La “nostra” scienza moderna, che siamo abituati a chiamare “sperimentale” o “galileiana”, ha individuato come sua metodologia propria quella del confronto sistematico tra il dato osservativo, o sperimentale, e le ipotesi che riesce a formulare per “descriverlo”, “prevederlo” e, in certi casi “snidarlo” con tecniche di sperimentazione sofisticate e indirette, ma ritenute probanti. Basti pensare a quale impalcatura teorica e a quanta raffinatissima tecnologia abbia richiesto l’individuazione del bosone scalare, noto come “bosone di Higgs”, quale segreto entro il quale la natura del mondo fisico sembra aver nascosto la sua capacità di dotare di una massa a risposo diversa da zero le particelle elementari, e recentissimamente la conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali.
Il metodo sperimentale che, Karl Popper (1902-1994) qualificava come metodo delle “congetture e confutazioni” (è ben nota la sua corposa opera omonima Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Il Mulino, Bologna 1972) ha avuto nel corso degli ultimi quattro secoli un successo talmente evidente che ha teso e tende, soprattutto oggi, ad ampliare l’oggetto delle indagini delle scienze non limitandosi ormai più, da tempo, alla sola natura del mondo inanimato, fisico e chimico, ma estendendosi alle scienze biologiche e alle scienze cognitive, alla ricerca del segreto, o meglio dell’ipotesi-teoria capace di comprendere la “logica” dei processi della vita e la “chiave di volta” dell’intelligenza umana.
È interessante e particolarmente significativo per le nostre scienze odierne, il fatto che l’esigenza di ampliare l’oggetto delle indagini abbia via via richiesto anche un perfezionamento del metodo scientifico stesso, per renderlo sempre più adeguato al suo oggetto. Così si è giunti a quella che oggi tutti conosciamo come la “crisi del riduzionismo”, che ha riaperto, in ambito scientifico e con un nuovo linguaggio, quell’antico problema del rapporto tra il “tutto” e le “parti”, ben noto ai logici e metafisici fin dal mondo greco. Oggi lo conosciamo come “problema della complessità”, al quale si sta lavorando in vista di una metodologia teorica e sperimentale adeguata per governarlo. Per mantenere fedeltà all’impiego del linguaggio logico-matematico, per quanto possibile (non tutte le scienze riescono a utilizzarlo allo stesso modo), per la formulazione delle teorie scientifiche, si è dovuta ampliare la matematica stessa: dall’aritmetica e geometria elementare si è passati prima all’algebra e alla geometria analitica, successivamente al calcolo differenziale-integrale e alla geometria differenziale, poi alla teoria degli insiemi e dei gruppi, alla topologia e all’analisi qualitativa, alle funzioni ricorsive...
L’affronto dei nuovi problemi cognitivi relativi allo studio delle operazioni dell’intelligenza, in ambito biomedico (rapporto mente-cervello, mente-corpo), e informatico (cosiddetta intelligenza artificiale, robotica) hanno spinto biologi, informatici, ingegneri, logici e matematici ad ampliare ulteriormente la matematica verso quella che, almeno in alcuni ambiti, è stata denominata come “ontologia formale”, per compiere una sorta di passaggio da una “teoria degli insiemi” (aggregati di oggetti) ad una tentativamente onnicomprensiva “teoria degli enti” (oggetti di qualsiasi natura). Le scienze matematiche e, di conseguenza, tutte le scienze matematizzate, hanno scoperto e dimostrato che non tutto è “computabile”, pur essendo in qualche modo descrivibile con un linguaggio simbolico adeguato, che non tutto è “predicibile” allo stesso modo, che non tutto è “univocamente” definibile, pur non essendo equivocamente differenziato, ma esiste un modo “controllato” di trattarne l’equivocità. Bertrand Russell (1872-1970) e Alfred North Whitehead (1861-1947) avevano già parlato della possibilità di gestire una sorta di “equivocità sistematica”, che i medievali chiamavano “analogia”, come ha fatto notare con largo anticipo il logico Joseph Bochenski (cfr., Joseph Bochenski, La logica formale, Einaudi, Torino 1972, vol. II, pp. 514-516).
Le scienze umane, antropologiche, storiche, e quelle sociali non hanno potuto attendere che le matematiche completassero il loro percorso dalla “teoria dei numeri” e delle “estensioni” fino a divenire una “teoria degli enti”, capace di offrire loro i fondamenti necessari per parlare in maniera non solo descrittiva, ma sistematica, dell’uomo, della società e della storia dell’umanità con le sue contraddizioni irrisolte. Anche se ci si può ragionevolmente aspettare che esse, compresa la stessa filosofia e la teologia, trarranno un notevole beneficio da questa nuova teoria dei fondamenti, frutto di un genuino e serio (non apparente e di facciata) lavoro interdisciplinare. Queste scienze dell’uomo, della società e della storia hanno cercato di formulare congetture e ipotesi, quando non addirittura teorie, per spiegare le cause e risolvere un “dato sperimentale”, uno stato di fatto costante che insegue l’uomo e l’umanità intera da millenni. Si sono così susseguite, soprattutto negli ultimi secoli, le varie ideologie antropologiche e socio-politiche che, alla prova dei fatti, si sono dimostrate incapaci di una predicibilità attendibile e in taluni casi sono state, nella loro applicazione, distruttive e devastanti la persona umana e la società, perdurando ancor oggi nelle loro conseguenze. Queste si fermano ad un livello di indagine, e quindi di formulazione delle ipotesi esplicative dell’esperienza, non sufficiente perché ancora riduzionistico. Se l’insufficienza del riduzionismo è stata scoperta dalle scienze fisiche, biologiche, logico-matematiche, cognitive, non sembra essere giunta del tutto all’evidenza nelle scienze della persona umana e del suo aggregarsi in società.
Il mondo sembra oggi essere ancora bloccato da due tipi di riduzionismo, un tempo contrapposti, e oggi divenuti collaboranti: un riduzionismo materialistico-economico, da un lato, che assume come scienza esplicativa di tutto il dato sperimentale umano (personale e sociale) l’economia, che predice e governa anche il comportamento della persona umana e della società, come sue variabili e funzioni, in base alle leggi di mercato; e un riduzionismo materialistico-statuale che utilizza la legge positiva convenzionale per governare il funzionamento della “macchina” sociale e il comportamento della persona umana, riducendone di fatto i gradi di libertà. Entrambi questi riduzionismi, ormai si dimostrano inadeguati a descrivere e predire la realtà dei fatti e fenomeni impredicibili in entrambi i quadri teorici, e irrazionali, si sono scatenati in una forma che risulta essere ingestibile. Uno dei limiti comuni ad entrambi questi quadri teorici sembra essere legato al loro carattere eccessivamente “teorico” (per utilizzare un termine scientifico), o “ideologico” (per usare un termine socio-politico) che tende ad imporre la teoria ai fatti, piuttosto che ad attenersi alla realtà sperimentale.
Nelle scienze, invece, si è abituati a scartare una teoria che viene clamorosamente falsificata dall’esperienza. Nel contesto economico e socio-politico ciò non avviene facilmente, a causa di interessi e poteri che, sui tempi brevi sembrano essere più vantaggiosi dell’aderenza alla realtà, ma in tempi più lunghi si dimostrano autodistruttivi. L’essere umano esige ormai di essere descritto e governato da leggi più fondamentali di quelle adottate negli ultimi due secoli per comprenderlo. È possibile formulare una nuova ipotesi esplicativa della condizione umana e delle vere cause delle contraddizioni, personali e sociali, che l’accompagnano universalmente nel tempo della storia (diacronicamente) e nello spazio delle diverse collocazioni geografiche (sincronicamente)? Esiste una qualche “legge di natura” che può descrivere e governare il corretto “funzionamento” dell’essere umano? Siamo in grado di formulare un’assiomatica entro la quale si possa dedurre una risposta “decidibile” alla domanda? Il dato sperimentale che documenta il malessere e il disagio che insorgono a causa della contraddittorietà della condizione umana e la perdita di vivibilità progressiva delle moderne società, sembrano suggerire l’esistenza di una simile legge, la cui conoscenza è avvertita da ciascuno almeno psicologicamente, se non come lucida consapevolezza, come una cosa che oggi non è adeguatamente presa in considerazione, ma che dovrebbe essere scoperta, o riscoperta, e dovrebbe essere rispettata per il corretto “funzionamento” dell’essere umano. Il metodo scientifico suggerirebbe, allora, l’interrogativo che spinge ad indagare sulla causa, sul perché è venuta meno l’attenzione a questa legge, e se c’è addirittura una causa remota fin dalle origini della storia dell’umanità, così come la cosmologia si interroga e formula teorie sulle origini dell’universo che oggi osserviamo.
Tutto questo riapre una via razionale, scientifica, a prendere in considerazione, almeno come ipotesi di lavoro, quella che anticamente, perfino i miti delle origini qualificavano come la perdita di una condizione originaria nella quale l’uomo non si trovava in una simile contraddizione e viveva in una condizione di “giustizia originale”. La Rivelazione biblica ci descrive la “perdita della giustizia originale” («carentia originalis iustitiae», Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 53, a.1 ad 2um) come conseguenza di una libera scelta dell’uomo, sollecitata dal suggerimento di un essere intelligente di una natura a lui superiore che aveva già compiuto la stessa scelta. Non prendere in considerazione una simile spiegazione della condizione umana odierna, almeno come ipotesi di lavoro, appare irragionevole e non scientifico, se non altro perché l’essersi arrestati ad una spiegazione più riduttiva, meno fondamentale, non ha mai consentito, nel corso della storia, di formulare teorie predittive che non siano state tragicamente falsificate dai fatti osservati. Avere un’ipotesi esplicativa dei dati sperimentali non significa ancora, però, essere in grado di risolvere il problema e di superare la contraddizione. Per questo la Scrittura chiama in causa il piano della Redenzione, operata da Gesù Cristo Uomo-Dio, nel quadro della storia della Salvezza. Ma nel breve spazio di un editoriale non è possibile andare oltre questa enunciazione.