La natura della luce secondo Tommaso D'Aquino

I testi che proponiamo sono tratti dalla Summa theologiae, I part, q. 67. Fedele al suo metodo, anche per trattare della luce Tommaso d’Aquino parte dal linguaggio preoccupandosi di chiarire l’uso del termine nei suoi diversi significati, in modo da evitare di essere frainteso, offrendoci così una lezione di metodo scientifico valida particolarmente oggi (cfr. a. 1). In senso proprio, ovvero secondo il significato originario della parola, “luce” caratterizza “qualcosa” che rende possibile alla vista di ottenere la visione, mentre in senso lato, ovvero analogico, il termine “luce” viene utilizzato per indicare “qualcosa” che rende possibile alle altre facoltà cognitive di ottenere la forma di conoscenza ad esse appropriata. Nel primo senso essa rientra nell’ambito dell’interazione con i sensi, ovvero in ambito fisico e materiale, mentre nel secondo senso l’analogia ci porta anche nell’ambito immateriale della conoscenza. È sorprendente come Tommaso riesca a mantenersi sugli elementi essenziali senza addentrarsi, per ora, in una teoria fisica della luce che non gli è necessaria ai fini di questa iniziale precisazione terminologica.

Lo farà nei testi successivi (cfr. aa.2 e 3), nei quali possiamo riscontrare che le argomentazioni mantengono una loro validità anche per noi fino a che si mantengono su un piano strettamente logico, mentre la loro correttezza viene meno quando vengono fatte dipendere esplicitamente dalle conoscenze osservative della fisica del tempo. Ad esempio la prima argomentazione portata per sostenere che la luce non ha le caratteristiche di un corpo è legata alla proprietà dei corpi di non potere occupare uno stesso luogo nello stesso momento, mentre la luce può attraversare altra luce in uno stesso luogo. Oggi noi sappiamo che questa situazione si verifica addirittura a livello fondamentale a causa del principio di esclusione di Pauli che impedisce a due particelle di materia (fermioni) di occupare lo stesso stato quantico, mentre lo stesso vincolo non sussiste per la radiazione (bosoni), trattandosi di due tipi di materia che seguono statistiche differenti. La seconda argomentazione oggi viene meno a causa della finitezza della velocità della luce, all’epoca sconosciuta. Sulla terza argomentazione basata sulla nozione di “forma”, se volessimo tentare un qualche confronto con ciò che conosciamo oggi dovremmo dire che addirittura la nostra scienza è ancora indietro, in quanto non abbiamo ancora delle conoscenze sufficienti sull’“informazione” (il concetto più vicino che possediamo paragonabile alla forma aristotelica) per cui dobbiamo limitarci a prenderla nel suo contesto.

Sulla definizione del termine luce

Summa theologiae, I, q. 67, a. 1: Se si possa parlare propriamente di luce negli esseri spirituali
(l’Aquinate tratta il tema anche in In II Sententiarum, d. 13, q. 1, a. 2; In Iohannis Evangelium, c. 1, lect. 3).

Rispondo: Trattando di un termine, possiamo parlarne in due modi: o risalendo alla sua accezione originaria, oppure attendendo al suo uso. Prendiamo p. es. il termine visione: esso fu usato dapprima per indicare l’atto della vista sensibile, ma per la dignità e certezza di questo senso fu esteso, nell’uso comune, a ogni atto conoscitivo degli altri sensi (diciamo infatti: Guarda che sapore ha, come odora, come è caldo), e infine alla conoscenza intellettuale, come in quel passo [Mt 5, 8]: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio». E la stessa cosa va detta a proposito del termine luce. Da principio infatti la parola fu adottata per significare ciò che rende possibile la manifestazione nel campo visivo, ma in seguito fu estesa a qualunque mezzo manifestativo, in tutti i campi della conoscenza. — Se dunque prendiamo il termine luce nella sua accezione originaria, allora nel mondo spirituale ha un significato metaforico, come dice S. Ambrogio [De fide 2, Prol.]; se invece lo prendiamo nel senso corrente, che lo estende a ogni manifestazione, allora ha un significato proprio anche nel mondo spirituale.

Se la luce sia un corpo o una qualità

Se la luce sia un corpo
Summa theologiae, I, q. 67, a. 2 (l’Aquinate tratta il tema anche in In II Sententiarum, d. 13, q. 1, a. 3; In II De anima, lect. 14).

Rispondo: Non si può ammettere che la luce sia un corpo, e ciò per tre motivi. Primo, per le condizioni [reali] dello spazio. Infatti il luogo occupato da un corpo è distinto da quello occupato da un altro corpo; né è possibile, naturalmente parlando, che due corpi stiano insieme nel medesimo luogo, per quanto diversi essi siano, poiché il contiguo esige una distinzione spaziale.

Secondo, per la natura del moto. Se infatti la luce fosse un corpo, l’illuminazione non sarebbe altro che un suo movimento locale. Ora, nessun movimento locale di un corpo può essere istantaneo, dovendo l’oggetto che si muove da un luogo a un altro raggiungere la zona intermedia prima del limite estremo del suo percorso. Invece l’illuminazione si produce istantaneamente. — Né si può opporre che essa avviene in una frazione impercettibile di tempo. Perché se il tempo può sfuggirci in un piccolo spazio, non lo può in una grande estensione, p. es. dall’oriente all’occidente. Ora, noi osserviamo che non appena il sole è su un punto dell’orizzonte a oriente, subito si illumina tutto l’emisfero sino al punto opposto. — Si deve inoltre considerare che ogni corpo possiede un movimento naturale ben determinato: invece il movimento dell’illuminazione si svolge in tutte le direzioni, in senso tanto circolare quanto retto. È quindi evidente che l’illuminazione non è il moto locale di un corpo.

Terzo, la medesima conclusione risulta dallo studio della generazione e della decomposizione dei corpi. Se infatti la luce fosse una sostanza materiale, quando l’aria si rabbuia per l’assenza del corpo illuminante la sostanza corporea della luce dovrebbe decomporsi, e la sua materia ricevere un’altra forma. Il che non appare, a meno che qualcuno non dica che anche le tenebre sono un corpo. — E nemmeno appare che da questa materia ogni giorno sia generato un corpo tanto grande da riempire mezzo emisfero. — Sarebbe poi addirittura ridicolo affermare che una massa così grande viene a decomporsi per la sola assenza della sorgente luminosa. — Se tuttavia qualcuno asserisse che non si decompone, ma che viene e va insieme con il sole, che cosa risponderà all’osservazione che tutta la camera si oscura quando un corpo estraneo viene messo intorno alla candela? E non si dica che tutta la luce si addensa intorno alla candela: infatti qui non vediamo una luce più intensa di prima. — Concludendo, poiché tutto ciò contrasta non solo con la ragione, ma anche con l’esperienza sensibile, affermiamo che la luce non può essere una sostanza materiale.

 

Se la luce sia una qualità
Summa theologiae, I, q. 67, a. 3: (l’Aquinate tratta dello stesso argomento in In II Sententiarum, d. 13, q. 1, a. 3; In II De anima, lect. 14)

Rispondo: Alcuni dissero che la luce ha nell’aria non un essere fisico, come il colore nella parete, ma intenzionale, come l’immagine del colore nell’aria. — Ciò però non può essere ammesso per due motivi. Primo, perché la luce dà una denominazione all’aria: infatti l’aria diventa con essa attualmente luminosa. Il colore invece non la denomina: infatti non diciamo che l’aria è colorata. Secondo, perché la luce produce il suo effetto nella natura: infatti i raggi del sole riscaldano i corpi. Le entità intenzionali invece non causano mutazioni fisiche. Altri allora dissero che la luce è la forma sostanziale del sole. Ma anche questo appare impossibile per due motivi. Primo, perché nessuna forma sostanziale è per se stessa oggetto dei sensi, essendo le essenze oggetto dell’intelletto, come dice Aristotele [De anima 3, 6]. Ora, la luce cade direttamente sotto il senso della vista. — Secondo, perché è impossibile che la forma sostanziale di un essere diventi forma accidentale di un altro. Infatti è una proprietà della forma sostanziale costituire un essere nella sua specie, e quindi accompagnarlo sempre e in tutti i casi. Ma la luce non è la forma sostanziale dell’aria, altrimenti al suo sparire l’aria si decomporrebbe. Non può dunque essere la forma sostanziale del sole. Diremo allora che, come il calore è una qualità attiva derivante dalla forma sostanziale del fuoco, così la luce è una qualità attiva derivante dalla forma sostanziale del sole e di qualsiasi altro corpo che risplende di luce propria, se ne esiste qualcuno. E abbiamo un segno di ciò nel fatto che i raggi delle varie stelle producono effetti diversi secondo la diversa natura dei corpi.

   

Perché Dio ha creato la luce il primo giorno


Il testo che segue pone la questione intorno alla cosmogonia biblica nella quale la luce è il primo ente creato tra quelli che rientrano nel mondo che oggi noi chiamiamo fisico. Nulla viene detto qui sulla creazione degli angeli e di ciò che non rientra nella sfera materiale. Tommaso esamina, come in altre occasioni, le opinioni dei grandi autori che lo hanno preceduto e, trattandosi di un testo biblico si riferisce ai Padri e Dottori della Chiesa: Agostino, Basilio, Crisostomo. Aggiunge poi alle loro opinioni anche un suo argomento di carattere filosofico, basato sulla teoria ilemorfica aristotelica adattandola in certo modo all’esegesi del passo scritturistico. Quasi a vedere nella materia informe appena creata una sorta di materia prima, forse già “segnata dalla quantità” (signata quantitate), dalla quale il Creatore ha fatto scaturire con il Suo Atto, come una prima forma che è quella della luce. Se noi oggi dovessimo tentare qualcosa di simile con la nostra fisica, senza temere il concordismo, saremmo portati a pensare alla creazione del vuoto quantistico dal quale, per una fluttuazione indotta da una qualche causa emergono le prime particelle reali, prive di massa e quindi dotate della velocità della luce, fino a che non entri in gioco l’effetto del campo di Higgs. Tommaso non sembra qui essere meno coraggioso: pur lanciandosi in una interpretazione del testo che risente dei limiti dell’esegesi del tempo, egli manifesta il suo sincero desiderio di guardare il mondo reale, che sa creato da Dio.


Se la produzione della luce sia posta convenientemente nel primo giorno Summa theologiae, I, q. 67, a. 4 (l’Aquinate affronta il tema anche in Summa Theologiae, I, q. 69, a. 1; In II Sententiarum, d. 13, q. 1, a. 4)

Rispondo: Sono due le opinioni intorno alla produzione della luce. A S. Agostino non parve possibile che Mosè passasse sotto silenzio la creazione degli spiriti [cf. q. 61, a. 1, ad 1]. Quindi egli afferma [De Gen. ad litt. 1, cc. 1, 3, 4, 9] che nella frase: «in principio Dio creò il cielo e la terra», la parola cielo indica la natura spirituale, ancora informe, mentre la parola terra si riferisce alla materia informe del mondo corporeo; e siccome la prima è più nobile della seconda, dovette essere formata per prima. Per questa ragione la «formazione» degli spiriti è indicata nella produzione della luce, per cui la luce viene intesa in senso spirituale: infatti la «formazione» degli esseri spirituali avviene quando sono illuminati perché aderiscano al Verbo di Dio. Altri invece pensano che Mosè avrebbe tralasciato la produzione delle creature spirituali; e ne danno ragioni diverse. S. Basilio [In Hexaem. hom. 1] ritiene che Mosè abbia iniziato la narrazione da quel principio che appartiene al tempo delle realtà sensibili; e che non abbia parlato della natura spirituale, cioè degli angeli, dato che questi erano già stati creati in antecedenza.

Il Crisostomo [In Gen. hom. 2] invece porta un altro motivo: Mosè parlava a un popolo rozzo, il quale non poteva capire altro che le cose materiali; ed egli, d’altra parte, voleva distoglierlo dall’idolatria. Avrebbe dunque dato esca all’idolatria se a gente siffatta avesse parlato di esseri superiori a tutte le creature materiali: li avrebbero infatti presi per delle divinità, essendo essi già portati a venerare come dèi il sole, la luna e le stelle, come si ricava dalla proibizione di Dt 4,19. Prima però [di parlare della luce] si era già parlato di due informità delle creature materiali: della prima nelle parole: «la terra era informe e deserta»; della seconda nella frase: «le tenebre coprivano l’abisso». Era quindi necessario eliminare anzitutto l’informità delle tenebre, con la produzione della luce, per due motivi. Primo perché, come si è detto [a. 3], la luce è una qualità del primo corpo, e quindi doveva da essa cominciare la «formazione» del mondo.

Secondo, per l’universalità della luce: di essa infatti partecipano tanto i corpi inferiori quanto i superiori. Come quindi nel processo conoscitivo si parte dalle nozioni più comuni, così accade anche nel campo operativo: viene infatti generato il vivente prima dell’animale, e l’animale prima dell’uomo, come insegna Aristotele [De gen. animal. 2, 3]. Era perciò necessario, per far conoscere l’ordine della sapienza divina, che nel differenziare [tra loro le creature] prima venisse prodotta la luce: sia perché la luce è la forma del primo corpo, sia perché è un elemento più universale.

S. Basilio [In Hexaem. hom. 2] porta poi questa terza ragione, cioè che la luce manifesta tutte le altre cose.

E se ne potrebbe aggiungere anche una quarta, accennata nell’argomento in contrario, che cioè non può esservi giorno senza luce. Da cui la necessità che venisse prodotta nel primo giorno.

Obiezioni e soluzioni:

1. Abbiamo visto [a. 3] che la luce è una qualità. Ma la qualità, essendo un accidente, ha carattere di realtà non prima, ma piuttosto ultima. Quindi la sua produzione non può essere assegnata al primo giorno.

Ad 1um Se si segue la sentenza secondo cui lo stato informe della materia ha preceduto, in ordine di tempo, il suo ordinamento, allora bisogna dire che la materia fu creata da principio sotto forme sostanziali, e fu arricchita in seguito di forme accidentali, tra cui la luce tiene il primo posto.

2. È la luce che distingue la notte dal giorno. Ma questo fatto è dovuto al sole, che invece si pone creato il quarto giorno. Quindi non si doveva mettere al primo giorno la produzione della luce.

Ad 2um Alcuni dicono che quella luce non era altro che una nube luminosa la quale, dopo la creazione del sole, ritornò materia primordiale. Ma una tale spiegazione non soddisfa poiché la Scrittura, al principio della Genesi, menziona [soltanto] l’istituzione di esseri fisici che perdurano: quindi non si deve dire che proprio allora fu creato qualcosa che poi cessò di esistere.

Altri perciò dicono che quella nube luminosa dura tuttora, ma è così unita al sole da non potersene distinguere. Si osserva però che in questo caso quella nube sarebbe superflua, mentre nelle opere di Dio nulla è inutile.

Altri ancora pensano che il corpo del sole si sarebbe formato da quella nube. Ma anche questa ipotesi non regge per chi ammette che il corpo del sole non partecipa della natura dei quattro elementi, ma è incorruttibile per natura. In questo caso infatti la sua materia non può sottostare a una forma diversa. Bisognerà dunque affermare con Dionigi [De div. nom. 4] che quella luce era la luce del sole, ma ancora informe, nel senso che la sostanza del sole già esisteva e possedeva la virtù illuminativa generica; in seguito però gli fu data una virtù speciale e determinata per certi particolari effetti. Quindi, stando a questa sentenza, nella creazione della luce ci sarebbe un accenno ai tre elementi che servono a distinguerla dalle tenebre. Primo, alla causa: poiché la causa della luce si trova nella natura del sole, mentre quella delle tenebre nell’opacità della terra. Secondo, alla posizione spaziale: quando infatti in un emisfero c’è la luce, nell’altro ci sono le tenebre. Terzo, al tempo: poiché nello stesso emisfero si alternano la luce e il buio, nel giro del tempo. Per cui sta scritto: «Chiamò la luce giorno e le tenebre notte».

3. L’avvicendamento del giorno e della notte è dovuto al moto circolare del corpo luminoso. Ma il moto circolare spetta propriamente al firmamento, che leggiamo fatto nel secondo giorno. Quindi non si doveva mettere al primo giorno la produzione della luce, che distingue il giorno dalla notte.

Ad 3um S. Basilio [In Hexaem. hom. 2] pensa che si ebbero allora luce e tenebre a causa di una emissione o di una contrazione dei raggi luminosi, senza dipendenza da un movimento. Ma S. Agostino [De Gen. ad litteram 1, 16] obietta che questo alternarsi dei due fenomeni sarebbe senza ragione, poiché non vi erano ancora gli uomini e gli animali a cui ciò dovesse servire. Inoltre non è naturale per il corpo luminoso ritirare la luce dove è presente, sebbene ciò possa accadere per via miracolosa. Ora, nella prima istituzione della natura non si deve cercare il miracolo, ma quanto appartiene alla natura delle cose, come dice S. Agostino [ib. 2, 1]. Perciò bisogna dire che nel cielo vi è un doppio movimento. Il primo, che è comune a tutto il cielo, determina il giorno e la notte: e questo pare che sia stato prodotto nel primo giorno. Il secondo, che è diverso per i vari corpi, determina la varietà dei giorni, dei mesi e degli anni. E per tale ragione nel primo giorno si fa solo menzione della distinzione del giorno dalla notte, che è dovuta al movimento comune, mentre nel quarto giorno si ricorda la diversità dei giorni, dei tempi e degli anni, con le parole [Gen 1,14]: «Servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni»; la quale diversità dipende dai movimenti di ciascun corpo.

4. Se si dice che qui si intende parlare della luce spirituale, ecco quanto opponiamo: Quella luce che leggiamo fatta il primo giorno produce la separazione dalle tenebre. Ora, da principio non c‘erano tenebre spirituali, poiché gli stessi demoni da principio erano buoni, come si è visto sopra [q. 63, a. 5]. Quindi la produzione della luce non doveva essere messa al primo giorno.

Ad 4um Per S. Agostino [Conf. 12, 29; De Gen. ad litt. 1, 15] lo stato informe della materia non precede la sua «formazione» in ordine di tempo. In questo caso dunque la produzione della luce va intesa come «formazione» delle creature spirituali; ma non si tratta di quella «formazione» che si compie nella gloria, poiché non furono create nello stato di gloria, bensì di quella che si ha per la grazia, con la quale esse furono create, come si è visto [q. 62, a. 3]. Con questa luce fu fatta dunque la separazione dalle tenebre, cioè dalle altre creature non [ancora] «formate». Se poi ammettiamo che le creature furono «formate» tutte simultaneamente, allora si ebbe una distinzione mediante le tenebre spirituali, non nel senso che queste già esistessero (poiché il diavolo non fu creato malvagio), ma nel senso che Dio le prevedeva nel futuro.

   

La Somma Teologica, I, q. 67, trad. it. a cura dei Domenicani italiani, edizione Adriano Salani, Sancasciano 1953, vol. V: “L'opera dei sei giorni: l'uomo: nature e poteze dell'anima”, pp. 64-79.