente trasportabile a grandi distanza è l’energia, che può essere trasportata con grande efficienza mediante fasci di microonde. La scarsità di energia e le conseguenze ambientali della sua generazione sono peraltro uno dei maggiori problemi che la nostra società deve affrontare. Lo spazio circumterrestre è molto ricco di energia proveniente dal Sole, che può essere trasformata in energia elettrica da centrali elettriche orbitali e quindi trasmessa sulla superficie del pianeta mediante fasci di microonde.
Una parte dell’energia può essere utilizzata in loco, per lavorazioni industriali che richiedano ingenti quantità di energia, permettendo così di spostare lontano dalla superficie terrestre (nello spazio, sulla Luna o su altri corpi celesti) lavorazioni che abbiano un forte impatto ambientale, sia dal punto di vista dell’inquinamento termico che di quello chimico. Bisogna infatti notare che, in molti casi, ciò che costituisce inquinamento sulla superficie della Terra non è affatto nocivo nello spazio o sulla Luna. Non ha senso ad esempio parlare di inquinamento termico quando si disperde per radiazione calore nello spazio e anche l’inquinamento radioattivo ha ben poco peso in un ambiente che di per sé è ricchissimo di radiazioni di ogni genere.
K.A. Ehricke e G.K. O'Neill, i pionieri dell’opzione spaziale, parlano esplicitamente di divisione del lavoro tra la Terra e lo spazio. In quest’ottica lo spostamento di molte attività produttive fuori dalla Terra porterà all’insediamento nello spazio e su altri corpi celesti di una porzione non trascurabile della popolazione e i grandi habitat spaziali, insieme alle centrali elettriche spaziali ed eventualmente alle basi lunari, sono caratteristiche tipiche dell’opzione spaziale.
Mentre l’imperativo spaziale riguarda le prospettive a lungo termine dell’umanità, l’opzione spaziale cerca di offrire una via d’uscita a una crisi che molti prevedono come prossima. Un’altra differenza tra imperativo spaziale e opzione spaziale è che quest’ultima riguarda principalmente lo spazio vicino alla Terra e quindi risentirà meno delle difficoltà legate alle grandi distanze e all’ostilità dell’ambiente. Per di più lo sfruttamento delle risorse extraterrestri è meno legato alla presenza umana e può non richiedere una colonizzazione diretta da parte dell’uomo. Anche se l’opzione spaziale viene in generale associata alla realizzazione di grandi habitat e a un gran numero di persone che lavorano e vivono nello spazio, i progressi nel campo della robotica possono far prevedere scenari in cui le attività lavorative nello spazio siano per lo più automatizzate.
Nell’entusiasmo che pervadeva i sostenitori dell’esplorazione dello spazio negli anni ‘60, sembrava che tutto fosse possibile. E d’altra parte, come non si poteva pensare così se, in soli otto anni dal primo volo nello spazio, era stato possibile realizzare un’impresa come lo sbarco sulla Luna? Si poteva dire che non era desiderabile andare su Marte o raggiungere uno qualsiasi degli obiettivi proposti, ma non che tecnicamente fossero fuori dalle possibilità dell’uomo. Sembrava che fosse possibile iniziare subito a mettere in pratica l’imperativo spaziale, e progetti ambiziosi iniziarono a prendere forma.
Oggi sappiamo che non è stato così. I grandi progetti spaziali non si sono concretizzati e solo recentemente si è ricominciato a parlare di ritorno alla Luna e di esplorazione umana di Marte.
Un punto controverso è se una delle cause della crisi delle attività spaziali sia anche l’insufficienza delle attuali tecnologie. A prima vista sembrerebbe di no: con la tecnologia degli anni ‘60 l’uomo ha raggiunto la Luna e molti progetti per raggiungere Marte non richiedono innovazioni tecnologiche di rilievo. Si può quindi affermare che, almeno se si resta nell’ambito della parte più vicina a noi del Sistema Solare, le attuali tecnologie sono sufficienti.
Il punto non è però esattamente quello. Il fatto che si possa raggiungere la Luna (e è dimostrato dai fatti) e Marte (dimostrato sulla carta) non vuole necessariamente dire che l’attuale tecnologia sia sufficiente a portare la Luna e Marte nel novero delle terre veramente conquistate dall’uomo.
Un esempio storico può forse illustrare la situazione. Sicuramente i Vichinghi del X secolo avevano la capacità tecnologica di raggiungere il nuovo mondo, e infatti Leiv Eriksson, figlio di Eric il Rosso, lo fece. L’impresa fu ripetuta, e alcuni coloni si stabilirono per breve tempo sulle coste americane. Ma quegli insediamenti ebbero vita breve, tanto che per secoli fu persino messo in dubbio che fossero esistiti. Solo alla fine del XV secolo il Nuovo Mondo fu scoperto veramente e a quel punto la colonizzazione fu rapidissima. In pochi decenni le colonie fiorirono e attrassero una grande popolazione. Dallo sbarco sulla Luna a oggi sono passati quarant’anni; quarant’anni dopo lo sbarco di Colombo la popolazione delle colonie americane era di molte migliaia di persone. Come fa notare l’etnologo Ben Finney, solo a metà del XV secolo furono introdotte le tecniche di navigazione e una velatura tale da permettere una sicura navigazione oceanica e questi sviluppi tecnologici permisero la colonizzazione vera e propria. E la tecnologia da sola non basta, occorrono anche le condizioni politiche ed economiche.
Se non vogliamo che i nostri viaggi verso la Luna, e forse verso Marte, abbiano la stessa rilevanza storica delle imprese americane dei Vichinghi, dobbiamo sviluppare tecnologie che ci permettano di affrontare lo spazio con sufficiente sicurezza e ripetibilità, e a costi tali da essere compatibili con i vincoli economici.
I punti in cui la tecnologia attuale è carente sono vari, ma i più determinanti sono legati alla propulsione: innanzitutto è necessario ridurre i costi di accesso allo spazio, dato che qualsiasi missione che parta dalla superficie della Terra richiede per prima cosa il lancio in orbita terrestre. La realizzazione di navette spaziali di nuova generazione, o di nuovi vettori non riutilizzabili, dovrebbe permettere di ridurre tali costi in modo significativo. Qui non si tratta di rivoluzionare la tecnologia attuale, ma solamente di procedere sulla strada intrapresa da lungo tempo, migliorando le tecnologie e i materiali, avendo in mente più la riduzione dei costi che il miglioramento delle prestazioni.
Per la propulsione nello spazio profondo è necessario riprendere gli studi iniziati più di quarant’anni fa, ma poi grandemente rallentati, su nuovi sistemi di propulsione per lo spazio profondo. Se è vero che è possibile, ad esempio, raggiungere Marte con la propulsione chimica, è però indubbio che solamente la propulsione nucleare potrà permettere di farlo in modo economicamente conveniente e con tempi di viaggio non eccessivi. E la propulsione nucleare era arrivata ad un ottimo stadio di sviluppo negli anni ‘70, con la prova al banco di propulsori che hanno funzionato regolarmente, prima di essere quasi abbandonata per motivi esclusivamente politici.
Quando sarà possibile raggiungere la Luna o Marte a costi non proibitivi, non sarà più necessario dipendere da aleatori sostegni governativi: le Agenzie spaziali sosterranno gli aspetti scientifici della ricerca spaziale e forniranno un supporto allo sviluppo tecnologico, ma gli aspetti operativi saranno direttamente gestiti da privati.
Ma per realizzare l’imperativo spaziale non basta essere in grado di muoversi nel sistema solare. Sin da quando si è cominciato a considerare la possibilità di viaggi su distanze interstellari, molti hanno sentito i limiti relativistici come un’insopportabile limitazione alla libertà di movimento dell’uomo. Tali limiti non impediscono un’espansione dell’uomo nei sistemi stellari vicini, ma sicuramente impediscono il movimento da e per i vari sistemi stellari, rendendo la colonizzazione una serie di viaggi di sola andata.
La soluzione più frequente, a livello concettuale, è quella di ipotizzare un universo a più dimensioni, in cui sia possibile uscire dal nostro mondo tridimensionale per rientrarvi in un altro punto senza dover effettivamente percorrere lo spazio che separa tali punti. E da questo è nata tutta una serie di ipotetici viaggi attraverso l’iperspazio, motori iperspaziali, salti nella quarta dimensione e infinite altre fantomatiche manovre ideate dagli scrittori di fantascienza per permettere a protagonisti e comprimari, buoni e cattivi, di violare il limite di velocità imposto da Einstein.
Un’altra soluzione, immaginata dagli scrittori al problema dei viaggi interstellari più veloci della luce (o, come si dice in gergo, FTL: Faster Than Light) è quella di creare una curvatura dello spazio-tempo e utilizzare questa distorsione della topologia per ottenere l’effetto voluto. Soluzione forse più misteriosa dell’altra, ma che permette un analogo risultato. Generalmente a questi trucchi per permettere lo spostamento di persone e cose nello spazio interstellare se ne accompagnano altri che permettono di trasferire informazioni da una parte all’altra della galassia in tempi parimenti brevi.
Viene spontaneo a questo punto chiedersi se si tratti di pure fantasie, di una specie di moderna mitologia, oppure se in un futuro più o meno lontano qualche cosa del genere possa essere effettivamente realizzata. L’esperienza ci insegna che la parola impossibile va usata con estrema cautela: quasi tutte le volte che è stata usata in passato il progresso tecnologico si è preso l’incarico di smentirla. È vero che, come si è detto, sembra che in questo caso si tratti di una vera e propria impossibilità teorica, ma la stessa teoria su cui si basa è molto più ampia di quello che appare a prima vista e le sue conseguenze non sono ancora state esplorate a fondo, anche a causa dell’enorme complessità della sua formulazione matematica. Inoltre sarebbe estremamente ingenuo pensare che la fisica attuale sia depositaria della verità scientifica ultima e che non vi possano essere ulteriori progressi nei suoi fondamenti teorici.
Recenti sviluppi nell’ambito della relatività generale potrebbero aprire nuove prospettive per i viaggi interstellari. Si sono ricavate soluzioni delle equazioni della relatività che prevedono l’esistenza di particolari tipi di buchi neri che sono stati battezzati wormholes, talvolta tradotti in italiano con buchi di tarlo; essi sono particolarmente promettenti non solo perché parrebbero in grado di permettere di passare tra due punti dello spazio distanti anni luce in poche ore, ma anche perché gli effetti gravitazionali al loro interno sarebbero molto deboli e quindi sopportabili da oggetti materiali. Bisogna ricordare che i buchi di tarlo sono per ora solo possibili soluzioni di alcune equazioni e che la loro esistenza è ben lontana dall’essere confermata sperimentalmente. Essi comunque ricordano i trucchi usati dagli scrittori di fantascienza e sono estremamente promettenti per il volo interstellare.
È possibile che prima o poi l’uomo trovi il modo realizzare sistemi di propulsione in grado di aggirare il limite di velocità cosmico. Se l’esperienza ci insegna qualche cosa, probabilmente tutto ciò non avverrà grazie ai fantomatici buchi di tarlo, e la tecnologia che permetterà il volo interstellare superluminale non sarà legata all’interazione tra campi magnetici e gravitazionali, alla materia con massa negativa e alle mille altre idee innovative che circolano attualmente. La teoria e la tecnologia che daranno all’uomo questa possibilità sono forse ancora tutte da inventare e forse saranno frutti imprevedibili di chissà quali studi futuri. L’unica cosa che possiamo fare è studiare tutti i fenomeni che non conosciamo, avvicinandoci a essi con apertura intellettuale, ma anche con grande spirito critico.
L’istinto a esplorare e ad allargare la propria sfera di conoscenza, sia in senso strettamente geografico che in senso intellettuale, è una costante del carattere dell’uomo, ben sintetizzato nel personaggio di Ulisse. Per la religione Ebraica, e di conseguenza anche per quella Cristiana e per quella Islamica, la tendenza dell’uomo a esplorare e a occupare sempre nuove terre discende addirittura da un esplicito comandamento Divino, anzi, dal primo comandamento dato da Dio all’uomo: diffondersi su tutta la Terra e sottometterne tutte le creature (cfr. Genesi, 1,28).
Oggi, per la prima volta, la vita comparsa sulla Terra miliardi di anni fa è in grado di lasciare il pianeta su cui si è formata e questo fatto può effettivamente avere un’importanza enorme per il suo futuro sviluppo. Sia che si ascriva la razionalità umana ad una causa storicistica o religiosa, sia che in modo più semplice si veda l’opera di un processo che agisce in base a una cieca casualità, appare abbastanza evidente come l’ingresso in questa nuova prospettiva sia una tappa obbligata nel futuro della specie umana. È in questo senso si può parlare dell’imperativo spaziale che la nostra specie deve seguire se vuole proseguire lungo quella strada che l’ha portata dalle savane dell’Africa Orientale sino a occupare e ad adattare a sé l’intero pianeta. O, meglio, che ha portato la vita apparsa su questo pianeta a modificarlo in modo così radicale.
Ma se con ogni probabilità l’espansione della specie umana fuori dal suo pianeta è prima o poi inevitabile, resta evidente che i tempi e i modi in cui ciò avverrà sono legati alle decisioni che verranno prese nel futuro, a breve, medio e lungo termine. Un programma di questo tipo richiede una progettualità e un impegno che sono tipici di tutte le grandi imprese umane, ma che ultimamente sembrano essersi affievoliti.
Oggi sembra che l’uomo, consapevole della potenza che la moderna tecnologia ha messo a sua disposizione, abbia paura di servirsene e abdichi a quel ruolo di agente attivo di cambiamento che ha sempre svolto, nei limiti delle sue possibilità, sin dal suo primo apparire. I decenni che hanno seguito gli anni ’70 del secolo scorso sono stati segnati profondamente da questa tendenza, generalizzata in Europa e in America, di cui l’Italia è purtroppo un caso emblematico.
Solo se saprà ricuperare questa capacità di pensare e di progettare su larga scala, la nostra civiltà, ormai planetaria, saprà allargare progressivamente il suo orizzonte, comprendendovi prima il nostro satellite, poi Marte, il pianeta che ci è più vicino, in senso umano, anche se non in senso strettamente astronomico e via via altri corpi celesti a distanze sempre maggiori. Data la scarsa affidabilità delle strutture pubbliche nell’assumere impegni a medio e lungo termine, è necessario che i privati siano messi in grado di guidare questo processo, come d’altra parte è quasi sempre avvenuto nel passato. Il ruolo che spetterà ai governi sarà quello di stabilire chiare regole del gioco e di fissare opportuni incentivi che sappiano massimizzare i risultati degli sforzi collettivi.
Oggi la riuscita di questa impresa non è scontata. Certamente, parlando di imprese di questo genere non bisogna fare l’errore di assolutizzare le condizioni del presente: se la nostra generazione rifiuterà di allargare queste prospettive, sicuramente esse verranno riprese in futuro da altre civiltà più dinamiche. Ma il prezzo che pagheremo sarà enorme, prezzo che peraltro sarà pagato soprattutto da chi ha più bisogno di nuove soluzioni ai suoi gravi problemi, soluzioni che saranno comunque rese più difficili dalla chiusura di nuovi orizzonti.
Se l’uomo deciderà di proseguire per la via intrapresa, dovrà tenere conto che l’espansione nello spazio con ogni probabilità lo cambierà profondamente. Da quando è comparso sulla Terra, l’Homo sapiens sapiens è rimasto praticamente uguale, dal punto di vista fisico, progredendo solo per l’accumulazione di cultura e di know-how tecnologico. Ma è estremamente probabile che vivere in ambienti così diversi causi processi di adattamento che in breve tempo differenzieranno gli individui. Chi vivrà a lungo in una colonia nello spazio probabilmente non potrà più vivere stabilmente sulla Terra, se non al prezzo di un lungo e forse penoso riadattamento. E per ora possiamo prevedere solo le conseguenze fisiche, ma quelle psicologiche possono essere altrettanto importanti. Come potrà reagire chi è nato e vissuto nel chiuso di un habitat artificiale nello spazio nel momento in cui venga a trovarsi su un pianeta all’aria aperta?
A lungo andare la specie umana potrà differenziarsi in molte differenti specie, adattate ai vari ambienti? Come potrà essere una società non solo multirazziale, ma addirittura multispecifica, per inventare un neologismo? E cosa avverrà se nell’espansione si verrà a contatto con specie viventi extraterrestri, magari intelligenti? Tutto ciò porta a interrogativi che sono più morali che scientifici o tecnologici. È moralmente accettabile terraformare un pianeta, cioè modificarlo per renderlo abitabile dall’uomo? Probabilmente si, ma se così facendo si portasse all’estinzione della vita che si era sviluppata su di esso? E se questa vita includesse specie intelligenti? E ancora, chi dovrebbe dare la patente di intelligenza a una specie, per decidere fino a che punto essa debba essere rispettata e protetta?
Che la scienza e la tecnologia non siano moralmente neutre è ormai cosa assodata, e la bioetica ce lo insegna. Ma, ad esempio, terraformare un pianeta potrebbe in futuro non essere più impossibile che clonare un essere umano o far partorire a una donna un bambino ottenuto in vitro da un ovulo di un’altra donna. La bioetica ci insegna che aspettare che le cose siano possibili per iniziare una discussione etica su di esse porta a conflitti e incertezze. È opportuno che l’uomo si prepari alle future possibilità, per non dover procedere a tentoni quando i problemi si presenteranno nella loro impellente urgenza.
Infine un’ultima osservazione: non bisogna cadere nell’illusione che il progresso tecnologico agisca per sua natura per il miglioramento dell’uomo. Sostanzialmente l’uomo non è cambiato da quando esistono fonti storiche e non si vede come debba cambiare nel prossimo futuro, se non con un lento processo di adattamento fisico all’ambiente. Quando la sua frontiera si allargherà verso nuovi orizzonti, fuori dal suo pianeta di origine, vi porterà tutto se stesso, nel bene e nel male. E proprio per questo la nostra riflessione etica dovrà affrontare temi nuovi, soprattutto se in questa espansione verso nuove frontiere incontrerà altre forme di vita o altre intelligenze.