I. Diverse accezioni del termine - II. L'esercizio della ragione all'interno della fede: la patristica e la teologia medievale - III. Il concetto "moderno" di ragione - IV. Il concetto "postmoderno" di ragione: tra ragione tecnica e "crisi" della ragione - V. Il rapporto tra la ragione e la fede nella prospettiva cristiana: la posizione del pensiero cattolico e quella dei riformatori - VI. La riconduzione dell'esercizio della ragione all'interno di un'antropologia compiuta, aperta alla trascendenza della fede.
I. Diverse accezioni del termine
Nella tradizione filosofica occidentale il termine «ragione» è utilizzato per indicare l'aspetto speculativo della facoltà conoscitiva dell'uomo. L'etimologia latina di questa parola, ratio , molto probabilmente collegata alla stessa radice verbale di ratus (stabilito, definito, pensato), rimanda all'attività del "calcolare" e del "porre in relazione". Tuttavia il significato profondo di ragione si coglie in modo particolare a partire dalla sua origine greca. Il latino ratio traduce il greco lógos, che esprime la funzione ragionatrice e discorsiva della ricerca conoscitiva umana e dell'atto del conoscere razionale: è possibile perciò comprendere in modo specifico cos'è la ragione in riferimento al peculiare tipo di conoscenza alla quale essa permette di accedere. La conoscenza raggiunta attraverso la ragione è infatti diversa da quella offerta dal mito (gr. mythos), base della esperienza religiosa greca, e da quella prodotta dalle opinioni (gr. dóxai), molto diffusa nell'esperienza quotidiana. Essa ha una connotazione tipica di solito collegata con un importante evento nella storia della cultura occidentale: la nascita della scienza filosofica in quanto interrogazione sulla totalità del reale con l'aiuto del solo lógos. Si tratta dell'attività cognitiva dello spirito umano volta a cercare e trovare le "ragioni o cause ultime" delle cose, attraverso l'uso esclusivo del lógos, cioè sola ratione . Sotto questo aspetto, il termine lógos indica non solo il particolare approccio conoscitivo sulla realtà, ma anche, in senso più oggettivo, il fondamento stesso di una cosa, la sua intelligibilità, la sua essenza. Così, la storia della filosofia greca può essere globalmente letta come l'insieme di tutti i tentativi realizzati alla scoperta delle istruzioni epistemologiche necessarie per l'uso corretto del lógos. Nella schiera dei primi grandi pensatori greci emergono - per il loro contributo fondamentale alla questione - senz'altro i nomi di Parmenide, di Socrate, ma soprattutto quelli di Platone e di Aristotele.
La "seconda navigazione" di Platone (427- 347 a .C.) invita l'uomo dotato di lógos a non fermarsi alle apparenze dei fenomeni: il compimento di un atto razionale richiede il passaggio dalle cose del mondo (fugaci figure della realtà) alle loro «Idee eterne», attraverso un processo dialettico reso possibile dal dialogo discorsivo (cfr. Fedone, 99d-101d). Nel discorrere, la mente umana può approdare all'intuizione delle essenze o Idee, grazie alla reminiscenza di quanto l'anima contemplava nella pianura della verità (Iperuranio) prima di essere gettata nella storia, secondo l'antropologia platonica caratterizzata dalla dottrina della metempsicosi. Qui l'aspetto illuminante-intuitivo predomina nell'evento razionale. Aristotele (384- 322 a .C.), invece, sottolineerà meglio il momento discorsivo: l'esperienza autentica della conoscenza è data dal giudizio. Nel giudizio l'uomo razionale stabilisce rapporti tra gli enti, scruta le relazioni significative tra essi, e, con procedimento sillogistico, giunge al sapere fondato, l' epistéme. La formulazione dei giudizi è ultimamente consentita dalla incontrovertibile presenza di alcuni "princìpi supremi", dei quali non è possibile alcuna dimostrazione e la cui verità può essere solo afferrata dalla mente umana: il primo di questi è il "principio di non-contraddizione".
Nella facoltà conoscitiva dell'uomo si delinea dunque - secondo la concezione greca - una certa tensione tra l'elemento discorsivo e quello intuitivo: proprio su questa base, la terminologia filosofica perverrà successivamente alla distinzione tra "intelletto" e "ragione". In ogni caso, si registra un generalizzato consenso intorno alla definizione di ragione quale «guida autonoma dell'uomo in tutti i campi nei quali un'indagine o una ricerca è possibile» (Abbagnano, 1998, p. 892). Essa costituisce, così, la cifra della ricerca libera e rappresenta la grandezza specifica dell'uomo. Cicerone (106- 43 a .C.) ha scritto: «per la ragione siamo superiori alle bestie» (De Legibus , I, 10,30); a lui ha fatto eco Boezio (480 ca. -524) con la sua famosa definizione di persona: «Persona è la sostanza individuale di natura razionale» (De duabus naturis et una persona Christi, 3). Questa determinazione fondamentale dell'umano permette di identificare il fil rouge della storia dell'Occidente proprio nelle discussioni filosofiche e scientifiche circa il valore, i limiti, le regole e la struttura della ragione: qui è anche il luogo emblematico nel quale viene alla luce l'ininterrotta opera di confronto/contrapposizione tra la religione e la ricerca teoretica, tra il sapere filosofico e quello scientifico. Le tappe più significative di questa "lotta" sono scandite da alcuni avvenimenti-chiave della civiltà occidentale: il sorgere del cristianesimo con la necessità di un approfondimento "razionale" del suo annuncio; la grande sistemazione dell'enciclopedia del sapere umano realizzatasi nel Medioevo; il Rinascimento e la Riforma Protestante , che costituiscono il quadro di riferimento per la nascita della modernità (da Cartesio sino ad Hegel, per la linea filosofica, e da Galileo sino al neopositivismo, per la linea scientifica); e infine l'attuale epoca della "crisi" della ragione (espressa dalle forme del cosiddetto "pensiero debole", vedi infra, IV), nella quale a chi proclama tale condizione quale ineluttabile destino della ragione occidentale è stato rivolto dalle pagine della Fides et ratio (1998) l'invito a porre di nuovo mano alla questione della ragione per riscoprirne e rinvigorirne la capacità veritativa, la sua potente tensione metafisica oltre che sapienziale.
II. L'esercizio della ragione all'interno della fede: la patristica e la teologia medievale
L'invito rivolto da parte dell'apostolo Pietro ai cristiani di essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15), costituisce nella patristica e nella teologia medioevale il punto di riferimento imprescindibile circa il ruolo della ragione nell'opera di evangelizzazione. Realisticamente occorre notare che la Chiesa delle origini non si interessò in modo diretto del rapporto tra la ragione e la fede come una questione da dover risolvere. La Chiesa era doverosamente concentrata sull'annuncio gioioso ed entusiastico del Vangelo e sulla chiarificazione delle implicazioni morali della fede cristiana. Ma proprio in questo contesto, già a partire dal II secolo, si assiste alla nascita della cosiddetta letteratura apologetica con il suo duplice e complementare compito: da un lato rafforzare le ragioni critiche della nuova esperienza e dottrina cristiana, dall'altro respingere le accuse e le obiezioni formulate contro il cristianesimo. L'esecuzione di questo compito nel periodo patristico rimane altamente paradigmatica anche per la teologia di oggi, come lo fu per ogni altra epoca, anche per quella medioevale (cfr. Fides et ratio, 36-48).
L'atteggiamento verso la filosofia è una preziosa spia del modo con cui i Padri declinarono il rapporto tra fede e ragione. All'inizio, cioè per tutto il II e III secolo, esso è duplice: da una parte, vi è una posizione (rintracciabile in parte già con Ireneo di Lione) più incline al sospetto, che per difendere l'integrità della fede tende a separarla nettamente dalla ragione pervenendo così alla pratica di un certo fideismo, secondo la nota espressione di Tertulliano: «Che cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che cosa l'Accademia e la Chiesa ?» (De praescriptione haereticorum, VII, 9). Dall'altra, si registra la ricerca di un maggior dialogo e di una possibile intesa, sulla scia della teoria dei spermatikoì lógoi elaborata da Giustino, la quale ricomprende l'esercizio della ragione dei filosofi (anche di quelli prima di Cristo) come una espressione del Logos divino. In questa direzione occorre ricordare l'opera di Clemente Alessandrino, per il quale la filosofia è una buona propedeutica alla fede. Certo, rispetto all'elaborazione della dottrina cristiana vera e propria l'utilizzo della ragione è inteso e praticato in modo meramente strumentale. Tuttavia, già in Origene si ravvisa la nascita di una prima teologia cristiana e quindi di un esercizio "teologico" della ragione. Nei suoi numerosi scritti, e con l'intento di difendere la fede cristiana dagli attacchi del filosofo Celso (Contra Celsum), egli dichiarò che «bisogna rafforzare la fede con il ragionamento [...] partendo dalle nozioni comuni elaborate dalla filosofia greca» (De principiis, I, 7,1). La ragione serve alla Rivelazione non solo in quanto ne permette una comprensione più adeguata, ma anche perché ne realizza una mediazione sempre più accessibile al destinatario. Nel periodo di massimo sviluppo della Patristica - a partire cioè dal IV secolo - non è difficile trovare opere di grandi sintesi nelle quali il dialogo tra fede e ragione viene elaborato e praticato in modo sommamente armonico, pervenendo a maggiore sistematizzazione: si pensi ai Padri Cappadoci che, impegnati a difendere la fede dagli attacchi del razionalismo di Eunomio, evidenziano i limiti della ragione e insistono sul riferimento alla parola rivelata.
Un posto del tutto particolare occupa l'eminente figura di sant'Agostino (354-430) la cui dottrina rappresenterà per secoli un riferimento obbligato e luminoso. La sua vicenda personale lo portò più volte a riflettere sulla questione del ruolo della ragione all'interno dell'elaborazione teologica della fede, conferendole un valore positivo nonostante la sua insufficienza nell'indicare e nel raggiungere il vero scopo della vita umana: l'incontro con il Verbo Incarnato, l'unica Verità che può acquietare la mente e il cuore dell'uomo. Se a Gesù Cristo si arriva attraverso la conversione e la fede, è altrettanto vero che in questo cammino, nel quale tutto l'uomo è coinvolto, il contributo della ragione è importante e decisivo. «Nessuno certo crede alcunché se prima non ha pensato di doverlo credere» (De praedestinatione sanctorum 2,5) egli afferma, senza nulla togliere all'apporto della volontà: «Con l'amore si domanda, con l'amore si cerca, con l'amore si aderisce alla rivelazione, con l'amore infine si rimane in quello che è stato rivelato» (De moribus ecclesiae, I, 17,31). Nella ricerca teologica, poi, grande è l'investimento di energie riservato all'esercizio della ragione nel conseguimento della Verità intera, la quale alla fine si svela come "dono" da ricevere e non è frutto di una ricerca unilaterale del soggetto. Si delinea, così, una tensione singolare di reciprocità tra ragione e fede, il cui rapporto non è pensabile quale semplice accostamento di due elementi in sé separati e autonomi, ma piuttosto dinamicamente interagenti in modo organico nell'effettività del pensare credente: credo ut intelligam e intelligo ut credam. È allora possibile sostenere, in estrema sintesi, che i Padri «accolsero in pieno la ragione aperta all'assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione» (Fides et ratio , 41).
I primi scrittori medievali proseguirono in maniera creativa e arricchente la prospettiva agostiniana, progressivamente sottolineando con chiarezza il primato della fede sulla ragione sotto l'influenza del modello di pensiero di Dionigi Pseudoareopagita: poiché grazie alla fede i credenti sono intimamente partecipi della Verità, ad essa devono sempre più tendere in un cammino di ascesi che si compie nell'estasi, cioè nell'unione piena con Dio. Da qui prese l'avvio la grandiosa corrente di spiritualità monastica, nella quale l'elemento centrale è proprio la fede, sostenuta dalla preghiera e mai abbandonata dal pensiero.
Oltre il cliché di un Medioevo ritenuto fideistico (dovuto principalmente ad una storiografia illuministica), è necessario e opportuno riconoscere le intime tensioni che percorrono questo periodo storico, a partire soprattutto dal secolo XI. La nascita delle Università, il rinnovamento del metodo di insegnamento della teologia (la disputatio), e di scrittura dei testi teologici (la Summa), la valorizzazione della dialettica nella ricerca (attraverso la quaestio), invitano a un uso della ragione non più semplicemente strumentale, come pur avveniva nella compilazione e nella sistemazione delle Sentenze dei Padri: la ragione diventa ora una vera e propria fonte di conoscenza di fronte alla quale anche la fede può essere posta in giudizio. Questo cambiamento di paradigma, che ovviamente non fu privo di turbamenti - come dimostra ad esempio la polemica accesa tra Pietro Abelardo e Bernardo di Chiaravalle -, fu tuttavia all'origine delle grandi opere teologiche medievali, tra le quali meritano speciale menzione quella di Anselmo di Canterbury e quella di Tommaso d'Aquino.
Il motto fides quaerens intellectum (armonicamente correlato al suo inverso intellectus quaerens fidem) interpreta molto bene il programma teologico-filosofico di s. Anselmo (1033-1109). Egli crede, ma vuole capire ciò che crede. Assertore di un profondo legame tra fede e intelligenza, Anselmo apre il dialogo con il non credente e con l'"infedele", sicuro che la mente umana dischiude un itinerario di intelligenza praticabile a chiunque usi la ragione in modo onesto. Perciò egli non teme di riflettere razionalmente pregando il suo Dio: non ha timore di approntare una prova razionale dell'esistenza di Dio nell'invocazione della grazia che deve illuminarlo nel cammino della sua scoperta. La fede viene al pensiero. Il pensiero non disdegna di avanzare nella fede stessa.
Una volta accolta la Rivelazione, contenuta nella Parola di Dio, il credente ha la necessità di trovare nel contenuto di fede delle ragioni, delle strutture di senso universali, in una ricerca che quasi prescinde dalla Rivelazione stessa. Per Anselmo, infatti, l'atto proprio del pensare si avvicina a quello del vedere, ed è teso a portare all'evidenza, a rendere sempre più chiaro l'oggetto al quale esso si applica. In questo modo la ragione giunge, in conclusione, ad ammettere come necessario ciò che viene detto dalla fede. Il famoso argomento del Proslogion intreccia i due livelli della riflessione unitaria di s. Anselmo: quello della "sola ragione", della motivazione critica spinta al massimo della sua necessità implicativa, e quello della fede che cerca di comprendersi, in cerca dell'intelligenza della propria misteriosa oscurità. Denominato impropriamente "Padre della Scolastica" - non esiste ancora in Anselmo la distinzione chiara tra ragione e fede, tra filosofia e teologia, come sarà riconosciuta dagli scolastici -, egli rifondò su nuove basi la teologia con una particolare figura della ragione che non è riconducibile né all' intellectus della patristica, né alla ratio dell'alta scolastica (cfr. Staglianò, 1996, pp. 66-88).
Con gli strumenti della dialettica - dall'analisi dell'esperienza all'induzione, dal sillogismo al principio di analogia - coniugata, senza confusioni equivocanti, con lo slancio mistico che supplisce agli inevitabili limiti dell 'intelligere , Riccardo di San Vittore (1110 ca. -1173) pretende di penetrare nelle profondità di Dio. Nonostante l'oscurità che avvolge i misteri divini: «non stanchiamoci di tentare, per quanto è lecito e possibile, di comprendere con la ragione ciò che riteniamo per fede» (De Trinitate, Prologo). Urgono, allora, non tanto argomentazioni plausibili, ma "necessarie" (rationes necessariae) per dimostrare l'esistenza della Trinità, la sua interiore dinamica e la sua attività esterna, così come risulta dalla regola della fede cattolica: il percorso pretende essere filosofico, logico, dialettico.
Il ricorso alla ragione filosofica (o meglio a figure storiche di ragione, come quella neoplatonica e quella aristotelica) nell'esplicitazione approfondita della dottrina cristiana, richiedeva un equilibrio profondo nel rapporto tra fede e ragione, con una serie di distinzioni negli ambiti, nei rispettivi ruoli e nelle mutue possibilità di interrelazione. Solo Tommaso d'Aquino (1224-1274) organizzerà sistematicamente tale ricorso in forma compiuta, quando la teologia chiarirà meglio il proprio statuto epistemologico. La teologia, inserita nelle università, doveva darsi uno statuto scientifico, che solo dall'utilizzo della ratio autonoma poteva derivarle.
L'evento culturalmente più rilevante del XIII secolo è la riscoperta di Aristotele, in particolare del suo pensiero metafisico, considerato come l'espressione della capacità veritativa della ragione pura. Tommaso, recependo la lezione metafisica di Aristotele, si dotava di uno strumento concettuale "autonomo" e poteva giungere a una maggiore distinzione degli ambiti propri della fede e della ragione - conseguentemente della filosofia e della teologia -, più di quanto il neoplatonismo agostiniano permettesse.
Per s. Tommaso, l'apporto della ragione in quanto tale è indispensabile nella difesa e nell'annuncio delle verità cristiane, perché essa rappresenta quanto esiste di "comune" in tutti gli uomini (cfr. Contra Gentiles, I, c. 2): la ragione ha i suoi propri princìpi e nel suo esercizio conoscitivo giunge alla scoperta di alcune verità (naturali) che sono preziose premesse su cui innestare il discorso tipico della religione e della fede. In questa prospettiva, Tommaso può dichiarare sia l'autonomia e la libertà della ragione umana, e sia, per riferimento alla fede, i suoi strutturali limiti e la sua creaturale inferiorità, senza per altro inficiarne mai il valore.
È ovvio che la rivelazione soprannaturale della fede non si sovrappone esternamente alla ricerca di senso e di verità dell'uomo, ma corrisponde alla sua profonda aspirazione alla felicità, offrendole un compimento eccedente. Per il principio tomistico "dell'armonia tra la grazia e la natura", oltre ogni contrapposizione, si ammette un reciproco servizio tra fede e ragione: la distanza e la trascendenza della fede non impediscono alla ragione «illuminata dalla fede» di offrire quanto di meglio riesce a elaborare sul piano logico e su quello metafisico per la comprensione "analogica" del mistero del Dio uno e trino, consentendo una certa intelligibilità agli aspetti più oscuri e inaccessibili della rivelazione cristiana: la realtà, nell'unico Dio, di una molteplicità di processioni, relazioni e persone che non solo non distruggono la sua assoluta semplicità, ma ne costituiscono la stessa ragion d'essere.
Il punto di partenza di Tommaso è, del resto, proprio la creazione, quale opera buona di Dio, che però trova la sua piena realizzazione nell'incarnazione del Verbo e quindi nella salvezza operata da Gesù Cristo. Si delinea allora una duplice dimensione nell'antropologia tomistica che consente un'equilibrata valorizzazione e un armonico ordinamento dei diversi elementi propri dell'esperienza dell'uomo. Preziosa, in questa direzione, è la distinzione tomasiana tra "intelletto" e "ragione": «il nome "intelletto" infatti deriva da un'intima penetrazione della verità, mentre quello di "ragione" dalla ricerca e dal discorso» (Summa theologiae , II-II, q. 49, a . 5, ad 3um).
III. Il concetto "moderno" di ragione
Il concetto "moderno" di ragione quale guida libera e progressiva della conoscenza umana viene fatto risalire a Cartesio (1596-1650). Molti sottolineano a tal punto il ruolo di questo pensatore da postulare un'effettiva soluzione di continuità con la cultura precedente. In realtà, a preparare e a favorire il sorgere della riflessione cartesiana vanno indicati numerosi fattori. Già a partire da Tommaso, il quale distingue ragione e fede, e nel solco della linea teologica che da Sigieri di Bramante, passando per Duns Scoto, giunge a Guglielmo da Ockham, si assiste sempre di più all'accentuazione dell'autonomia della ragione rispetto alla fede (cfr. E. Gilson, 1930; cfr. anche Verweyen, 1990). Non bisogna poi dimenticare la "rivoluzione" rinascimentale con il suo profondo antropocentrismo, corroborato dalle nuove scoperte geografiche: si assiste all'affermarsi di una nuova forma di "spiritualità-mentalità", che introduce un'insuperabile instabilità nella visione teocentrica del mondo medioevale.
Le prime ricerche di tipo scientifico, inoltre, specie a partire da F. Bacone (1561-1626), avviano quel processo di "disincanto del mondo", coerente all'instaurazione di un nuovo quadro della società dove non è più il sapiente a doversi giustificare davanti al teologo, ma viceversa. In questo contesto occorre menzionare la forza dirompente esercitata dalla Riforma protestante e dalle guerre di religione: soprattutto quest'ultime imposero l'esigenza di cercare un nuovo centro di unificazione tra gli uomini, non essendo più essa garantita dalla religione, e proprio nella ragione si troverà l'istanza universale a cui riferirsi per l'organizzazione del sapere e del vivere quotidiano.
La concezione moderna fa della ragione "l'istanza suprema e ultima" per l'orientamento dell'esistenza umana, del conoscere e dell'agire dell'uomo. Tale processo trova il suo incipit nel cogito cartesiano, per la filosofia, e nell'opera di Galileo e di Newton, per la scienza. Chiarito subito che intercorre una netta differenza tra il razionalismo seicentesco e quello illuministico (cfr. Bosco, 1977) - essendo quest'ultimo totalmente sganciato da una qualsivoglia prospettiva metafisica -, si può riconoscere proprio nell'insistenza con la quale Cartesio concentra la problematica filosofica sul tema della soggettività l'avvio di quel movimento di pensiero che farà della ragione il "giudice universale" su tutte le domande umane, anche quelle della religione. Per Cartesio, infatti, «la capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso - ciò che propriamente si dice buon senso o ragione - è per natura uguale in tutti gli uomini e, quindi, [.] la diversità delle nostre opinioni non deriva dal fatto che gli uni sono più ragionevoli degli altri, ma soltanto dal condurre i nostri pensieri per diverse vie e dal non considerare le stesse cose. Non basta infatti esser dotati di un buon ingegno; importa soprattutto applicarlo bene» (Discorso sul metodo , 1637, tr. it. in "Opere filosofiche", vol. I, Torino 1994, p. 498). Da qui l'urgenza di individuare le regole idonee a indirizzare la ragione nel suo compito fondamentale di guida conoscitiva e morale dell'uomo, tenendo come paradigma di riferimento il sapere matematico. Con Cartesio e, sulla sua scia, con Leibniz e Spinoza, la ragione non è semplicemente una facoltà conoscitiva, ma la realtà stessa dell'essere dell'uomo (res cogitans). Successivamente, con Locke e con l'empirismo inglese, la ragione verrà intesa quale puro strumento di conoscenza probabile o, al massimo, certa. Nella disputa filosofica della modernità tra empirismo e razionalismo, la ragione illuministica troverà un trampolino di lancio per giungere alla sua più compiuta definizione nel pensiero di Kant, grazie all'influenza esercitata su di lui e su tanti altri pensatori illuministi dalla scienza moderna (il progetto dell' Encyclopédie), quale modello del sapere.
La nascita della scienza moderna, e in particolare della fisica, a opera di Galileo (1564-1642), proseguita e sistematizzata poi da Newton (1642-1727) nei suoi Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), segna uno iato molto forte con la scienza pre-moderna. L'emergere dell'elemento quantitativo su quello qualitativo, la forza probante dell'esperimento, il progressivo abbandono delle prospettive metafisiche determineranno un formidabile sviluppo nella comprensione del "funzionamento del mondo", la cui realtà ora si vuole comprendere senza aggancio al mistero. Sebbene nella maggior parte degli autori che furono protagonisti di questo cambiamento un tale sviluppo non fu interpretato in chiave anti-religiosa, esso segnò tuttavia l'ingresso in un'epoca nella quale, grazie al nuovo pensiero scientifico, quasi tutto avrebbe ricevuto ormai una spiegazione senza più ricorrere all'aiuto della teologia o della Rivelazione biblica. Se è forse esagerato ritenere che la razionalità moderna nasca proprio dalla critica al dogma cristiano e alla sua prospettiva cosmologica, derivata in gran parte dall'assunzione del modello aristotelico (cfr. Lawrence, 1999), certo è che la modernità si propone come un programma dichiaratamente anti-aristotelico (ma non anti-cristiano, almeno nelle intenzioni), coinvolgendo nella sua critica molte "espressioni del cristianesimo" in quanto dipendenti concettualmente dall'aristotelismo. La progressiva emancipazione e indipendenza della natura e dell'intelletto da ogni trascendenza e da ogni mediazione che non fosse immanente alla natura e all'intelletto stesso, produsse quella esaltata libido sciendi che pretese strappare alla realtà il mistero gelosamente custodito, invece che contemplarla con stupore. Per penetrare la realtà con tutte le energie fondamentali dell'intelletto si rendeva necessario recidere definitivamente il vincolo che teneva unite la teologia e la fisica e fu questa l'opera degli Enciclopedisti francesi.
"Il cielo stellato", che insieme alla legge morale interiore desta lo stupore di Kant (1724-1804), non è altro che proprio quell'"ordine" visibile nel cosmo all'occhio della scienza, di cui si ritiene di svelare il segreto: da qui l'entusiasmo con il quale si indica nella ragione diventata "adulta" l'essenza stessa dell'illuminismo (cfr. Risposta alla domanda: che cos'é l'illuminismo?, 1784). Il tribunale supremo della ragione non riconosce oltre alcuna autorità: tutto è sottoposto al suo giudizio secondo il compito assegnato da Kant alla Critica della ragion pura (1781 e 17872). La ragion pura, infatti: «non s'immischia nelle controversie che si riferiscono immediatamente agli oggetti, ma è istituita per determinare e per giudicare i diritti della ragione in generale» (tr. it. Roma-Bari 19916, p. 467).
L'analisi kantiana circa le condizioni di possibilità del sapere individua nella facoltà conoscitiva superiore dell'uomo, distinta da quella inferiore della sensibilità, due usi possibili, quello dell'intelletto e quello della ragione. «Se l'intelletto può essere una facoltà dell'unità dei fenomeni mediante le regole, la ragione è la facoltà dell'unità delle regole, dell'intelletto mediante i princìpi. Essa, dunque, non si indirizza mai immediatamente all'esperienza o a un oggetto qualsiasi, ma all'intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un'unità a priori per mezzo di concetti; unità, che può dirsi razionale, ed è di tutt'altra specie da quella che può essere prodotta dall'intelletto» ( ibidem , p. 240). Essendo così stabilito che solo il riferimento all'esperienza dà garanzia di conoscenza vera, l'uso della ragione potrà essere, con parole di Kant, semplicemente regolativo e non "costitutivo". La ragione non offre nulla da conoscere nel suo procedere argomentativo: gli oggetti a cui essa punta la sua attenzione nel ricondurre ad unità le molteplici conoscenze dell'intelletto - come l'idea di mondo, l'idea di Dio, l'idea di anima -, in quanto non commisurabili con l'esperienza, danno luogo solo a conoscenze fittizie (paralogismi), se da essi si pretende una conoscenza vera e non semplicemente regolativa, se cioè si pretende che queste idee ci dicano come le cose stanno in realtà.
Poiché la ragione moderna si è autoposta nelle proprie leggi e nei propri confini, essa ha posto ogni cosa all'interno del proprio orizzonte, chiudendo tutto nei propri limiti. Lo scritto kantiano del 1793 La Religione nei confini della pura ragione appare, in questo senso, non solo programmatico, ma anche conclusivo di un itinerario di pensiero che ha voluto spiazzare il "sapere critico della fede", in concreto la scienza teologica speculativa. La famosa espressione della prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, secondo cui Kant ha dovuto superare (aufheben) il sapere per far posto alla fede, è quanto mai significativa. L'autolimitazione della ragione teoretica solo su oggetti della esperienza possibile creava uno spazio del tutto particolare alla ragione pratica e ai suoi postulati. La fede in Dio, nella libertà e nell'immortalità dello spirito umano non più giustificabili teoreticamente venivano compresi da Kant come «religione nei confini della pura ragione», essendo la religione, obiettivamente considerata, nient'altro che la conoscenza di tutti i nostri doveri morali considerati come comandamenti divini. Un nuovo rapporto tra ragione e fede veniva, così, proposto e veicolato. Precisamente quel rapporto che sulla doverosa distinzione degli ambiti perviene ad una loro effettiva separazione, rendendo inutile (e intollerabile) qualsiasi fondazione razionale (teoretico-speculativa) del motivo di fede, in quanto la fede appare fondabile e giustificabile solo ed esclusivamente in ambito pratico-etico. L'oscillazione kantiana tra un uso "assoluto" e uno "critico" della ragione sta alla base della tensione che il criticismo ha nei confronti dell'elemento religioso e la complessità dell'atteggiamento religioso dell'Illuminismo (cfr. Bosco, 1977).
Il tratto più singolare e comune all'epoca dei Lumi in tutti i campi fondamentali del sapere (la conoscenza della natura, la religione, la gnoseologia, la psicologia, la storia, il diritto, l'estetica) resta comunque il seguente: il guadagno di una nozione di ragione, creduta unica e immutabile, che nel proprio espandersi cognitivo in tutte le diramazioni dell'esistente non si disperde, ma ritrova sempre se stessa con maggiore consapevolezza e più intensa coscienza di sé, delle proprie forze attive e delle proprie potenziali capacità intellettive, protese al dominio del tutto. Di questo tutto essa pretende (e ritiene di) poter scoprire la forma che lo pervade e governa, offrendone una sua determinazione matematica attraverso il numero e la misura. È noto come dopo Kant e in reazione al suo pensiero si è espressa l'esigenza di una ragione filosofica che non assolutizzi la "dimostrazione" come metodo esclusivo del discorrere, ma sappia giovarsi di ciò che è "altro", "eteronomo" per ampliare l'orizzonte della propria navigazione veritativa, fino all'Assoluto. Non l'intelletto, ma la fede sarà la chiave sicura e completa. È il caso solo di rilevare le tendenziali istanze fideistiche che serpeggiano abbastanza chiaramente in queste posizioni (con F.H. Jacobi e J. Hamann): è forse l'esito acritico verso cui spinge, per contrasto, ogni eccessiva assolutizzazione della ragione.
Anche J.G. Herder (1744-1803) incontra la stessa questione e ne fa un motivo costante della sua critica all'Illuminismo: la ragione non è realtà originaria nell'umano, ma, pur nella sua originalità, è un prodotto e comunque realtà successiva nel dinamismo della vita cosciente dell'uomo. Così la ragione umana non è surclassata, ma contestualizzata, non impoverita, quanto alle proprie possibilità teoretiche, ma collocata al centro di una totalità più ampia, per la quale l'uomo è propriamente un essere "senziente", e questo ne riferisce opportunamente la sua natura e le sue storiche condizioni. La ragione non crea, ma è creata: questa acquisizione permette di precisarne la sua "gettatezza esistenziale", i suoi limiti e le proprie possibilità conoscitive. Anche la ragione è una funzione di forze organiche che la precedono e la rendono possibile: si tratta di forze invisibili e formative dalla cui incarnazione dipende lo svolgimento del corso e dello sviluppo sia della natura che della storia umana nella sua globalità.
Tuttavia, la ragione moderna che aveva trovato in Kant una delle sue più alte espressioni, con Georg F. Hegel (1770-1831) giungerà alla sua consumazione definitiva. Portando a termine il superamento delle aporie del sistema kantiano avviato da Fichte e da Schelling, Hegel punta decisamente sul carattere dialettico della ragione, che costituisce per lui, a differenza di Kant, la superiorità della ragione rispetto all'intelletto: essa non si pone di fronte ai concetti in modo esterno, ma li vive dall'interno nel loro passare l'uno all'altro. La "ragione hegeliana", in questo movimento, supera la distinzione tra soggettivo e oggettivo, stabilendo in se stessa l'identità di pensiero e di realtà: «L'autocoscienza, ossia la certezza che le sue determinazioni sono tanto oggettive - determinazioni dell'essenza delle cose -, quanto suoi propri pensieri, è la ragione; la quale, in quanto è siffatta identità, è non solo la sostanza assoluta, ma la verità come sapere» (G. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio , 1817, tr. it. Bari 1951 3 , p. 401). La ragione è quindi l'assoluto infinito che si realizza nel dispiegamento dei suoi momenti finiti non solo in sede logica ma anche in quella storica: «tutto ciò che è razionale è reale» (ibidem, p. 7).
Si assiste in tal modo alla costruzione di un sistema chiuso e perfettamente necessario in ogni sua esplicitazione, dove il margine di azione libera del soggetto finito è concretamente nullo. Tutto è sottoposto alla "furbizia" della ragione e tutto riceve un'interpretazione razionale. Con Hegel il progetto cartesiano di una ragione guida autonoma dell'uomo giunge al suo compiuto apogeo. Tuttavia, nello stesso tempo, il sistema hegeliano pone le condizioni per una sua fortissima contestazione: la ragione non è più a servizio del soggetto, ma è il soggetto una funzione della ragione.
Un analogo sviluppo può essere ravvisato nelle vicende della razionalità in campo scientifico, con un particolare riferimento al positivismo ottocentesco. Le nuove scoperte in campo tecnico e la discussione sull'origine della specie umana favorirono la sopravvalutazione della scienza quale vero sapere-guida del genere umano, fautore di un progresso irresistibile. Esemplarmente in Auguste Comte (1798-1857), la scienza viene considerata l'autentico erede della filosofia, come questa lo sarebbe stata della religione. Il movimento che qui si avvia giungerà senza soluzione di continuità sino alle discussioni del Circolo di Vienna, dalle quali nasceranno il neopositivismo logico e il razionalismo critico, concentrate nell'esecuzione del programma di una "concezione scientifica del mondo". Il legame che unisce questi passaggi, e che è insieme la base per la loro revisione, è l'ambiguo atteggiamento verso la ragione: da una parte, si registra un uso ipercritico della ragione empirica nei confronti di qualsiasi speculazione filosofica, specialmente verso quelle di tipo metafisico; dall'altra si denuncia l'acritica fiducia nei confronti della ragione empirica stessa, come nel pensiero di Karl Popper, il quale con il suo programma fallibilista tenterà di dare una soluzione plausibile all'aporia.
IV. Il concetto "postmoderno" di ragione: tra ragione tecnica e "crisi" della ragione
Il passaggio dalla modernità alla contemporaneità, ormai generalmente indicato col nome di «postmodernità», è segnato da una radicale critica della ragione, di cui sono precursori indiscussi S. Kierkegaard (1813-1855), con la sua tenace difesa del "singolo", e soprattutto F. Nietzsche (1844-1900), per il quale «il mondo ci appare logico perché prima noi lo abbiamo logicizzato» (Opere, Milano 19792, vol. VIII/2, p. 72).
La post-modernità si comprende come epoca della "crisi" della ragione e della sua consapevolezza. Diversi e non sempre isolabili sono stati i fattori che hanno provocato tale situazione. Anzitutto è da menzionare la crisi della "ragione storica" (cfr. Penati, 1987), da intendere come diffuso sentimento generale - all'inizio del secolo XX - di sfiducia nei riguardi del progresso indefinito promesso dalla scienza e dalla tecnologia. Magistrali interpreti di questo disagio sono soprattutto alcuni grandi scrittori d'inizio secolo, tra i quali merita un ricordo R. Musil con il suo L'uomo senza qualità (1933). Con accentuato pessimismo essi sottolineano le scarse possibilità dell'uomo di incidere in modo positivo sulla sua storia e di ritrovare punti forti di orientamento per le questioni vitali dell'esistenza. In tale contesto, il prorompente avvento delle "scienze umane" (sociologia, etnologia comparata, antropologia culturale, ecc.), mettono a fuoco il pesante condizionamento culturale e storico sull'agire umano in generale e sulla ricerca scientifica in specie . In particolare, l'avvio della psicologia analitica di Sigmund Freud (1856-1939) impose la presa di coscienza collettiva della complessità dell'operare umano personale e sociale, spesso dominato anche da dinamismi inconsci, difficilmente controllabili con i sistemi razionali collaudati in precedenza.
Un'altra serie di considerazioni deve invece riguardare l'impatto sconvolgente prodotto sulla coscienza pubblica, e quindi su quella filosofica, dalle tragedie dei regimi politici totalitari, dalla seconda guerra mondiale, dai campi di concentramento con l'eccidio degli ebrei nella barbarie dell'Olocausto, dal progressivo irrigidimento dell'apparato statale sovietico (con il contemporaneo ripensamento in Europa del marxismo), dall'avvento della società consumistica con i suoi fenomeni di omologazione e di globalizzazione economica e mass-mediale.
In campo specificatamente filosofico, proprio negli anni Trenta, Edmund Husserl (1859-1938) denunciò con efficacia la minimalizzazione dell'orizzonte di ricerca e l'oscuramento delle questioni riguardanti la domanda di senso dell'esistenza umana operata dalla scienza moderna (cfr. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale , 1935-1936, postuma 1954). Ad Husserl farà eco Martin Heidegger (1889-1976), per il quale, invece, l'attuale deriva della "ragione classica" in "ragione scientifica", e quindi in mera tecnica, è da leggere quale prosecuzione inevitabile e dunque "destino" di quel modello di conoscenza stabilito proprio dal lógos greco che si vuole esattamente come dominio del pensiero sull'essere. Trattando gli enti come oggetti di manipolazione e sperimentazione, e riducendo l'essere a "fondo stabile" sul quale il soggetto può misurare la propria potenza pratica, nella tecnica trova la sua conclusione, per Heidegger, la metafisica occidentale dell'ontoteologia (cfr. La questione del pensiero, 1969). In tale ambito va pure ricordato tutto il dibattito, avviato da Max Weber, sulla "razionalità moderna" e sulle "nuove forme di razionalità", particolarmente acceso nella seconda metà del secolo XX (cfr. Tomasello, 1998).
Insieme a quella della "ragione storica", e trasversalmente a essa, decisiva è la crisi della "ragione scientifica", la cui comprensione è fondamentale per intendere la crisi della "ragione ontologica". Il Novecento si apre, infatti, con la messa in discussione della fisica e della matematica, quei "saperi" ai quali si era ispirata esattamente la ragione moderna da Cartesio a Kant: si tratta di una rivoluzione che investe l'intero ambito concettuale di queste due scienze. L'avvento della teoria della relatività di Albert Einstein sfalda alla radice l'assolutezza di tutti i concetti (tempo, spazio, velocità, ecc.) su cui era fino a quel momento fondata la fisica classica e la sua comprensione delle leggi naturali. I teoremi di incompletezza Gödel e la logica intuizionistica e costruttivistica di Brouwer sanzionano la dissoluzione dell'ideale dell'autofondazione del sapere matematico, in quanto l'ente matematico è riconosciuto quale prodotto di un'attività mentale costruttiva.
Intanto l'evoluzione della speculazione filosofica del secolo scorso portava alla ribalta nuovi stili teorici di pensiero. Anzitutto la grande svolta della filosofia del linguaggio, poi la corrente variegata dell'esistenzialismo, e infine la prospettiva della ermeneutica (cfr. D'Agostini, 1999), tutte prospettive di pensiero che insisteranno molto sui limiti del soggetto umano, predisponendo un processo di restrizione dell'orizzonte della attività critico-teoretico fino al limite imposto dal poststrutturalismo decostruzionista di Jacques Derrida (n. 1930): qui è chiara la volontà di sostituire definitivamente la riflessione della metafisica "logocentrica" della presenza con una forma di pensiero minimalista.
Semplici evocazioni, ma necessarie per comprendere adeguatamente le analisi offerte da J. Lyotard (n. 1924) nel suo testo La condizione postmoderna del 1979, riconosciuto quale terminus a quo della riflessione avviata sulla postmodernità. In questo saggio viene offerta un'immagine della società contemporanea nella quale si possono già verificare gli effetti dovuti al dissolvimento della ragione classica e dei suoi princìpi-guida. Perduta ogni centralizzazione dei processi sociali, la società è colta nella sua insuperabile frantumazione, con regole e linguaggi altamente specializzati, incapaci di una qualsivoglia comunicazione tra loro. In questa società i rapporti tra gli individui sono mobili e contemporaneamente complessi: si assiste ad una vera e propria diffusione di cellule "monadiche" e "nomadiche" che non si riconoscono più in alcun centro. Tutto scorre velocemente e nel vortice dell'incessante trasformazione di tutto, l'eterogeneità delle visioni del mondo, riferite ai vissuti singolari degli individui e dei gruppi, irriducibilmente autonomi, consuma quella "diffusa perdita di esperienza" che è alla base della crisi di senso e di orientamento di tutti e particolarmente delle giovani generazioni; a questo contribuiscono notevolmente anche le accelerazioni impresse alla vita quotidiana dagli sviluppi tecnologici che rompono il quadro di riferimento del passato. In tale contesto anche la condizione del sapere deve mutare. Bisogna prendere atto della fine delle "grandi narrazioni" (i grand récits), che davano il senso del vero e del giusto. Permangono solo i singoli e piccoli discorsi che non aspirano ad alcuna giustificazione universale perché si è persa proprio l'istanza regolativa dell'universalità.
Alla riflessione di Lyotard, di taglio socio-culturale, risponde in campo filosofico l'opera a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti Il pensiero debole del 1983, preceduta da quella a cura di A. Gargani La crisi della ragione nel 1979. Il "pensiero debole" non si presenta, innanzitutto, come una proposta, ma come lettura della crisi della ragione moderna: è un invito a una conversione di paradigma nell'atteggiamento filosofico di fondo. I suoi teorici non ritengono più praticabile la strada di una ricostruzione della ragione, ma sostengono l'ineluttabilità della fine della "forza" progettuale del soggetto metafisico moderno (propongono un suo "dimagrimento") e della ragione che su di esso si modellava. Senza rimpiangere il passato o sperare in una ripresa futura del pensiero metafisico, occorre invece prendere coscienza dell'impossibilità delle pretese della ragione classica, aprendosi a un modo nuovo di orientarsi nel mondo con una forte connotazione etica di responsabilità per l'"altro" e per il "diverso", ritenendo così di poter andare oltre la violenza omologante e uniformante della logica e della dialettica moderne.
Con pertinenza si può sostenere che lo sviluppo concettuale del pensiero debole si basa su una semantizzazione della "ragione classica" metodologicamente non esplicitata (cfr. Volontè, 1987). Per questo, la sua critica e la sua proposta - carica di non poco páthos - fa difficoltà a portarsi oltre le semplici affermazioni di principio, per la carenza dell'esecuzione del programma filosofico più urgente della contemporaneità: l'istituzione di un profilo post-cartesiano della ragione, alla cui esplicitazione il pensiero debole seppure in modo obliquo partecipa.
V. Il rapporto tra la ragione e la fede nella prospettiva cristiana: la posizione del pensiero cattolico e quella dei riformatori
Cattolicesimo e protestantesimo esprimono modi differenti di intendere il rapporto fede e ragione, ultimamente riconducibili alla loro diversa antropologia.
È superficiale liquidare la riflessione di matrice protestante sul tema, sommariamente, con l'etichetta di "fideismo". Sarebbe poco rispettoso della dialettica interna al mondo nato dalla Riforma. Distinguibile è, solo per esempio, la posizione dei riformatori, più equilibrata, da quella dei loro epigoni maggiormente animati da preoccupazioni di tipo apologetico contro gli avversari cattolici (cfr. C. Karakash, G. Vincent, G-Ph. Widmer, 1995). Per Lutero (1483-1546) la fede è un puro dono di Dio, a essa va data la priorità: «Dio crea la fede in noi e allo stesso modo la conserva. Per iniziare, egli dona la fede attraverso la Parola; e ancora attraverso la Parola la tiene in esercizio, la fa crescere, la rende salda e la perfeziona» (Commento alla lettera dei Galati (1535), I, 11-12, Weimarer Ausgabe , vol. 40/1, p. 130). La ragione deve essere sottomessa alla fede: la fede è infatti un dono soprannaturale, mentre la ragione, in quanto dono naturale, può esercitare la sua potenza solo sotto la sua guida. Anche perché, dopo il peccato originale, la ragione è stata consistentemente infranta e ferita, perdendo perciò la sua forza. Per questo una comprensione adeguata delle sferzanti espressioni di Lutero contro la ragione - definita anche «prostituta cieca del diavolo» -, richiede che vengano inserite nel quadro del suo forte "staurocentrismo": solo la "croce di Cristo" è rivelazione del Dio che salva l'umanità (e la ragione) dalla condizione di male in cui versa. La manifestazione del mistero di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo "rivelazione e nascondimento", il cui concentrato simbolico è appunto la croce del Figlio di Dio, dinanzi alla quale la ragione deve riconoscere i suoi limiti strutturali. Per Lutero bisogna attraversare l'"assurdo" della Croce per poter afferrare i raggi della luce di Dio. È necessario quindi un atteggiamento di radicale umiltà e di totale e cieco affidamento che nulla ha da spartire con i tentativi della ragione "naturale" di giungere con la sua presunzione e arroganza alla conoscenza del Creatore. La fede purifica allora la ragione, la quale, lasciata a se stessa, può provocare danni enormi in materia teologica. In sintesi, più che condannare la ragione, Lutero intende umiliarla, non per rigettarla ma per riformarla.
Anche per Calvino (1509-1564) la ragione è un dono creato da Dio, ma distinto dagli altri doni soprannaturali quali la fede, la giustizia. Il peccato però attacca e corrompe la natura umana e solo l'azione dello Spirito di Cristo può guarire e restaurare la ragione, che allora può esplicare le sue potenzialità e anche ricevere un ruolo nel campo della fede. Successivamente i teologi protestanti sottolinearono maggiormente il peso della fede e l'autonomia della conoscenza teologica, lasciando alla ragione lo spazio libero della conoscenza non-teologica. Veniva in tal modo favorita l'immersione totale della ragione - ormai sganciata dal riferimento metafisico offertole dalla fede -, nel campo dell'attività delle scienze, di cui si esalta così la tensione dialettica rispetto alla teologia e alla fede.
A motivo dell'influenza esercitata sulla teologia cattolica e su quella protestante del XX secolo, ricordiamo la posizione del teologo evangelico Karl Barth (1886-1968): l'esistenza di qualcosa come la fede è un radicale miracolo; l'uomo può aprirsi a essa solo in virtù della Parola di Dio e mai a partire dalle sue forze. Per questo Barth, soprattutto nella fase giovanile della sua ricerca, lascia trasparire come insormontabile la separazione tra la fede e la conoscenza di origine umana, condannando in modo molto severo ogni "teologia naturale", ogni tentativo di risalire a Dio con l'aiuto della sola ragione, criticando aspramente il principio teorico soggiacente a ogni impresa razionalistica circa l'esistenza stessa di Dio, cioè la "cattolica" analogia entis. Nelle opere della maturità, modificando leggermente il suo pensiero, egli afferma che la fede è un atto compiuto alla luce della ragione, benché resti in ogni caso escluso qualsiasi movimento verso la fede dipendente da un'evidenza diversa da quella che è la fede stessa ad offrire.
La posizione cattolica sul tema del rapporto tra fede e ragione trova la sua più chiara formulazione in due documenti del Magistero della Chiesa: la costituzione del Concilio Vaticano I Dei Filius (1870) e l'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio (1998). Quest'ultimo documento è espressamente dedicato al rapporto tra fede e ragione, del quale presenta una ricostruzione storica accurata sullo sfondo del tema dell'umana ricerca della verità.
Il capitolo IV della Dei Filius tratta in modo specifico dell'argomento (cfr. DH 3015-3020). Innanzitutto si afferma che la conoscenza umana si attua entro un «duplice ordine»: quello naturale e quello soprannaturale (duplex ordo cognitionis, non solum principio, sed obiecto etiam distincto). La ragione naturale ha una portata limitata e non le è possibile accedere ai misteri nascosti in Dio: anche dopo la rivelazione di Cristo questi misteri superano le capacità di comprensione dell'intelletto umano. Fede e ragione, però, in quanto provengono da un'unica causa, Dio, non possono trovarsi se non artificiosamente in contraddizione, anzi debbono aiutarsi a vicenda. La retta ragione, infatti, mostra i fondamenti della fede e può raggiungere una certa conoscenza in materia teologica, mentre la fede invera la ragione con i dati della Rivelazione, ampliando l'orizzonte della sua indagine cognitiva. Questa posizione verrà ribadita dall'intervento di Leone XIII con l'enciclica Aeterni Patris (1879), nel riproporre il modello tomista per il rinnovamento e il rilancio della teologia cattolica, intendendo così risolvere la vexata quaestio del rapporto tra filosofia e teologia: la fede è stella di orientamento di una ragione che, alla sua luce, si rettifica e offre il proprio contributo nella conoscenza della realtà.
In un contesto culturale profondamente segnato dal "nichilismo" e dalla rinuncia alla ricerca della verità, l'enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II ritorna sul tema del rapporto fede e ragione, riaffermando dal punto di vista cattolico alcune urgenze fondamentali. Nel dinamismo promettente dischiuso dalla "circolarità" di fede e ragione i pericoli nascosti nella "ragione tarlata" di alcune linee di pensiero recensite dal documento - l'eclettismo, lo storicismo, lo scientismo, il pragmatismo e il nichilismo - dovrebbero potersi superare. In una relazione armonica con la fede cristiana, la ragione umana dovrebbe trovarsi nella condizione ottimale per il suo esercizio, poiché la fede non blocca le legittime espansioni conoscitive della ragione a ogni livello, semmai stigmatizza i suoi eccessi, i suoi abusi, i suoi equivoci, quelle possibili degenerazioni che la storia ha in modo sofferto registrato e in nome delle quali gli stessi fautori della ragione autonoma oggi la vogliono così debole da risultare del tutto inconsistente. Ma una ragione troppo debole non orienta l'umano vivere, non aiuta nemmeno a riconoscere, almeno inizialmente, ciò che è umanamente vero e ciò che è solo illusione della mente. Non serve però nemmeno alla fede. Infatti: «è illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione» (Fides et ratio, 48). Da qui l'invito a tutti, teologi, filosofi e scienziati, perché permettano il riconoscimento delle oggettive capacità della ragione di ricercare e trovare la verità. Che la ragione "sia se stessa" è importante per la fede, perché un "credere senza ragioni" (cioè senza ragione) non appartiene di fatto alla storia della coscienza credente cattolica.
La tradizione cattolica registra dunque una nuova condanna del fideismo, quale atteggiamento che crede senza tenere in conto le esigenze della ragione umana, misconoscendone le potenzialità. La forma cattolica del credere cristiano meglio si percepisce attraverso la formula di fides quaerens intellectum (fede che cerca l'intelligenza del credere), rispondendo così alla richiesta dell'apostolo Pietro circa il dovere di «rendere sempre ragione della speranza che è in noi» ( 1Pt 3,15). Un rendere ragione che non è solo limitato all'azione caritativa, ma anche alla "testimonianza della parola", del lógos, della ragione. La fede non può scadere nel soggettivismo e nella privatizzazione intimistica, ma deve potersi dotare di un linguaggio attraverso il quale comunicare culturalmente e razionalmente. La fede e la ragione sono chiamate, pertanto, alla reciproca collaborazione, cominciando a superare la frattura moderna tra una fede considerata solo come "irrazionale" e di una ragione ritenuta alla sua altezza solo se "scientifica". Da qui l'importanza di recuperare il carattere "conoscitivo" della fede e il valore "sapienziale" - quindi non solo meramente tecnico - della ragione aperta alle questioni di senso (cfr. Colombo, 1999).
VI. La riconduzione dell'esercizio della ragione all'interno di un'antropologia compiuta, aperta alla trascendenza della fede
La questione del rapporto fede e ragione approda così dal livello epistemologico a quello, fondamentale e ultimo, che è "antropologico". La fede e la ragione, infatti, sono entrambe specifiche attuazioni dell'uomo che vive, soffre, gioisce, cerca un compimento felice dell'esistenza. Perciò devono sostenersi a vicenda: «la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell'uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso» (Fides et ratio, Proemio). Due ali per l'unico volo dell'uomo, in sé profondamente unito: fede e ragione restano espressioni diverse (benché armoniche) della tensione dell'uomo alla verità, del movimento intenzionale della coscienza umana verso la realtà. Proprio questa radicazione nell'uomo garantisce l'inevitabile "unità del loro attuarsi dialettico": in quanto atto della persona, la fede non è se stessa se non perché tiene conto di tutte le fonti e di tutte le forme di conoscenza che il soggetto ha giudicato "ragionevoli": razionalità scientifica, sapere estetico, sapienziale, morale, senza dimenticare quel sapere sempre implicato nell'ordinaria fiducia dell'altro. Ma anche la ragione, quale atto della persona, è se stessa solo dentro il ritmo di un'espansione conoscitiva del soggetto che giunge alla verità in quanto liberamente decide con responsabilità per essa, ultimamente affidandosi.
L'orizzonte antropologico appare perciò il contesto più adeguato per reimpostare e ricomprendere la questione della ragione. Molteplici sono i sintomi che sollecitano questa impresa: per esempio, i problemi connessi con la globalizzazione del mercato e la crescente disparità nella distribuzione delle risorse tra le popolazioni del nostro pianeta richiedono una riflessione sulla giustizia sociale che non può essere affidata alle logiche delle borse e della speculazione finanziaria di una "razionalità mercantile"; ancora, l'integrazione sociale tra le diverse culture non può essere esclusivamente sequestrata dalle logiche di fazioni sociali o dal capriccio di alleanze di convenienza, senza aver eseguito a monte un discernimento critico capace di esibire criteri intelligenti di decisione; infine, l'avvento delle biotecnologie e della sperimentazione genetica, se da una parte corona lo sforzo della ricerca scientifica, dall'altra apre pesanti interrogativi a cui la tecnica con la sua pretesa di autogiustificazione non intende e non può in ultima analisi dare risposta. È allora urgente riaprire il capitolo della competenza cognitiva della ragione umana e della sua capacità di fornire risposte ai tanti interrogativi che provengono dalla vita e dalla storia umana. Non basta dichiarare la "morte" della ragione classica per scongiurare il sorgere di inquietanti problemi che necessitano di una riflessione fondamentale.
Filosofia, teologia e scienza sono chiamate a operare in modo sinergico per istituire un profilo della ragione capace di infrangere il riduzionismo cartesiano della soggettività totalmente risolta nella res cogitans, precisando così che il soggetto di ogni conoscenza della verità è la coscienza umana e non semplicemente la ragione (cfr. Angelini, 1999), e analizzando i diversi modi (etico, estetico, religioso e simbolico) che mediano il rapporto tra la coscienza e la verità, nel gioco insuperabile dell'esercizio della libertà (cfr. Sequeri, 1996). In una parola, occorre ricondurre l'esercizio della ragione all'interno di un'antropologia completa, aperta ad un trascendimento che si compie ultimamente nella fede.
L'esistenza di una dimensione auto-trascendente nella conoscenza naturale è testimoniata dal fatto che l'uomo è un essere interrogante, un instancabile ricercatore della verità (cfr. Fides et ratio, 28). Una Verità che lo trascende infinitamente, lo supera incommensurabilmente, eppure perdutamente lo attrae. Egli pone perciò domande, di continuo, senza arrestarsi. Lo fa con tale radicalità, da diventare domanda a se stesso. Guadagnando poco a poco campo nella conoscenza di se stesso e del mondo che lo circonda, si riconosce "animale razionale", intelligente, con la capacità di intelligere, intus-legere, leggere dentro la vita e di legare (léghein) significativamente gli avvenimenti storici nella loro pluralità e tutti gli aspetti della realtà nella loro diversità e ricchezza, portando la responsabilità di dare ordine (conferire "essere" o precisare il posto nell'essere delle singole cose) a tutto, aiutando il reale a diventare cosmo, ad essere colto come un tutto, sfuggendo al non senso della frammentarietà e del disorientamento della libertà. Ma l'uomo è anche "animale linguistico", essere altamente comunicativo: ascolta e parla, annuncia e comprende, interpreta e si interroga, cerca risposte, indaga sempre oltre. La sua ragione è "ragione ermeneutica", ma non per questo condannata a restare imbrigliata nel conflitto delle interpretazioni senza mai pervenire alla conoscenza della verità (cfr. Botturi, 1997).
Viene comunque qui a galla quell' apriori innato della relazionalità che, se non venisse coltivato, potrebbe condurre l'uomo all'aporia di un'esistenza di frustrante autoripiegamento e di incomunicabilità, alla contraddizione di una vita defraudata dell'essere che è e pretende espressione: il dono che parla il linguaggio degli affetti, dell'amicizia (éros, philía), dell'amore (agápe). L'uomo è immerso nella natura, è un essere naturale, è corpo: occorre riconoscerlo contro ogni idealismo. Ma non è interamente in balia della natura, ne emerge infatti trascendendola, perché l'uomo è spirito incarnato: occorre affermarlo oltre ogni determinismo. Nella sua reale immersione naturale, egli è capacità di distanziamento e di effettiva alterità, è capacità di dare e di ricevere, è libertà di amare. Si potrebbe sintetizzare il felice guadagno con le parole della Fides et ratio: «ovunque l'uomo scopre la presenza di un richiamo all'assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori morali, nella persona altrui, nell'essere stesso, in Dio» (n. 83).
L'uomo è sì un essere interrogante, ma il suo interrogativo originario non è - come si ripete spesso a partire dalle affermazioni di Leibniz riprese da Heidegger - «perché c'è l'essere e non il nulla?». Non il "perché" del soggetto sta all'origine dell'inquietudine conoscitiva dell'uomo, ma piuttosto un'altra domanda, forse più radicale: «Man hu? Cos'è?» (cfr. Es 16,15). È la domanda della meraviglia dello sguardo che sa contemplare la realtà senza nulla imporle, lasciandola essere per quella che è. È la domanda grata di chi all'emergere di ogni realtà (cosmo o persona) si vede anticipato dalla vita in una promessa di felicità e gioia che lo invita ad agire amando, realizzando se stesso come persona tra persone nel mondo, nell'apertura al Dio trascendente, ultimo garante (e testimone nella credibilità storica del Cristo crocifisso e risorto) dell'infinita capacità d'amore insita nella libertà dell'uomo.
Che la coscienza umana sia capace di fare proprie le ragioni della scienza, della filosofia e della fede, è un'esigenza dell'unità della realtà e dell'unità della persona. La realtà non si lascia afferrare unilateralmente, chiede invece "sinergia" anche nell'approccio cognitivo, e questo almeno sotto tre specifici aspetti (cfr. Baronchelli, 1999): l'uomo tenta di descriverla in ogni suo movimento, dall'infinitamente grande dell'evoluzione cosmologica all'infinitamente piccolo delle particelle atomiche e subatomiche, attraverso la scienza; di contemplarla nella sua globalità di essere e nelle sue ultime strutture fondanti, attraverso la filosofia; di riconoscerla nella sua apertura interiore al Trascendente assoluto che ne permette il suo continuo evolversi verso sempre nuova ricchezza di vita e di essere, attraverso la teologia. Dal canto suo, la persona coglie l'esigenza di questa sinergia attraverso l'unità della sua risposta, nella fede, a Dio che si rivela, la cui Parola offre le ragioni che svelano il senso piò profondo di ciascuno di quei livelli.
Entro questa sinergia, imposta dunque dalla realtà e dettata dall'unità della coscienza umana che vi accede, sarà possibile ribadire il carattere cognitivo della fede stessa, quale vero principio epistemico, riscoprendo anche che l'orizzonte all'interno del quale si esercita l'attività specifica della sua ragione riflessa è più ampio di quello legato al "tecnicamente" manipolabile o allo "scientificamente" comprensibile. In particolare le questioni di senso impongono un'attuazione della ragione "non incurvata" o chiusa in se stessa, ma aperta e disponibile alla promessa di felicità e di giustizia che abita la soggettività umana.
Documenti della Chiesa Cattolica correlati:
DH 2765-2768; Pio IX, Qui pluribus, 7.2.1878, DH 2775-2777; Concilio Vaticano I, DH 3015-3020; Pio XII, Humani generis, DH 3892-3893; Gaudium et spes, 15; Donum veritatis, 10; Fides et ratio, 24-29, 36-48.
Opere di sintesi e voci di Dizionario: N. BOSCO, Razionalismo Illuministico, in DTI , 1977, vol. III, pp. 17-21; A. GUZZO, V. MATHIEU, Ragione, "Enciclopedia Filosofica", Edipem, Roma 1979, vol. VI, coll. 1051-1062; H. VERWEYEN, Ragione/fede, in DTF, 1990, pp. 887-892; C. KARAKASH, G. VINCENT, G-Ph. WIDMER, Raison, "Encyclopédie du Protestantisme", a cura di P. Gisel, Cerf - Labor et Fides, Paris-Genève 1995, pp. 1241-1279; R. FISICHELLA, O portet philosophari in theologia (I-III), "Gregorianum" 76 (1995), pp. 221-262; pp. 503-534; pp. 701-728; N. ABBAGNANO, Ragione, "Dizionario di Filosofia", a cura di N. Abbagnano e G. Fornero, Utet, Torino 19983, pp. 892-896; P. TOMASELLO, Razionalità, in ibidem, pp. 900-904; F. D’AGOSTINI, Breve storia della filosofia del Novecento , Einaudi, Torino 1999.
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