In questo breve saggio del 1668 Leibniz propone una dimostrazione dell’esistenza di Dio attraverso la ricerca della ragione dei fenomeni fisici che, come spiega, può essere trovata solo in un Ente incorporeo. Nel brano, l’autore della Teodicea, analizzando la forma e il movimento dei corpi, fa vedere come il loro essere non può essere spiegato che da una causa prima incorporea. Quindi, nella seconda parte del saggio, attraverso un ragionamento logico offre una dimostrazione dell’immortalità dell’anima a partire della sua immaterialità. Leibniz consegna così ai suoi lettori un brano in cui, allontanandosi dal meccanicismo imperante dei suoi giorni, opera una razionalizzazione della religione volta alla dimostrazione che tutto è ordinato dalla ragione divina.
Parte I - La ragione dei fenomeni fisici non può essere trovata senza un principio incorporeo, cioè Dio
Francesco Bacone da Verulamio, uomo di divino ingegno, affermò giustamente che la filosofia, assaggiata appena, allontana da Dio, assorbita in profondità, riconduce a Lui. Lo constatiamo nel nostro secolo, fertile al tempo stesso di scienza e di empietà. Infatti, grazie alle scienze matematiche ed alla conoscenza dell'interno delle cose, ottenuta dalla chimica e dall'anatomia, è apparso a molti che le ragioni della maggior parte delle cose si potessero spiegare meccanicamente, mediante la figura ed il moto dei corpi, cosa che gli antichi riportavano al solo Creatore o a non so quali forme incorporee; tanto che alcuni uomini, indubbiamente pieni di ingegno, cominciarono a provare se non si potessero salvare e spiegare i fenomeni naturali - ossia quelle cose che appaiono nei corpi - facendo a meno di Dio, non assumendolo nel ragionamento. Poiché al principio l'impresa ebbe successo (prima che venissero ai fondamenti ed ai principi), proclamarono prematuramente, quasi gloriandosi della propria sicurezza, che in base alla ragione naturale non potevano trovare né Dio né l'immortalità dell'anima e che la fede in queste cose si doveva cercare o nelle prescrizioni civili o nelle testimonianze storiche. Così affermò il sottilissimo Hobbes, che per le sue trovate meriterebbe che in questo luogo si tacesse, se non ci si dovesse opporre espressamente alla sua autorità per evitare che porti al peggio. E così volesse il cielo che altri, spingendosi molto più in là, dubitando dell'autorità della Sacra Scrittura, della verità delle testimonianze storiche, non introducano nascostamente l'ateismo nel mondo.
A me è sempre apparso assolutamente indegno accecare l'animo nostro con la sua stessa luce, cioè con la filosofia. Perciò mi diedi ad esaminare io stesso la questione, con tanto più ardore quanto meno mi sentivo disposto a sopportare di essere privato dalla sottigliezza dei novatori, del massimo bene della vita, cioè della certezza dell'eternità dopo la morte e della speranza che la divina bontà si manifesti quandocchessia ai buoni e agli innocenti.
Deposti quindi i pregiudizi e posta in mora l'autorità della Scrittura e della storia, considero la struttura dei corpi, tentando di vedere se è possibile spiegare con la ragione ciò che nei corpi si manifesta ai sensi, senza supporre una causa incorporea. Al principio, accogliendo senza difficoltà l'opinione di quei filosofi contemporanei risuscitatori di Democrito e di Epicuro che Roberto Boyle chiama, non a torto, «corpuscolari» come Galilei, Bacone, Gassendi, Cartesio, Hobbes, Digbeo ho ammesso che, nel rendere ragione dei fenomeni, non si deve ricorrere senza necessità né a Dio né ad altra qualsiasi cosa, forma o qualità incorporea.
«Nec Deus intersit, nisi dignus vindice nodus inciderit» [Orazio, Ars poetica, 191] ma, per quanto è possibile, tutto deve essere dedotto dalla natura del corpo e delle qualità prime: dalla grandezza, dalla figura, dal movimento.
Ma che sarà se dimostrerò che neppure di queste qualità prime si potrà trovare l'origine nella natura del corpo? Spero che allora i nostri naturalisti confesseranno che i corpi non bastano a se stessi né possono sussistere senza un principio incorporeo. Lo dimostrerò senza oscurità e tortuosità. Se tali qualità non si possono dedurre dalla definizione del corpo, è evidente che non possono sussistere nei corpi abbandonati a se stessi. La ragione di ogni affezione, infatti, dev'essere dedotta o dalla cosa in se stessa o da qualcosa di esterno. Ora la definizione del corpo è quella di esistere nella spazio. E tutti chiamano «corpo» ciò che trovano in qualche spazio e, per contro, ciò che trovano in qualche spazio, è corpo. Questa definizione risulta di due termini: «spazio» ed «esistenza in».
Dalla limitazione dello spazio derivano, nel corpo, la grandezza e la figura. Infatti il corpo ha la stessa grandezza e figura della spazio che riempie. Ma è dubbio perché riempia questo spazio piuttosto di un altro, perché ad esempio si estenda per tre piedi piuttosto che per due e perché sia quadrato piuttosto che rotonda. La ragione di ciò non può essere tratta dalla natura del corpo, perché la materia in se stessa è indeterminata rispetto a qualsiasi figura sia quadrata che rotonda. Pertanto, due sole risposte si possono dare, o che il corpo in questione sia quadrato dall'eterno o che sia reso quadrato dall'urto di un altro corpo, se rifiuti di ricorrere ad una causa incorporea. Se dici che era quadrato dall'eterno, perciò stesso non trovi una ragione; perché, infatti, non avrebbe potuto essere sferico dall'eterno? L'eternità non può dar ragione di nessuna cosa. Se dici che è stato fatto quadrato dal moto di un altro corpo, resta dubbio perché, prima di quel moto, abbia avuto questa o quest'altra figura; e se di nuovo ricerchi la ragione nel moto di un'altra cosa è così all'infinito, allora, proseguendo all'infinito le tue risposte alle nuove domande, non risulterà mai che ti manchi la materia per cercare la ragione della ragione, per cui non si avrà mai una ragione vera e propria. Risulta, pertanto, che dalla natura dei corpi non si può dar ragione di una determinata grandezza e figura.
Abbiamo detto che la definizione del corpo ha due parti: lo «spazio» e «l'esistenza in» ma dallo spazio sorge una certa grandezza e figura, ma non determinata; quanto all'esistere nello spazio, esso dipende dal moto: infatti se un corpo comincia ad esistere in uno spazio diverso dal precedente, si muove da questa. Ma considerata più accuratamente la cosa, apparirà che dalla natura del corpo sorge una certa mobilità, ma non il moto stesso. Dal fatto poi che un corpo è in questo spazio deriva che può essere anche in un altro uguale e simile al precedente, cioè può esser mosso. Infatti, poter essere in uno spazio altro dal precedente, e poter mutar spazio, poter mutare spazio significa poter essere mosso. II moto, infatti, è mutamento di spazio. Ma il moto attuale non sorge dall'esistenza nello spazio, ma, piuttosto, abbandonato il corpo, si ha il suo contrario: il permanere nello spazio, cioè la quiete. Pertanto la ragione del movimento non si può trovare nei corpi abbandonati a se stessi. Vana è, dunque, la scappatoia di coloro che spiegano così la ragione del moto: ogni corpo o movimento o è mosso dall'eternità o è mosso da un corpo contiguo ed in moto. Infatti, se dicono che il corpo in questione si muove dall'eternità, non è chiaro perché dall'eternità non sia stato in riposo; il tempo anche se infinite non può essere inteso come causa del moto. Se, invece, affermano che il corpo in questione è mosso da un altro contiguo ed in movimento, e questa da un altro ancora e così via, non danno per nulla la ragione per la quale si muove il primo, e il secondo, e il terzo o uno qualsiasi, fino a quando non hanno data la ragione per la quale si muove il seguente dal quale sono mossi tutti gli antecedenti. Infatti la ragione della conclusione non è data fino a quando non è data anche la ragione della ragione; specialmente quando lo stesso dubbio rimane senza una conclusione.
Credo che sia stato dimostrato abbastanza che una determinata figura, grandezza, movimento non possa trovarsi nei corpi abbandonati a se stessi. Non toccherò qui, perché richiede una più approfondita indagine, il fatto che neppure la causa della consistenza dei corpi è stata finora data partendo dalla stessa natura dei corpi.
Dalla consistenza dei corpi deriva : 1) che il corpo grande non cede ad un corpo piccolo che lo urta; 2) che i corpi o le parti dei corpi si tengono reciprocamente, dal che sorgono quelle qualità tattili che si sogliono chiamare secondarie, quali la solidità, la fluidità, la durezza e la mollezza; la levigatezza e la scabrosità; la tenacia e la fragilità; la friabilità, la duttilità, la malleabilità, la fusibilità; 3) che un corpo duro quando spinge un corpo che non cede, rimbalza. In breve, dalla consistenza derivano tre proprietà: resistenza, coesione, riflessione. Colui che saprà rendermene ragione dalla figura, dal movimento e dal moto della materia, volentieri lo chiamerò un gran filosofo. Rimane un'unica via: che il corpo resista all'altro corpo che lo urta e che lo respinga, perché le sue parti superficiali insensibilmente gli muovono incontro. Ma supponiamo che il corpo li urti, non secondo quella linea per la quale gli muovono incontro le parti del corpo urtato, ma secondo un'altra, per esempio secondo una obliqua; subito, perciò stesso, dovrebbero venir meno ogni reazione, ogni riflessione e resistenza, il che e contro l'esperienza. La ragione della coesione non può essere tratta dalla reazione e dal movimento. Infatti, se spingo un pezzo di carta, la parte che spingo cede, perciò non si può immaginare nessuna reazione e nessuna resistenza. Ma essa non soltanto cede, ma trascina con se le altre parti che aderiscono. Perciò è vero ed ha la sua ragione quanto un tempo avevano già osservato Democrito, Leucippo, Epicuro e Lucrezio ed oggi i loro seguaci Pietro Gassendi e Giovanni Crisostomo Magnenus: che la causa naturale della coesione dei corpi e in talune figure che agganciano, quali ami, uncini, anelli, sporgenze; in breve in talune convessità e concavità dei corpi tra loro agganciati. Ma è necessario che questi stessi strumenti di aggancio siano solidi e tenaci affinché possano compiere la loro funzione e tenere insieme le parti dei corpi. Donde, allora, la loro tenacia? Supporremo uncini per gli uncini all'infinito? Ma allora la ragione di dubitare che si avrà nei primi, quella stessa si avrà per i secondi ed i terzi e così via, all'infinito. Per rispondere a queste difficoltà a quei filosofi non rimane che supporre nell'ultima divisione dei corpi alcuni corpuscoli indivisibili che essi chiamano Atomi, i quali, combinando in vario modo le loro diverse figure, produrrebbero le qualità sensibili dei corpi. Ma, in questi corpuscoli non si vede ragione alcuna della loro coerenza ed indivisibilità.
Gli antichi ne diedero una: ma così inadeguata che i moderni la rifiutano. Le parti degli atomi coerirebbero perché tra esse non c'è vuoto. Ne deriva che tutti i corpi che siano venuti a contatto una sola volta, dovrebbero coerire, al modo degli atomi, inseparabilmente, perché in ogni contatto, tra un corpo ed un altro, non rimane vuoto. Nulla di più assurdo di questa perpetua coesione e nulla di più contrario all'esperienza. Giustamente, pertanto, se si vuole rendere ragione degli atomi, ricorreremo a Dio, che dà solidità a questi fondamenti delle cose. E mi meraviglio che né Gassendi né alcun altro dei filosofi acuti del nostro tempo, si sia accorto di questa ottima occasione per dimostrare l'esistenza di Dio. Risulta, infatti, che nella divisione ultima dei corpi, la natura non può fare a meno dell'aiuto di Dio.
Poiché, dunque, abbiamo dimostrato che i corpi non possono avere grandezza e figura determinata né movimento senza supporre un ente incorporeo, facilmente apparirà che quest'Ente incorporeo sarà unico per tutte le cose per l'armonia di tutte le cose fra loro, specialmente quando i corpi non ricevono il moto ognuno dal suo Ente incorporeo, ma l'uno dall'altro. Il perché, poi, quell'Ente incorporeo scelga questa piuttosto che quella grandezza figura e moto, non può essere spiegato se non si pensa quell'Ente intelligente, e per la bellezza delle cose, sapiente, e per la loro obbedienza, come ad un cenno, potente. Pertanto questo Ente incorporeo sarà una Mente reggitrice di tutto il mondo, cioè Dio.
PARTE II. - L'immortalità della mente umana dimostrata con un sorite continuo
La mente umana è un ente, la cui azione è il pensiero.
Un ente la cui azione è il pensiero, ha un'azione immediatamente sensibile senza immaginazione di parti.
Il pensiero infatti è: 1) immediatamente sensibile, perché la mente che sente se stessa come pensante, è immediata a se stessa; 2) il pensiero è qualcosa di sensibile senza immaginazioni di parti. A chi la esperisce la cosa è chiara. Infatti, il pensiero è quel non so che che sentiamo quando sentiamo di pensare. Quando, ad esempio, sentiamo di aver pensato a Tizio, non soltanto sentiamo di aver avuto l'immagine di Tizio che certo ha parti, perché ciò non basta al pensiero. Abbiamo infatti in mente immagini anche quando non pensiamo ad esse; ed inoltre, sentiamo di avere avvertito l'immagine di Tizio, nella quale avvertenza apprendiamo con l'immaginazione che non vi sono parti.
Ciò la cui azione è immediatamente sensibile senza immaginazione di parti, ha un'azione senza parti.
Infatti, quale la cosa è sentita immediatamente, tale è. La causa dell'errore per la verità, e il medio, perché, se l'oggetto della sensazione fosse la causa dell'errore, si sentirebbe sempre falsamente; se fosse il soggetto, sentirebbe sempre con falsità. Ciò la cui azione è una cosa senza parti, non ha per azione un movimento. Ogni moto, infatti, ha parti, come è stato dimostrato da Aristotele e come tutti riconoscono.
Ciò la cui azione non è moto, non è corpo. Ogni azione del corpo è movimento.
Infatti, l'azione di una cosa una variazione dell'essenza. L'essenza del corpo è: esistere nello spazio, la variazione nello spazio costituisce il movimento. Pertanto ogni azione del corpo è movimento, ciò che non è corpo, non è nello spazio. Difatti la definizione del corpo è esistere nello spazio: ciò che non è nello spazio, non è mobile: infatti il moto è mutamento di spazio.
Ciò che non è mobile, è indissolubile: infatti la dissoluzione è un moto rispetto ad una parte.
Ciò che è indissolubile è incorruttibile
Ciò che è incorruttibile è immortale:
infatti la morte è corruzione del vivente, la dissoluzione della sua macchina per la quale si muove
perciò
la mente umana è immortale come volevasi dimostrare.
Leibniz, G. W., Scritti filosofici di Gottfried Wilhelm Leibniz, Bianca, D. O. (a cura di), in Classici della filosofia, 2 Voll., UTET, Torino 1967, pp. 27-33, vol. 2.