È noto che il fraintendimento esistente fra relatività e relativismo ha un’origine storica, e il saggio della ricercatrice Barbara J. Reeves, per quanto datato (1987), è uno dei rari studi a documentare in maniera convincente la tesi dell’origine politica di questo luogo comune (B.J. Reeves, “Einstein Politicized: The Early Reception of Relativity in Italy”, in T. F. Glick (ed.), The Comparative Reception of Relativity, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, Holland, 1987, pp. 189-229). Si tratta di un prezioso lavoro di ricostruzione storica del processo che ha condotto dal recepimento della teoria della relatività nei circoli accademici, al suo accoglimento nell’ambiente culturale e filosofico italiano, alla sua politicizzazione, e al suo impatto sullo sviluppo della fisica teorica nell’Italia del primo dopoguerra con la costituzione delle prime cattedre di Fisica Teorica in Italia.
In questo editoriale vorrei partire dai risultati della ricerca storica su questo fraintendimento, per valutare le sue presunte conseguenze sulla teologia cattolica del XX secolo. Anticipo le conclusioni: l’influenza del relativismo nella teologia cattolica non sembra sia dovuta alla Teoria della Relatività, teoria limitata al solo mondo fisico secondo le parole dello stesso Einstein. Tale influenza dovrebbe essere invece ricondotta al più generale processo di secolarizzazione del secolo scorso.
Un po’ di storia sui rapporti tra Einstein e il relativismo
Le dottrine avanguardiste come il futurismo di Marinetti e il fascismo, entrambe basate sul relativismo filosofico, ebbero un chiaro intento sovversivo, antigerarchico, e anticlericale nel primo dopoguerra.
Il perché di questo “anticlericalismo” in parte è legato alle reazioni verso il ruolo storico istituzionale che indubbiamente la Chiesa rivestì nella difesa della verità durante la crisi americanista e modernista, in parte è dovuto alla posizione della filosofia e della cultura relativista (supportata dal sistema politico) nei confronti della verità nel clima intellettuale del primo dopoguerra. In questo contesto storico non è da trascurare il ruolo rivestito dalle istanze di rinnovamento provocate dalle nuove scoperte scientifiche. Queste sembravano inaugurare una nuova “rivoluzione scientifica” che avrebbe condotto l’umanità ad acquisire una nuova visione del mondo.
Nel “Manifesto dei pittori futuristi” del febbraio 1910 Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) scrisse: «Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro…».
Nel manifesto del 1919 Marinetti scrisse: «Contro il Papato e la mentalità cattolica, serbatoi di ogni passatismo»; il poeta propose di: «Sostituire all’attuale anticlericalismo retorico e quietista un anticlericalismo d’azione, violento e reciso, per sgomberare l’Italia e Roma dal suo medioevo teocratico che potrà scegliere una terra adatta ove morire lentamente».
Ma per quale motivo questa forma di relativismo, collegata alla spinta “antigerarchica” e di rinnovamento sociale, assunse una connotazione anticlericale? In che modo questo anticlericalismo può aver influenzato negativamente il dialogo tra scienza e religione?
Occorre ricordare che il futurismo e il fascismo erano dei “relativismi in azione”. La contrapposizione tra relativismo e realismo, già esistente sul piano filosofico, dapprima si trasferì sul piano storico e politico, seguendo il percorso descritto da Reeves; ne seguì una nuova trasposizione filosofica, stavolta sul piano del dialogo tra scienza e religione. Si può affermare che il fraintendimento ebbe delle conseguenze negative nel dialogo tra scienza e religione, ma soprattutto degli effetti sociologici negativi che già alcuni colleghi di Einstein erano in grado di intuire. Joseph Ratzinger riporta un dialogo fra Heisenberg, Dirac e Pauli a Bruxelles nel 1927 in cui i fisici, discutendo delle affermazioni sulla religione fatte da Einstein, convenivano sugli effetti destabilizzanti per la società causati dalla separazione tra i domini della scienza e della religione (J. Ratzinger, Truth and Tolerance: Christian Belief and World Religions, Ignatius, San Francisco, 2004, pp. 138 e ss.). L’evidenza storica e sociologica conferma che tali conseguenze furono riconducibili non tanto alla chiusura della Chiesa nei confronti del discorso scientifico, ma piuttosto al più generale processo di secolarizzazione che caratterizza la società contemporanea.
È importante ricordare che la connessione tra il relativismo contemporaneo e il processo di secolarizzazione in corso da secoli possiede una forte impronta antimetafisica. Alcuni fanno risalire questo processo alla critica antimetafisica kantiana, altri lo fanno risalire alla Riforma protestante (B.S. Gregory, The Unintended Reformation: How a Religious Revolution Secularized Society, Belknap, Harvard University Press, 2012). Il cuore della questione sta nel fatto che tale sistema filosofico nega statuto ontologico alla verità, e ne afferma la “relatività” rispetto al “sistema di riferimento” (con leggi proprie) da cui questa verità emerge volta per volta: ad esempio, rispetto al contesto sociale e culturale del soggetto preso singolarmente o come parte di una data formazione sociale.
In questo processo, le verità di fede sono considerate un epifenomeno sociale e culturale, soggette alle leggi della storia. Seguendo questa prospettiva, non è concepibile l’idea di una unità del sapere teologico e scientifico, poiché scienza e religione sono due domini in contrapposizione. La spinta antimetafisica della post-modernità ha di fatto negato l’esistenza di un sapere stabile: nella sua analisi sulla metanarrativa François Lyotard (1924-1988) ha infatti distinto il sapere in “narrativo” e “scientifico tecnologico”, attribuendo carattere di stabilità relativa solo al secondo, un sapere fondamentalmente ipotetico perché composto di ipotesi soggette a verifica sperimentale, e stabile solo fino a prova contraria. La teologia sarebbe un sapere “narrativo” o meglio, una “metanarrativa” da guardare con scetticismo.
Queste brevi battute sul relativismo ci consentono, infine, di introdurre una importante distinzione tra relativismo e pluralismo. Il pluralismo è fondamentale per l’esistenza della società civile, e presuppone l’esistenza, l’affermazione, e la difesa della verità. Esiste però un pluralismo “relativista”, e un pluralismo “non relativista”: mentre il primo nega o svuota di contenuto la verità, il secondo afferma l’esistenza della verità e che essa può essere raggiunta attraverso strade diverse.
Einstein non era né ateo, né relativista
Einstein stesso negava esplicitamente che la relatività potesse avere un qualche effetto sulla religione. Einstein inoltre rifiutava di definirsi relativista, così come rifiutava di definirsi ateo.
Gli scritti del fisico documentano non solo che non fu relativista, ma neppure ateo. Holdon nel suo testo riporta un interessante aneddoto sulla rilevanza della relatività per la religione:
«Il fisico J. J. Thomson raccontava che l’Arcivescovo di Canterbury, Randall Davidson, fu ammonito da Lord Haldane “che la relatività avrebbe sortito un grande effetto sulla teologia, e che era suo dovere come Capo della Chiesa d’Inghilterra familiarizzarsi con essa. … l’Arcivescovo, che era uomo estremamente coscienzioso, si procurò numerosi libri sul tema e cercò di leggerli e [che] lo avevano condotto a quello che non è esagerazione definire come uno stato di disperazione intellettuale”. Quando Einstein visitò l’Inghilterra nel 1921, l’Arcivescovo di Canterbury lo cercò per chiedergli quale effetto avrebbe avuto la relatività sulla religione. Einstein replicò brevemente andando al punto: “Nessuno. La relatività è una questione puramente scientifica e non ha niente a che vedere con la religione”» (G. J. Holdon, The Advancement of Science and Its Burdens, Cambridge University Press, New York, 1986, pp. 107-108, mia traduzione).
In una conversazione con il diplomatico e scrittore tedesco anti-Nazista Hubertus zu Löwenstein durante una cena a New York, egli si dissociò esplicitamente dall’ateismo:
«In considerazione di tale armonia nel cosmo, che io, con la mia mente umana limitata, sono in grado di riconoscere, ci sono ancora persone che dicono che Dio non esiste. Ma ciò che veramente mi fa più arrabbiare è che mi citano a sostegno di tali opinioni» (M. Jammer, “Einstein and Religion”, Princeton University Press, 2002, p. 97, mia traduzione.).
A chi lo considerava ateo, Einstein replicava: «[…] l’opinione corrente che io sono ateo è basata su un grande equivoco. Chi giudica questo deducendolo dalle mie teorie scientifiche, le ha scarsamente comprese, sbaglia a capirmi e mi offre uno scadente servizio». Nel pensiero di Einstein, l’indagine scientifica del cosmo alla ricerca della verità non solo non elimina Dio, ma lo presuppone. Pare che egli si rivolse al suo assistente Ernst Straus con le seguenti parole:
«La scienza contrariamente ad un’opinione diffusa, non elimina Dio. La fisica deve addirittura perseguire finalità teologiche, poiché deve proporsi non solo di sapere com’è la natura, ma anche di sapere perché la natura è così e non in un’altra maniera, con l’intento di arrivare a capire se Dio avesse davanti a sé altre scelte quando creò il mondo» (H. Muschalek, “Gottbekenntnisse moderner Naturforscher”, 4° ed., Morus, Berlim, 1964.).
Questa ricostruzione evidentemente scagiona Einstein da eventuali interpretazioni anti-religiose, ma tale ricostruzione è facilmente replicabile anche per altri scienziati contemporanei allo stesso Einstein.
La Chiesa e la difesa della verità negli anni di Einstein
La Chiesa cattolica ha sempre espresso apprezzamento per la ricerca scientifica. Secondo la antropologia cristiana, l’uomo avverte il desiderio naturale di cercare la verità, inclusa la verità su Dio, e può giungervi attraverso l’osservazione della realtà (Costituzione Dogmatica Dei Filius, II, 1, del 1870).
La Chiesa di inizio secolo scorso aveva attraversato due “crisi” teologiche: la prima fu quella americanista, che si concluse durante il pontificato di Leone XIII nel 1899 (Leone XIII, lettera pastorale Testem benevolentiae del 22 gennaio 1899); la seconda fu la crisi modernista, che ebbe il suo epilogo con la condanna del modernismo da parte di Pio X nel 1907. Entrambe si manifestarono come prodromi di una mentalità che negava l’esistenza della verità, incoraggiava il soggettivismo e legittimava dissidenza e il relativismo dogmatico.
Mentre l’americanismo ebbe una limitata diffusione, il modernismo invece ebbe pesanti ricadute nel pensiero teologico. Il pontefice che si oppose con decisione al modernismo fu Pio X (1903-1914), il quale fu anche promotore di una grande riforma della Chiesa. Nella enciclica Pascendi dominici gregis dell’8 settembre 1907 Pio X definisce il modernismo come la summa di tutte le eresie. A partire dal 1 settembre 1910 fu in seguito richiesto a tutti i membri del clero di pronunciare il giuramento antimodernista Sacrorum antistitum, e tale giuramento rimase in vigore fino al 1967, quando Paolo VI lo sostituì con la recita del Credo.
Le affermazioni afferenti al modernismo si manifestavano come particolarmente pericolose per la fede, in quanto rappresentative di un relativismo in nuce. La opposizione al modernismo portò all’adozione di una linea “dura” nei confronti dei suoi esponenti, che in molti casi comportò la sospensione a divinis e la scomunica. Dopo la morte di Pio X (1914), successe al soglio pontificio Benedetto XV (1914-1922), il quale cercò la riconciliazione con i modernisti (alcuni dei quali incorsi nella scomunica) per ricomporre gli esiti della crisi. La polemica modernista si ridimensionò durante il papato di Pio XI (1922-1939), continuò anche durante il papato di Pio XII (1939-1958), e non può tutt’oggi considerarsi esaurita.
Va osservato che non tutto il prodotto intellettuale del modernismo va limitato alle proposizioni condannate dall’enciclica Pascendi dominici gregis, che riguardano il pensiero cattolico di sempre: grazie anche all’opera riformatrice di Pio X, la crisi portò a una profonda riflessione e all’avanzamento dello studio delle discipline ecclesiastiche secondo criteri scientifici e in armonia con la Rivelazione.
Pio X, l’astronomia, e la relatività
L’esame degli atti di papa Pio X evidenza che il pontefice non intervenne mai in materia di scienza. Questa circostanza può sembrare curiosa, dato il periodo particolarmente importante per il mondo della scienza: negli stessi anni Max Planck (1858-1947) formulò la teoria dei quanti (1900), Albert Einstein (1879-1955) pubblicò la teoria della relatività, e Joseph John Thomson (1856-1940), Ernest Rutherford (1871-1937) e Niels Bohr (1885-1962) svilupparono la moderna interpretazione atomistica della realtà fisica (1903-1913). Certamente lo sforzo pastorale del papa era impiegato su numerosi fronti, e se di fatto non vi furono pronunciamenti sul mondo scientifico, furono i fatti a parlare.
Giuseppe Sarto, futuro Pio X, aveva da sempre coltivato studi scientifici, con speciale riguardo alla matematica e all’astronomia: uomo di intelligenza scientifica fuori dal comune, aveva espresso la sua versatilità scientifica nella costruzione di meridiane e, una volta divenuto pontefice, seguì l’attività della Specola Vaticana, fondata dal suo predecessore. Qui, proprio durante il suo pontificato, numerosi sacerdoti-scienziati si dedicavano ai più recenti progressi delle scienze astronomiche lavorando anche su progetti di ricerca legati alla teoria della relatività.
Fu proprio Pio X a chiamare Johannes Georg Hagen (1847-1930), astronomo gesuita, a dirigere la Specola Vaticana in Roma. Hagen vi rimase fino alla sua morte; il suo apporto fu determinante per l’ampliamento, la riorganizzazione rigorosa dell’attività della Specola e il consolidamento del programma scientifico. I principali contributi scientifici di Hagen riguardarono lo studio delle stelle variabili, di cui egli preparò i primi atlanti e un trattato; si occupò anche di nebulose, di cui preparò un catalogo e di cui teorizzò l’origine cosmica come materia primordiale da cui le stelle si sarebbero condensate o andrebbero condensandosi; organizzò efficacemente la misurazione delle lastre della Carte du Ciel – un progetto internazionale di fotografia astronomica promosso dall’Observatoire de Paris nel 1887 – e la riduzione delle relative misure, portando a termine la pubblicazione del catalogo astrometrico per la zona assegnata alla Specola Vaticana. Dal 1904 fu chiamato a diventare presidente della Specola Vaticana l’Arcivescovo di Pisa Pietro Maffi (1858-1931), noto per la sua competenza nelle scienze astronomiche. Creato cardinale nel 1907, Maffi fu insegnante di fisica, matematica e scienze naturali presso il Seminario di Pavia, dove fece costruire l’Osservatorio Astronomico. Nel 1900 fondò la “Rivista di fisica, matematica e scienze naturali”. Rimase presidente della Specola fino al 1931. Fu grazie al suo lavoro che la Specola fu inserita nell’elenco ufficiale degli Osservatori incaricati di redigere la carta fotografica e il catalogo stellare Carte du Ciel su cui lavorò Hagen.
Uno scienziato, ma anche sacerdote, che lavorò sulla relatività fu Georges Eduard Lemaître (1894-1966). Ordinato sacerdote nel 1923, studiò matematica e fisica a Lovanio, e in seguito astronomia a Cambridge. Nel 1924 si trasferisce per perfezionarsi in astronomia con Harlow Shapley presso l’Harvard College Observatory e poi iscriversi al Massachusetts Institute of Technology, dove nel 1926 presentò la sua tesi sui campi gravitazionali secondo la teoria della relatività generale. Per i suoi studi (l’idea dell’espansione dell’universo da una “singolarità” iniziale) Lemaître può essere considerato uno dei padri della cosmologia moderna.
Pio XII e il relativismo teologico
Posizioni relativiste furono in seguito introdotte nella teologia dai promotori del cosiddetto “relativismo teologico” che incontrò l’opposizione di Pio XII e fu infine condannato nell’enciclica Humani Generis nel 1950 per la sua evidente dannosità, in particolare per la ecclesiologia e la cristologia. In queste fonti non si fa riferimento ad Einstein, né alla teoria della relatività.
René Latourelle illustra cosa sia il relativismo teologico nella voce del Dizionario di Teologia Fondamentale (R. Latourelle, “Relativismo teologico”, in Dizionario di Teologia Fondamentale, a cura di Fisichella R. e Latourelle R., Cittadella, Assisi, 1990, pp. 917-918). Esso non va anzitutto confuso con il pluralismo teologico. Il relativismo teologico è la diretta riflessione in campo teologico di un cambiamento culturale occorso della mentalità e della coscienza comune tra la fine dell’XIX e lungo il XX secolo: «la società moderna diffida di ogni affermazione e posizione che cerchi di aver presa sull’assoluto».
Secondo Latourelle, dal punto di vista religioso il problema del relativismo sta nel fatto che tratta tutte le differenze, anche le divergenze, come uguali. Karl Rahner e Herbert Vorgrimler definiscono il relativismo come una «forma di pensiero secondo cui l’uomo coltiva dei pensieri che hanno valore solo in funzione di un insieme determinato e definito (ossia la totalità della sua esperienza vissuta in un dato momento), accanto al quale esistono altri insiemi altrettanto validi». Tale prospettiva, logicamente insostenibile, consente la coesistenza e la validità di una affermazione e del suo contrario, e dà origine a «teologie che non stanno fianco a fianco, ma faccia a faccia. Il relativismo ha un aspetto seducente poiché sembra riconciliare le religioni e sistemi teologici opposti: tutti hanno ragione e nessuno ha ragione in maniera esclusiva». La problematicità del relativismo dogmatico, sia nella sua forma più radicale che in quella moderata, viene ben descritto nella prima parte della enciclica Humani Generis nel 1950. A partire da queste premesse, il relativismo dogmatico può anche tramutarsi in relativismo ecclesiale e cristologico. Secondo questa prospettiva avrebbe poca importanza la chiesa che uno sceglie: una vale l’altra, in quanto tutte sono una risposta alla ricerca di salvezza dell’uomo. In cristologia invece ci si definirebbe cristiani affermando sia che Cristo è solo un uomo, sia che è il Dio incarnato. In teologia fondamentale un esempio di prospettiva relativista è quella proposta dalla c.d. “teologia del kerygma” sviluppata da Rudolf Bultmann. Egli propone di mantenere le grandi categorie del cristianesimo (fede, rivelazione, salvezza) ma attraverso la demitologicizzazione, egli le svuota del loro substrato storico. Questa operazione può essere effettuata perché necessaria in chiave esistenziale: le verità di fede, così presentate, sarebbero meglio accette all’uomo di oggi (Joseph Ratzinger trattò in maniera magistrale il tema del relativismo teologico nella sua celebre conferenza in Messico nel 1996 intitolata Situazione attuale della fede e della teologia, e riprodotta in Osservatore Romano, 1 novembre 1996.).
Albert Einstein nelle parole degli ultimi tre papi.
Anche pontefici precedenti e successivi a Pio X nei loro discorsi manifestarono apprezzamento verso la scienza, e l’opposizione dottrinale fu (ed è ancora) verso il relativismo e non la teoria della relatività. Tornando proprio ad Einstein, si possono citare almeno tre discorsi di San Giovanni Paolo II. Il primo di questi fu il discorso per la commemorazione della nascita di Albert Einstein del 10 novembre 1979, in cui disse:
«Anche questa Sede Apostolica vuole rendere ad Albert Einstein il dovuto omaggio per il singolare eccelso contributo portato al progresso della scienza, ossia alla conoscenza della verità presente nel mistero dell’universo. […] Nell’occasione di questa solenne commemorazione di Einstein desidero riconfermare le affermazioni conciliari sull’autonomia della scienza nella sua funzione di ricerca della verità scritta nel creato dal dito di Dio. Piena d’ammirazione per il genio del grande scienziato, in cui si rivela l’impronta dello Spirito creatore, la Chiesa, senza interferire in alcun modo, e con un giudizio che non le compete, sulla dottrina concernente i massimi sistemi dell’universo, la propone però alla riflessione di teologi, per scoprire l’armonia esistente tra la verità scientifica e la verità rivelata».
In questo brano è chiaro l’apprezzamento per il contributo scientifico di Einstein, viene ribadita l’autonomia delle scienze, ma viene anche chiarito il ruolo della teologia. Il Santo Padre non negò che il caso Galileo avesse gettato un’ombra nel rapporto tra Chiesa e mondo scientifico, e per questo il Papa non esitò a chiedere perdono. Albert Einstein ricompare nel discorso di Giovanni Paolo II ai partecipanti alla sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze del 31 ottobre 1992. Il rapporto tra scienza e religione, rappresentato dal rapporto che ebbero con la chiesa le idee di Galileo ed Einstein rispettivamente fu oggetto di un altro discorso pronunciato da Giovanni Paolo II durante la visita pastorale in Sicilia, dove incontrò gli scienziati del centro “Ettore Majorana” l’8 maggio 1993. In questi tre discorsi è evidente l’intento del Papa di chiarire la posizione verso la scienza della Chiesa, che incoraggia tutti gli uomini a ricercare onestamente verità nel Creato, ricordando la legittima autonomia delle scienze nella ricerca della verità sul Creato e il ruolo importante ricoperto dal lavoro di Albert Einstein.
Nel 1991 anche l’allora cardinale Joseph Ratzinger si riferì ad Einstein, in particolare con riferimento al rapporto tra relatività e relativismo:
«La teoria della relatività formulata da Einstein concerne, come tale, il mondo fisico. A me sembra però che possa descrivere adeguatamente anche la situazione del mondo spirituale del nostro tempo. La teoria della relatività afferma che all’interno dell’universo non si dà nessun sistema fisso di riferimento. […] In un mondo senza punti fissi di riferimento non ci sono più direzioni. Ciò cui guardiamo come ad un orientamento non si basa su un criterio vero in sé stesso, ma su una nostra decisione, ultimamente su considerazioni di utilità. In un simile contesto «relativistico» un’etica teleologica o consequenzialistica diventa ultimamente nichilistica, anche se non ne ha la percezione. E quanto in questa concezione della realtà viene chiamato «coscienza», ad una più profonda riflessione, si mostra essere un modo eufemistico per dire che non c’è nessuna coscienza in senso proprio, cioè nessun «con-sapere» con la verità. Ognuno determina da solo i propri criteri e, nell’universale relatività, nessuno può neppure essere d’aiuto a un altro in questo campo, e meno ancora prescrivergli qualche cosa» (J. Ratzinger, “Coscienza e verità”, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Edizioni Paoline, 1991, p. 126).
In questo brano Ratzinger esprime il suo pensiero sul relativismo e sulle sue ricadute spirituali, ed è tratto da un saggio in cui egli descrive il rapporto esistente tra coscienza e verità nel dibattito tra natura della moralità e modalità della sua conoscenza. Ratzinger afferma che la coscienza non coincide con i propri gusti, non con ciò che è socialmente più vantaggioso, col consenso del gruppo o con le esigenze del potere politico e sociale, ma deve poggiarsi sulla verità. La verità è il problema attuale dell’individuo moderno, che ha eliminato l’idea di verità per sostituirla con quella di progresso. Il progresso diventa la verità. Ma così facendo si perde il senso della direzione, e in questo contesto tutto ciò che sembra un passo in avanti potrebbe ben essere anche un passo indietro (J. Ratzinger, ibidem, p. 125). Gli scritti successivi, come ad esempio Situazione attuale della fede e della teologia (1996) e Fede, Verità e Tolleranza (2003) consentono di situare il brano sopra proposto nel solco della critica di Ratzinger al relativismo. Il riferimento ad Einstein è pertanto puramente strumentale, e questo appare chiaro dalle parole di Ratzinger: si tratta di piani diversi della realtà (realtà fisica e dimensione morale dell’agire umano). Lo scritto ha quindi un chiaro un intento critico nei confronti solo del relativismo morale.
Il futuro Benedetto XVI insisterà molto nella sua predicazione e nella sua produzione letteraria sui pericoli del relativismo, coniando l’efficace espressione “dittatura del relativismo”. La critica al relativismo è una stata costante della predicazione di Benedetto XVI, così come lo fu nella predicazione di Giovanni Paolo II e come lo è oggi in quella di papa Francesco (ad esempio nella lettera enciclica Lumen Fidei, n. 25, e nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, nn. 64, 80, 167).
Conclusione
Si sarebbe avuto comunque il relativismo in teologia senza la relatività di Einstein? Tale giudizio richiede chiaramente un esercizio mentale impossibile: per supportarlo è necessario dimostrare l’esistenza di un nesso causale diretto o indiretto tra relatività e relativismo teologico che non è invece documentabile. Non si trovano infatti fonti teologiche critiche sul relativismo che al contempo ne attribuiscano la paternità ad Einstein. Purtroppo è vero che la diffusione del relativismo contemporaneo ha gravi effetti di impoverimento spirituale, e che tale relativismo sembra piuttosto riconducibile all’attuale processo di secolarizzazione. In questo processo la diffusione della teoria della relatività, che è una teoria solamente scientifica, non ha avuto alcun ruolo. E quindi la Chiesa che ruolo ha avuto? Chiediamolo ad Einstein: «Solo la Chiesa ha fatto quadrato sul percorso della campagna di Hitler per la soppressione della verità. Non ho mai avuto in precedenza un interesse particolare per la Chiesa, ma ora sento verso di essa una grande ammirazione, poiché la Chiesa sola ha avuto il coraggio e la perseveranza per difendere la verità intellettuale e la libertà morale. Mi trovo quindi costretto a confessare: ciò che io un tempo disprezzavo, ora io lodo senza riserve» (Time Magazine, 23 dicembre 1940, p. 40, riportato da M. Burleigh, In nome di Dio, Rizzoli, Milano, 2007, p. 249).