Sull'origine radicale delle cose

In questo importante saggio metafisico Leibniz propone diverse prove dell'esistenza di Dio. Con qualche lieve modifica alle prove tradizionali, il filosofo parte da premesse razionali arrivando a concludere logicamente la necessità di un Ente Divino, Dio. Nel saggio vengono elaborate diverse prove quali: la necessità da parte del mondo di una realtà necessaria da cui prendere origine; la necessità di trovare una Causa Prima che origini tutte le altre; l'impossibilità di negare un essere perfettissimo "logicamente privo di contraddizioni"; l'armonia prestabilita che rimanda a Dio come autore dell'armonia.

Oltre al mondo, o aggregato delle cose finite, vi è un Uno dominante, non solo come in me l'anima, ma piuttosto come nel mio corpo lo stesso io, sebbene dotato di una ragione molto superiore. L'Uno, infatti, che domina l'universo, non solo regge il mondo, ma lo fabbrica e lo fa; è al di sopra del mondo e, per cosi dire, extramondano, ed è, inoltre, la ragione ultima delle cose. Infatti, in nessuna delle cose singole, e neppure nella totalità del loro aggregato o serie, si può trovare la ragione sufficiente della loro esistenza [1]. Immaginiamo che il libro degli elementi di geometria sia eterno, e che ogni libro sia scritto sulla base di quello precedente; è evidente che sebbene la ragione del libro presente possa essere tratta dal libro precedente dal quale è derivato, tuttavia, qualunque sia il numero dei libri precedenti non si potrà mai pervenire ad una piena ragione in quanto è sempre lecito chiedersi, perché dall'inizio siano esistiti tali libri e perché scritti in quel modo. Ciò che è vero dei libri, è vero anche dei diversi stati del mondo, in quanto ogni stato successivo (sebbene secondo certe leggi di mutamento) è derivato dal precedente. Ed anche qui, per quanto si risalga negli stati anteriori, non si troverà mai in essi la ragione piena del perché esista un certo mondo e perché sia così. Perciò, anche se si fingesse un mondo eterno, poiché non si porrebbe che la semplice successione degli stati e poiché in nessuno si trova la loro ragione sufficiente, alla quale non ci si avvicina minimamente quale che sia il numero degli stati presi in considerazione, è evidente che la ragione vada ricercata altrove.

Nelle cose eterne, infatti, quand'anche non vi fosse una causa, se ne deve tuttavia intendere la ragione: la quale, nelle cose persistenti, è la stessa necessità o essenza; nella serie delle cose mutabili, invece, se la si immagini eterna e a priori, sarebbe la stessa prevalenza delle inclinazioni, come fra poco s'intenderà; ivi le ragioni non necessitano (con una necessità assoluta o metafisica, per la quale il contrario implichi contraddizione), ma inclinano. Da ciò deriva in modo evidente che, neppure se si suppone l'eternità del mondo, si potrà negare una ragione ultima extramondana, cioè Dio.

Le ragioni, pertanto, del mondo, si trovano in qualcosa di extramondano, differente dalla catena degli stati o dalla serie delle cose, il cui aggregato costituisce il mondo. Perciò dalla necessità fisica o ipotetica, che determina le cose del mondo in modo che le successive derivino dalle precedenti, bisogna arrivare a qualcosa che sia di necessità assoluta o metafisica, di cui non si possa render ragione [2]. Il mondo presente, infatti, è necessario fisicamente o ipoteticamente, ma non assolutamente o metafisicamente. In realtà, posto una volta che sia così, ne segue che devono nascere precisamente tali cose. Pertanto, poiché la radice ultima dev'essere in alcunché che sia di necessità metafisica (la ragione dell'esistente non deriva che dall'esistente), è necessario che esista un Ente unico, di necessità metafisica, la cui essenza implichi l'esistenza; perciò bisogna che esista qualcosa di diverso dalla molteplicità degli enti o mondo, che abbiamo ammesso e dimostrato non avere necessità metafisiche.

Per spiegarci ora più distintamente in qual modo dalle verità eterne, cioè dalle verità essenziali o metafisiche, derivino verità temporali, contingenti o fisiche, dobbiamo anzitutto riconoscere che per il fatto che qualcosa esiste anziché nulla, nelle cose possibili ovvero nella stessa possibilità o essenza, vi è una esigenza di esistenza o, per così dire, una pretesa ad esistere; o in una parola, che l'essenza di per sé tenda all'esistenza. Donde segue che tutti i possibili, ossia tutto ciò che esprime l'essenza o realtà possibile, tendono con eguale diritto all'esistenza, in proporzione alia quantità di essenza o di realtà cioè al grado di perfezione che implicano: la perfezione, infatti, non è altro che la quantità dell'essenza.

Da ciò si comprende, nel modo più evidente, come fra le infinite combinazioni di possibili e di serie possibili, esiste quella che porta all'esistenza la massima quantità d'essenza o di possibilità. Nelle cose c'è, sempre, un principio di determinazione che va cercato nel massimo e nel minimo, in modo che si raggiunga, per cosi dire, il massimo effetto con la minima spesa. Cosi il tempo, il luogo, la ricettività o capacità del mondo si possono considerare come la spesa o come il terreno nel quale si deve edificare nel modo più vantaggioso; le varietà delle forme, invece corrispondono alla comodità dell'edificio ed alla molteplicità ed all'eleganza delle camere. E tutto accade come in certi giochi, nei quali tutti gli spazi devono essere riempiti secondo certe leggi; se non si adopera un certo artificio, alla fine, bloccati da spazi inadatti, ci si trova costretti a lasciare vuoti più spazi di quanti si sarebbe potuto e voluto. Vi è però una regola per riempire nel modo più facile la massima quantità di spazi. Cosi, se si stabilisce di formare un triangolo, senz'altra più precisa determinazione, risulterà preferibile l'equilatero; e supposto che si debba tendere da punta a punta, senza ulteriore determinazione del cammino, si sceglierà la via più facile, cioè la più breve; così una volta posto che l'ente prevalga sul non ente, cioè che vi sia una ragione perché qualcosa esista piuttosto che nulla, o che dalla possibilità si debba passare all'atto, di qui, anche se non è data altra determinazione, segue che dovranno esistere quanto più cose sono possibili, in relazione alle capacità di tempo e di luogo (cioè dell'ordine possibile dell'esistere) esattamente come si compongono i tasselli in modo che nell'area scelta ne entrino il maggior numero possibile.

Da tutto ciò si comprende in modo meraviglioso come nella stessa origine delle cose, si eserciti una certa matematica divina o meccanismo metafisico [3]e si verifichi la determinazione del massimo; come in geometria, tra tutti gli angoli viene determinato l'angolo retto, e come i liquidi posti, in un mezzo eterogeneo assumono la figura di capacità massima, cioè, sferica; e soprattutto, come avviene nella stessa meccanica comune, quando, tra i molti corpi gravi contrastanti fra loro, sorge alla fine un moto, per il quale si ha la massima discesa complessiva. Come, infatti, tutti i possibili tendono con pari diritto ad esistere, in proporzione alla loro realtà, così tutti i pesi tendono con pari diritto a discendere, in proporzione alla loro gravita; e come da ciò sorge un moto nel quale si ha la massima discesa dei gravi, cos! si ha un mondo nel quale si ha la massima produzione dei possibili.

Con ciò una necessità fisica si ha da una necessita metafisica: infatti sebbene il mondo non sia metafisicamente necessario, in modo che il contrario implichi contraddizione o assurdità logica, esso è tuttavia fisicamente necessaria o determinate, in modo che il contrario implica imperfezione o assurdità morale. E, come la possibilità è il principio dell'essenza, così la perfezione o grado dell'essenza (per il quale più cose sono compossibili) è il principio dell'esistenza. Di qui risulta anche in qual modo la libertà si trovi nell'Autore del mondo, sebbene Egli faccia tutto determinatamente, perché agisce per un principio di saggezza e di perfezione. L'indifferenza, infatti, sorge dall'ignoranza e quanto più uno e sapiente tanto più è determinato al perfetto.

Ma, si dirà, questo paragone di un determinato meccanismo metafisico con quello fisico dei corpi pesanti, pur sembrando elegante, è deficiente in ciò, che i gravi che tendono al basso, esistono effettivamente, mentre le possibilità o essenze, prima o dopo dell'esistenza, sono immaginarie o fittizie, ed in esse non è possibile trovare alcuna ragione dell'esistere. Rispondo che né queste essenze, né quelle che si chiamano le loro verità eterne, sono fittizie; esse esistono, in una, per così dire, regione delle idee, cioè in Dio stesso, fonte di ogni essenza ed esistenza delle cose. E perché non sembri che noi si faccia affermazioni gratuite, lo indica l'esistenza stessa dell'attuale serie di cose. Non trovandosi in essa, come sopra abbiamo dimostrato, la sua ragione, che va cercata nelle necessità metafisiche o verità eterne, e dato che gli esistenti (come già abbiamo avvertito) non possono derivare se non da altri esistenti, occorre che le verità eterne abbiano un'esistenza in qualche soggetto assolutamente o metafisicamente necessario, cioè in Dio, per mezzo del quale quelle verità, che altrimenti sarebbero immaginarie (per dirla con una espressione barbara, ma significativa) sono realizzate. La realtà stessa insegna che nel mondo tutte le cose avvengono secondo le leggi delle verità eterne, non soltanto geometriche, ma anche metafisiche, cioè non solo secondo le necessita materiali, ma anche secondo ragioni formali, e ciò è vero, non solo genericamente, per quella ragione (già spiegata) per cui un mondo esiste anziché no, e perché esiste in questo modo e non altrimenti (ragione che va cercata nella tendenza dei possibili verso l'esistenza) ma anche nei particolari, nei quali osserviamo con quale meravigliosa ragione in tutta la natura abbiano luogo le leggi metafisiche della causa, della potenza, dell'azione; che prevalgono sulle leggi puramente geometriche della materia, come ho imparato, con mia grande meraviglia, nel cercare di rendere ragione delle leggi del moto, quando, da giovane, essendo più attaccato alla materia, nel tentativo di trovare la legge della composizione geometrica, alia fine fui costretto ad abbandonarla, come ho spiegato più diffusamente in altro luogo.

Abbiamo, così, le ragioni ultime della realtà, tanto delle essenze quanta delle esistenze, in un Uno, che è necessariamente superiore ed anteriore allo stesso mondo, dato che per Lui hanno realtà non soltanto le esistenze, che il mondo abbraccia, ma anche i possibili. E ciò non può trovarsi che in una fonte unica, per la connessione di tutte le cose fra loro. È manifesto, poi, che da questa fonte promanano e sono prodotte di continuo le case esistenti, non vedendosi perché da essa fluisca uno stato del mondo piuttosto che un altro, quello di ieri, piuttosto di quello di oggi. E altresì manifesto come Dio agisce non solo fisicamente, ma anche liberamente e come in Lui si trovi la ragione efficiente e la finale, non solo per la grandezza e la potenza della macchina dell'universo da Lui già costituita, ma anche per la bontà e la sapienza nel costituirla.

Ed affinché nessuno pensi che la perfezione morale o bontà, sia confusa qui con la perfezione metafisica, cioè con la grandezza, e riconosciuta questa, rifiuti quella, si deve sapere che dalle cose dette deriva non solo che il mondo è perfettissimo dal punto di vista fisico, cioè che è stata scelta quella serie di case nella quale il massimo di realtà è passato in atto, ma anche che è perfettissimo dal punta di vista morale perché, in verità, la perfezione morale è, per le menti, fisica essa stessa. Perciò il mondo non è solo una macchina sommamente ammirabile, ma anche, in quanto è costituita da menti, una perfetta repubblica, grazie alla quale è conferito alle menti il massimo di felicità e di letizia nella quale consiste anche la loro stessa perfezione fisica.

Ma, si dirà, noi sperimentiamo che nel mondo accade il contrario, spesso gli ottimi si trovano in pessime condizioni, e non solo le bestie, ma anche gli uomini vengono spesso tormentati ed uccisi con torture, finalmente il mondo, specialmente se si considera il corso del genere umano, sembra piuttosto un chaos confuso, che uno stato governato da una somma sapienza. Riconosco che a tutta prima sembra proprio così, ma se la cosa è studiata più a fondo, si deve affermare il contrario: a priori è manifesto, dalle considerazioni soprariportate, che di tutte le cose e quindi anche delle stesse menti si raggiunge la massima perfezione possibile.

Per la verità è incivile, come dicono i giureconsulti, giudicare senza avere esaminata l'intera legislazione. Ora noi, dell'eternità che si estende all'infinito, non conosciamo che una piccola parte, quanta è la memoria di alcuni millenni, tramandatici dalla storia. E tuttavia, da una così limitata esperienza, giudichiamo temerariamente dell'immenso e dell'eterno, simili ad uomini nati ed educati in carcere o, se si preferisce, nelle saline sotterranee dei Polacchi, i quali pensino non esservi altra luce che quella fievole delle lampade, a mala pena sufficiente per muovere i passi. Se di fronte ad una pittura bellissima la copriamo tutta, tranne una piccolissima parte, che cosa apparirà, quand'anche la si studiasse in profondità, e la si guardasse da vicino, se non una confusa mescolanza di colori, senza piacevolezza e senz'arte ? Eppure, appena si toglie la copertura e si guarda l'intero quadro dal punto più adatto, subito si comprende come ciò che sembrava applicato alla tela senza ragione, sia stato dipinto dall'autore con somma perizia. E ciò che accade per gli occhi in pittura, accade per l'orecchio in musica. Musicisti egregi spessissimo mescolano dissonanze agli accordi, per eccitare e quasi pungere l'ascoltatore e, dopo averlo reso ansioso di ciò che sta per succedere, rallegrarlo riportando tutto nell'armonico: analogamente ci rallegriamo di piccoli pericoli o di lievi sofferenze, a prova delle nostre sensibilità e felicità; oppure negli spettacoli degli acrobati e dei saltimbanchi (salti pericolosi), ci divertiamo degli stessi pericoli, cd anche noi, per ischerzo, facciamo il gesto di proiettare lontano i bambini e quasi li abbandoniamo. Per la stessa ragione una scimmia portò sul colma del tetto, Cristiano di Danimarca, ancora fanciullo ed avvolto nelle fasce, e nell'ansia di tutti lo riportò ridendo nella cuna, sano e salvo. Per questo stesso principio, diventa insipido nutrirsi sempre di dolci: occorre mescolare gusti agri, acidi ed amari, per eccitare il palato. Chi non abbia gustato cibi amari, non gusterà né apprezzerà cibi dolci. Identica è la legge della gioia: il piacere non procede a livello uniforme, questo genere dà fastidio e rende le persone ottuse, non gioiose.

Quanto abbiamo affermato, che la parte può essere turbata, salva restando l'armonia del tutto, non deve essere inteso nel senso che non si tenga conto alcuno delle parti, quasi fosse sufficiente che il mondo fosse perfetto nei suoi rapporti anche se il genere umano rimanesse infelice, quasi che nell'universo non vi fosse alcuna preoccupazione di giustizia e non si avesse cura di noi, come pensano coloro che non giudicano rettamente dell’insieme delle cose. Si deve, infatti, riconoscere che, come in un’ottima repubblica si ha cura che i singoli stiano il meglio possibile, così l’universo non sarebbe perfetto se non si provvedesse

ai singoli, salva l'armonia del tutto. Della qual cosa non potrebbe esservi misura migliore che la legge stessa di giustizia, per la quale ognuno deve partecipare alla perfezione dell'universo ed alla felicità in proporzione della propria virtù e della buona volontà da cui è animato verso il bene comune, che poi è quello che chiamiamo carità ed amore di Dio, e nel quale consiste la forza e l’autorità della religione cristiana secondo il giudizio dei teologi più dotti. Né deve meravigliare che nell'universo si attribuisca tanta importanza alle menti, dato che portano l'immagine più fedele del supremo Autore e che con Lui hanno una relazione che non è quella della macchina con l'artefice, ma l'altra dei cittadini verso il principe, e che durano tanto quanto l'universo e che, in qualche modo, esprimono e concentrano in sé il tutto, cosicché può dirsi che le menti siano parti totali.

Per quanto si riferisce alle afflizioni degli uomini buoni, si deve ritenere per certo che gioveranno ad un loro bene maggiore, e ciò è vero non solo sul piano teologico, ma anche sul piano fisico, come il grano gettato nel solco soffre prima di diventare frutto. Ed in generale si può affermare che afflizioni tormentose in un certo tempo possono avere esito buono, quando siano come vie più brevi per giungere ad una perfezione maggiore. Così in natura, quei liquori che fermentano lentamente, migliorano anche più lentamente, mentre quelli nei quali la perturbazione è più forte, espellendo con più violenza gli dementi nocivi, si purificano più rapidamente. In questa senso si dice che è necessario retrocedere, per spiccare con più impeto un salto in avanti (qu'on recule pour mieux sauter). Queste cose devono essere affermate, non soltanto perché consolatrici, ma perché verissime. E nell'universo, sento che nulla c'è di più vero della felicità e nulla di più felice e di più dolce della verità.

E bisogna altresì riconoscere, che nella totalità della bellezza e della perfezione universale delle opere divine, c'è un progresso perpetuo e perfettissimo dell'intero universo, cosicché si raggiunge una sempre maggiore cultura. Allo stesso modo una grande parte della nostra terra viene ora coltivata e lo sarà sempre di più: e sebbene a volte certe parti tornino a diventare selvagge, o nuovamente siano distrutte e depresse, ciò dev'essere interpretato nel modo in cui abbiamo interpretato le afflizioni ed in realtà queste stesse distruzioni e depressioni giovano al conseguimento di qualcosa di più alto, cosicché veniamo a guadagnare dallo stesso danno. E all'obiezione che allora il mondo già da gran tempo dovrebbe essere divenuto un paradiso, si risponde facilmente: sebbene già molte sostanze siano giunte ad una grande perfezione, nondimeno, per la divisibilità del continuo all’infinito, rimangono sempre, nell'abisso delle cose, parti sopite che devono ancora essere svegliate verso il più ed il meglio, cioè, per dirla in una parola, sospinte verso una maggiore cultura. Né con ciò il progresso giungerà mai ad un termine.


Note:

[1] È questa una delle quattro prove addotte dal Leibniz per dimostrare l'esistenza di Dio: ogni cosa del mondo è finita. Come tale non ha in sé la ragione sufficiente del suo essere: anche se si assume la totalità delle cose del mondo ed anche se si suppone la sua eternità, neppure in questo caso si avrebbe una ragione sufficiente dell'essere del mondo e del suo essere così e non altrimenti. La ragione sufficiente del mondo non può, perciò, non trovarsi che in una ragione fuori del mondo, in una ragione sopramondana, questa ragione è Dio.

 

[2] È questa la seconda prova; l'esigenza del mondo è di necessità fisica ipotetica , non di necessità assoluta o metafisica, bisogna perciò supporre un essere che esista di necessità assoluta e metafisica. Questa prova corrisponde a quella che Tommaso chiamava prova del possibile e del necessario, e che Leibniz altrove dice "dalla contingenza del mondo" (si veda, Teodicea, I § 7, e Monadologia, § 45). Dal Kant in poi fu detta "prova cosmologica .. (Critica della Ragion pura, Dialettica, Cap. III, sez. V). Sulle prove Leibniziane si veda Russel, A critical position of the philosophy of Leibniz, Cambrige, 1900 (tradotto in francese sotto il titolo La philosophie de Leibniz, Paris, Alcan, 1908, cap. XV) e Gallo Galli, Studi sulla filosofia di Leibniz, Padova, Cedam, pp. 101-103): questi studiosi, sia pure per diverse ragioni, dichiarano inconsistenti le prove Leibniziane.

 

[3] La matematica divina o meccanismo metafisico, come risulta dallo scritto, consiste nella lotta tra tutti i possibili e le loro diverse combinazioni (i compossibili), che urgono verso l'esistenza: tra tutte queste possibilità e compossibilità, Dio, sulla base del principio del massimo e del minimo, che coincide con il principio del meglio, sceglie il mondo, che è poi il mondo in atto, il migliore di tutti gli altri che pur erano possibili. Si noti che la creazione del mondo, a partire dai possibili, ubbidisce ad un principio di perfezione matematica, che è però al tempo stesso, principio di perfezione morale: il mondo è matematicamente perfetto, perché realizza il massimo di realtà con il minimo di spesa, ma anche moralmente perfetto perché attua il massimo di beni con il minimo di mali: in ciò consiste, in ultima analisi, l'armonia del mondo. Per la perfezione morale del mondo, si veda più avanti la Teodicea (Libro II).

 

Leibniz, G. W., Scritti filosofici di Gottfried Wilhelm Leibniz, Bianca, D. O. (a cura di), in Classici della filosofia, 2 Voll., UTET, Torino 1967, pp. 215-225.