Proponiamo qui la traduzione italiana offerta da Paolo Rossi dell’opuscolo scritto da Roberto Grossatesta (1175-1253) De iride seu de iride et speculo (l’Arcobaleno), scritto fra il 1220 e il 1235. L’autore, uno dei più importanti maestri dell’università di Oxford poi divenuto vescovo di Lincoln, sostenne la necessità di applicare la matematica allo studio della natura fisica. Influenzato anche dal neoplatonismo e dai trattati arabi di ottica, nella prima parte di quest’opera Grossatesta affronta lo statuto epistemologico dell’ottica, esplicitamente distinta dalla fisica aristotelica e divisa tradizionalmente in tre discipline (ottica, catottrica e diottrica), discutendo poi i problemi di cui essa si occupa. Nella seconda parte egli presenta una legge quantitativa della rifrazione dei raggi luminosi, affrontando poi nella terza e ultima parte dell’opuscolo la discussione del fenomeno dell’arcobaleno, che egli spiega in modo originale per l’epoca in cui scrive, ricorrendo alla rifrazione dei raggi solari in quattro corpi diversi: l’etere o atmosfera, la nube, la parte più alta e rarefatta della rugiada (che proviene dalla nube) e la parte inferiore e più densa della rugiada.
L’indagine sul fenomeno dell’arcobaleno è di competenza sia dell’esperto di ottica sia del fisico, ma spetta al fisico conoscere il “che cosa” (quid), mentre è proprio dell’esperto di ottica conoscere il “perché” (propter quid). Per questo Aristotele nei Meteorologica [1] non chiarì il “perché” che è spiegato dall’esperto di ottica, bensì riassunse in un breve discorso il “che cosa” a proposito dell’arcobaleno, che è oggetto di ricerca da parte del fisico. Perciò mi sono assunto ora il compito di spiegare il “perché”, che è di competenza dell’esperto di ottica, dal nostro punto di vista e secondo le conoscenze del nostro tempo.
Prima di tutto diciamo che l’ottica è la scienza che si occupa delle figure visibili e subordina a sé la scienza che ha per oggetto le figure delimitate da linee e superfici luminose, sia che vengano proiettate dal sole, sia dalle stelle sia da qualunque altro corpo luminoso. Non si deve ritenere che l’emissione di raggi visibili sia un’ipotesi immaginata soltanto, senza fondamento nella realtà, come pensano coloro che considerano la parte e non il tutto; bensì si deve sapere che l’immagine visibile è una sostanza lucente e simile alla natura del sole, il cui splendore unito a quello del corpo luminoso occupa interamente lo spazio visivo esterno. Per cui i filosofi naturali, parlando di ciò che nel processo visivo è naturale e passivo, dicono che vedere significa accogliere all’interno qualcosa che proviene dall’esterno, mentre i matematici e i fisici, che considerano le cose che sono sopra la natura e si occupano di ciò che nel processo visivo è sopra la natura e attivo, dicono che il processo visivo avviene emettendo impulsi all’esterno. Questo aspetto dell’atto visivo che avviene per emissione è spiegato ampiamente da Aristotele nell’ultimo libro del De generatione animalium dove dice: «L’occhio posto all’interno vede lontano; infatti il suo moto non si divide né si esaurisce, ma l’impulso visivo esce dall’occhio e va direttamente alle cose viste» [2]. E sempre nello stesso trattato: i tre sensi detti, cioè la vista, l’udito e l’olfatto escono dagli organi come l’acqua esce dai canali, e per questo quanti sono di lunghi nasi sono dotati di buon olfatto [3].
La vera ottica dunque è fondata sui raggi che sono emessi e le sue parti principali sono tre, secondo il triplice modo secondo il quale avviene il percorso dei raggi sino alla cosa vista. Infatti, o il percorso del raggio sino alla cosa vista è rettilineo e passa attraverso un corpo trasparente di un sol genere, frapposto tra chi vede e la cosa vista, o il suo tragitto è rettilineo verso un corpo che ha una natura in certo qual modo spirituale, per la quale è uno specchio, e da quello il raggio è riflesso fino alla cosa vista; oppure il passaggio del raggio avviene attraverso più corpi trasparenti di natura diversa, nel cui punto di contatto il raggio visibile si spezza e forma un angolo, giungendo alla cosa vista non secondo un percorso rettilineo, ma secondo più linee spezzate unite ad angolo. La scienza detta della visione si occupa della prima parte; della seconda, quella che è chiamata “scienza degli specchi”. La terza parte presso noi Latini rimase fino ad oggi totalmente sconosciuta. Sappiamo, tuttavia, che Aristotele ne parlò, che per l’acume che richiede è molto più difficile delle altre e che per la complessità dei fenomeni considerati divenne di gran lunga la più mirabile. Infatti, questa parte dell’ottica, se perfettamente conosciuta, ci mostra il modo in cui possiamo far apparire vicinissime le cose molto lontane, le cose grandi vicine piccolissime, e le cose piccole lontane grandi a nostro piacere, cosicché ci è possibile leggere piccolissime lettere da una distanza incredibile, contare i granelli di sabbia, di grano, i fili d’erba o qualsiasi altra piccolissima cosa [4]. Come poi accadano queste cose mirabili sarà chiaro da quanto segue. Il raggio visivo, che penetra per più corpi trasparenti di natura diversa, passando dall’uno all’altro si spezza, e le parti del raggio che attraversano i differenti corpi trasparenti si uniscono ad angolo nel punto in cui i corpi sono contigui. Questo fenomeno è illustrato dall’esperimento che si trova al principio del De speculis [5]: se si mette qualcosa in un vaso e si segna la distanza dalla quale questa cosa non può più essere vista, immettendo dell’acqua nel vaso si tornerà a vedere la cosa che era stata posta dentro. Ciò che si spiega anche per il fatto che ciò che costituisce il continuo è un corpo di una sola natura, per cui necessariamente è la contiguità a spezzare il raggio visibile nel punto in cui due corpi trasparenti di diversa natura sono contigui. Poiché il raggio intero ha origine da una sola sorgente e la sua assoluta continuità non può essere interrotta, a meno che non sia interrotta la sua generazione, segue necessariamente che nel punto in cui i due corpi trasparenti sono contigui non c’è una totale discontinuità, e ciò che sta fra l’assoluta continuità e la discontinuità totale non può essere se non un solo punto che tocca le due parti non secondo una linea retta ma ad angolo.
Quanto sia, poi, l’angolo di deviazione del raggio potremo così raffigurare. Supponiamo che un raggio che dall’occhio attraverso l’aria incontra un secondo corpo trasparente sia prolungato senza soluzione di continuità e in linea retta, e che dal punto in cui incontro il corpo trasparente sia tracciata una linea che penetra nel corpo, la quale formi con la superficie del corpo da ogni parte angoli uguali. Dico dunque che il procedere del raggio nel secondo corpo trasparente avviene secondo la direzione della linea che divide in parti uguali l’angolo che è delimitato dal raggio idealmente protratto senza soluzione di continuità e in linea retta, e la linea perpendicolare condotta all’interno del secondo corpo trasparente dal punto di incidenza del raggio sulla sua superficie. Esperimenti simili a quelli con i quali abbiamo appreso che la riflessione [6] del raggio sullo specchio avviene con un angolo uguale all’angolo di incidenza ci mostrano che si determina in questo modo l’angolo di rifrazione del raggio [7]. E la medesima cosa ci è mostrata dal seguente principio della filosofia naturale, cioè che «ogni azione della natura avviene nel modo più determinato, ordinato, diretto e migliore possibile» [8].
La cosa poi che è vista attraverso più corpi trasparenti non ci appare come essa è in realtà, ma appare nella intersezione del raggio che esce dall’occhio e che procede senza interruzione in linea retta con la linea condotta dalla cosa vista e che forma sulla superficie del secondo corpo trasparente, più vicina all’occhio, angoli uguali da ogni parte. Questo ci è manifesto per lo stesso esperimento e per considerazioni simili a quelle per le quali sappiamo che le cose viste sugli specchi appaiono alla confluenza dello sguardo, prolungato in linea retta, con la linea perpendicolare condotta sulla superficie dello specchio.
Spiegate queste cose, vale a dire la quantità dell’angolo secondo il quale è rifratto il raggio nel punto di contatto di due corpi trasparenti, e il luogo in cui appare la cosa vista attraverso più corpi trasparenti, dopo aver acquisito anche quei principi che l’esperto di ottica deriva dal filosofo naturale, cioè che secondo la grandezza dell’angolo sotto il quale è vista una cosa e secondo la posizione e la disposizione dei raggi appaiono la grandezza, la posizione e la disposizione della cosa vista, e che non è la grande distanza a rendere la cosa non visibile, se non indirettamente, perché è la piccolezza dell’angolo sotto il quale è vista: è perfettamente chiaro secondo i principi della geometria, posto un corpo trasparente di grandezza, figura e distanza dall’occhio note, in quale modo apparirà la cosa, la cui grandezza, distanza e posizione sono conosciute, relativamente al luogo, grandezza e posizione; e per i medesimi principi è manifesto come si debbano disporre i corpi trasparenti in modo che essi ricevano i raggi provenienti dall’occhio secondo la grandezza desiderata dell’angolo che si forma nell’occhio, e in modo che riducano l’angolo dei raggi ricevuti, nel modo desiderato, quando raggiungono le cose da vedere, tanto che si tratti di cose grandi quanto di piccole, poste lontano o vicino; e appaiano così tutte le cose da vedere nella posizione e secondo la grandezza desiderate, e si faccia apparire, se lo si vuole, piccole le cose grandi e, al contrario, grandi e perfettamente visibili quelle piccole e lontane.
La scienza che si occupa dell’arcobaleno è subordinata a questa terza parte dell’ottica. Non è possibile infatti che l’arcobaleno sia prodotto dai raggi del sole che procedendo in linea retta penetrano nella concavità di una nube, perché se così fosse darebbero origine nella nube a una figura luminosa non arcuata, ma retta e a seconda della forma dell’apertura rivolta verso il sole, per la quale penetrerebbero i raggi nella concavità della nube. Né è possibile che l’arcobaleno sia causato dalla riflessione dei raggi del sole sulla convessità delle gocce di rugiada che cadono dalla nube come sopra la superficie di uno specchio convesso, in modo che la concavità della nube riceva i raggi riflessi e appaia in questo modo l’arcobaleno, poiché se così fosse l’arcobaleno non avrebbe per nulla una forma arcuata e accadrebbe che quanto più il sole è alto, tanto più l’arcobaleno è grande e alto, e quanto più il sole è basso, altrettanto piccolo l’arcobaleno; ma l’esperienza mostra il contrario.
Necessariamente dunque l’arcobaleno è causato dalla rifrazione dei raggi del sole nelle gocce di rugiada di una nube convessa. Dico, quindi, che l’esterno di una nube è convesso e l’interno concavo, ciò che è chiaro dalla considerazione della natura del leggero e del pesante. Ciò che noi vediamo di una nube è minore di una semisfera, sebbene sembri una semisfera, e poiché la rugiada discende dalla concavità della nube, necessariamente quella rugiada nella parte superiore è convessa a forma di piramide che discende verso la terra, e quindi in prossimità della terra è meno rarefatta che non nella parte più alta. Ci sono dunque complessivamente quattro corpi trasparenti attraverso i quali penetra il raggio del sole, vale a dire l’atmosfera, che contiene la nube, la nube stessa, la parte più alta e più rarefatta della rugiada che proviene dalla nube, la parte inferiore e più densa. Per quanto si è detto sopra a proposito della rifrazione del raggio e della grandezza dell’angolo di rifrazione nel punto di contatto tra due corpi trasparenti, è necessario che i raggi del sole siano dapprima rifratti nel punto di contatto dell’aria con la nube e poi della nube con la rugiada, in modo che a causa di queste rifrazioni i raggi convergano nella parte più densa della rugiada e lì, rifratti ancora una volta, si disperdano come dal cono di una piramide non in una piramide rotonda [9], ma in una figura simile alla superficie curva di una piramide rotonda che si sviluppa nella direzione opposta al sole. Per questo la sua figura è ad arco e da noi non si vede l’arcobaleno a sud. E poiché il cono di detta figura è vicino alla terra e il suo sviluppo è in direzione contraria al sole, è necessario che metà di quella figura o più cada sulla superficie della terra e l’altra metà o meno cada sulla nube dalla parte opposta al sole. Perciò quando il sole sta per sorgere o per tramontare appare un arcobaleno semicircolare ed è più grande; quando invece il sole è nelle altre posizioni l’arcobaleno appare come una parte di un semicerchio, e quanto più il sole è alto, tanto più l’arcobaleno è piccolo. Per questo nelle regioni in cui il sole si avvicina allo zenit non si vede mai l’arcobaleno a mezzogiorno. Ciò che Aristotele dice [10], cioè che il diverso arco al sorgere e al calar del sole è piccolo, non si deve intendere riferito alla grandezza, ma alla luminosità, che ha luogo per il passaggio dei raggi tra i vapori, che sono maggiori in quelle ore che nelle altre. Questo è suggerito poi anche da Aristotele quando dice che questo accade a causa della diminuzione dello splendore causato dal raggio del sole nelle nubi.
Poiché il colore è luce frammista a ciò che è trasparente e ciò che è trasparente si diversifica a seconda della purezza o dell’impurità, e poiché la luce si divide in quattro tipi secondo la luminosità, l’oscurità e secondo la quantità grande o piccola, e poiché secondo i rapporti tra queste sei differenze hanno origine e si diversificano tutti i colori, la varietà del colore nelle diverse parti di un solo arcobaleno ha luogo a causa della quantità grande o piccola dei raggi del sole. Dove infatti i raggi del sole sono molti appare un colore più chiaro e luminoso, dove invece sono più pochi appare un colore più vicino al blu e meno luminoso [11]. E poiché l’aumento della luce e la sua progressiva diminuzione non si verificano se non attraverso il risplendere della luce sulla superficie di uno specchio o in un corpo trasparente, che a motivo della sua figura in una parte concentra la luce e in un’altra adatta a tale scopo la diminuisce disperdendola, e questa disposizione nel ricevere la luce non è propria di una sola parte del corpo trasparente, è chiaro che non è nelle possibilità dei pittori riprodurre l’arcobaleno, pur essendo tuttavia possibile riprodurlo secondo una disposizione non costante. La diversità dei colori di un arcobaleno rispetto a quelli di un altro talvolta dipende dalla purezza o dall’impurità del corpo trasparente che riceve i raggi, talvolta dalla maggiore o minore luminosità della luce. Se infatti il corpo trasparente è puro e la luce è chiara, il colore dell’arcobaleno s’avvicinerà maggiormente alla bianchezza e alla luce. Se invece il corpo trasparente che riceve i raggi è frammisto a vapori di fumo e la luce è poco chiara, come accade all’alba e al tramonto, il colore sarà meno luminoso e meno chiaro. E così via, secondo gli altri rapporti tra la maggiore o la minore luminosità della luce e tra la purezza o l’impurità del corpo trasparente, sono sufficientemente spiegate dal punto di vista dei colori tutte le variazioni dell’arcobaleno.
Note
[1] Aristotele, Meteor. III 4 ss.
[2] Aristotele, De gener. anim. V 1,781a 1-2.
[3] Ivi 2,781a 20 - 781b 29; le parole riportate da Grossatesta riassumono un aspetto del discorso che Aristotele fa nel c. 2 del lib. V.
[4] Grossatesta poteva trovare esempi di questi ingrandimenti in Euclide Optica 2,5 (per la versione latina, cfr. W.R. Thiesen [ed.], «Liber de visu»: the Greco-Latin Translation of Euclid’s «Optica», in «Mediaeval Studies», 41 [1979], pp. 44-105: 63 e 65); Seneca, Naturales quaestiones I 6,5-6. Cfr. L. Thorndike, A History of Magic and Experimental Science, II, Columbia University Press, New York 1923, pp. 440-441.
[5] Pseudo Euclide, De speculis (Catoptrica), def. 6.
[6] Traduco: refractio con riflessione; infatti, sino alla metà del XIII secolo pare non fosse ancora diffusa una terminologia fissa, tanto che a volte il termine fractio poteva indicare tanto la rifrazione quanto la riflessione dei raggi; cfr. B.S. Eastwood, Grosseteste’s «Quantitative» Law of Refraction: A Chapter in the History of Non-experimental Science, in «Journal of History of Ideas», 28 (1967), p. 406. Se ne può vedere un esempio anche in Robertus Grosseteste, Commentarius in Posteriorum Analyticorum libros, lib. II, c. 4, rr. 448 ss.
[7] L’analogia con gli specchi fatta qui e nel capoverso immediatamente successivo può essere derivata a Grossatesta da Seneca, Naturales quaestiones I 7, 1-2.
[8] Cfr. Aristotele, De caelo I 4, 271a.
[9] Per piramide rotonda si intende il cono.
[10] Cfr. Aristotele, Meteor. III 5, 375b (?).
[11] Ivi 4, 373a-373b; e De color. 1-2
Roberto Grossatesta, Metafisica della luce, Introduzione, traduzione e note di Paolo Rossi, Rusconi, Milano 1986, pp. 145-152.