Florenskij tra scienza e conoscenza

Lubomir Žak

 

Riflessioni sull’«allargamento della ragione» proposto da P.A. Florenskij


Pavel A. Florenskij, pensatore di origini armeno-russe e pope ortodosso, è noto come uomo di straordinaria e da molti riconosciuta poliedricità. Infatti, egli è esperto in diverse discipline umanistiche e scientifiche: letteratura, filosofia, teologia, musicologia, teoria dell’arte, matematica, biologia, mineralogia, fisica, chimica e altre ancora. I suoi numerosi scritti trattano con ammirevole competenza e originalità tematiche del tutto disparate: dai temi della filosofia del linguaggio e dell’estetica a quelli della geometria e dell’insiemistica, dai temi della filosofia delle religioni e della spiritualità a quelli della fisica dei materiali plastici e della radioattività. Florenskij riesce a passare da un argomento a un altro con la naturalezza di un “grande polifonista”, fermamente persuaso che tra gli argomenti trattati non vi possa essere mai una distanza così grande da non poter intravedere i loro intimi nessi. Questi sono di natura strutturale, sussistendo una sorta di intreccio innato e originario tra tutto ciò che esiste, tra ogni elemento della natura organica e anorganica.
   

1. Contemplare il mondo come un insieme

Florenskij si convince dell’esistenza di tale intreccio sin dalla tenera età. Lo vive e lo assimila come esperienza, partecipata in prima persona, della reciproca compenetrazione e comunicazione tra gli elementi e i fenomeni naturali del mondo circostante. Come se all’interno di tutto ciò che esiste vi fosse un sottile e comunque percorribile ponte che connettesse il cuore di una determinata cosa, di un determinato organismo, di una determinata vita, con i cuori di tutte le altre cose, di tutti gli altri organismi, di tutte le altre vite.

Per provocare i filosofi e gli scienziati russi di orientamento positivista, Florenskij, riferendosi al romanticismo di Novalis, chiama tale percezione del reale “conoscenza magica”. La conferma che questo tipo di percezione non sia contrario alla scienza gli viene dall’incontro con N.V. Bugaev, suo professore di matematica nell’Università di Mosca, e con gli scritti di G. Cantor. Bugaev e Cantor rappresentano per Florenskij profeti e artefici della necessaria e ormai prossima svolta della scienza moderna da un’interpretazione riduttiva del reale a una sua visione unificante e organica, basata sul principio della discontinuità. Entrambi gli forniscono validi stimoli teorici per poter dimostrare matematicamente che tutto ciò che esiste, di dimensioni sia macrocosmiche che microcosmiche, è composto di numerosissimi piani (livelli) di funzioni e di processi tra i quali “regna” un unico “ordine”. Esso, come un’unica rete, unisce tutti i piani di una cosa e tutte le cose del reale; ed è perciò paragonabile a una sorta di “anima”, un universale turgor vitalis. Allo stesso tempo, grazie allo studio della filosofia greca (Eraclito, Platone, Aristotele…) e al confronto con Spinoza, Kant e l’idealismo tedesco (Hegel, Schelling…), ma anche grazie alla mediazione della teologia dei Padri della Chiesa, Florenskij sviluppa questa visione del reale nella prospettiva filosofico-teologica. Non sorprende se egli riconosce di essere guidato, nella ricerca interdisciplinare, da un unico desiderio: aprire «nuove vie per una futura e globale visione del mondo» [P.A. Florenskij, Autoreferat, in Id., Il simbolo e la forma, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 5].

Florenskij non ha dubbi: si tratta di una visione che, quanto alle intuizioni basilari, è nota già alle antiche civiltà, ai popoli primitivi e persino ai semplici contadini che vivono in stretto contatto con la natura. Purtroppo essa è stata abbandonata, come un’inutile superstizione, dagli uomini dell’età moderna, i quali, di conseguenza, non sono più capaci di occuparsi «di Scienza, ma di scienze; non di scienze, anzi, bensì di discipline». Il problema è che – come fa capire il pensatore armeno-russo –, avendo perso il legame vitale con la natura e non ammettendo che in essa, in ogni suo particolare, pulsi il cuore di tutto l’universo, gli scienziati dei tempi moderni si occupano spesso solo di questioni settoriali e accidentali. Di conseguenza, essi rinchiudono il sapere scientifico negli ambiti ristretti delle singole specializzazioni, contaminati da un pericoloso “atomismo mentale”, che impedisce loro di notare e di comprendere i legami vitali tra i fenomeni e le singole parti della natura.

Florenskij rimane fedele al desiderio di elaborare e diffondere una visione globale del mondo anche quando, dopo la rivoluzione socialista del 1917, inizia ad essere penalizzato da parte del nuovo regime per il fatto di essere sacerdote e, soprattutto, perché è uno straordinario testimone dell’attuazione del dialogo tra fede e scienza. Infatti, dopo la chiusura forzata dell’Accademica teologica di Mosca, dove ha insegnato storia della filosofia, e dopo una breve esperienza di docenza presso gli Atelier superiori statali di arte e tecnica, egli si dedica alla sperimentazione e alla ricerca scientifica: dal 1921 conduce ricerche per conto dell’Amministrazione centrale per l’elettrificazione della Russia, dal 1930 è vicedirettore dell’Istituto elettrotecnico K. A. Krug, dal 1931 è membro della Direzione centrale per lo studio del materiale elettro-isolante e, cosa straordinaria, in tutti questi incarichi mantiene l’approccio mistico al reale, al mondo, alla vita. Approccio che, si può intuire, è in lui intimamente connesso con la fede in Dio e con la persuasione – la stessa che ha fatto esclamare a san Paolo: «in Lui [Dio] infatti viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28) – che il mistero della presenza di Dio nel cuore del reale, ossia in tutto ciò che esiste, sia un dato di fatto che andrebbe preso sul serio anche dalla scienza. E Florenskij mantiene la stessa convinzione anche quando, nel 1933, viene arrestato, torturato e rinchiuso in un gulag staliniano. Alcuni mesi prima di essere fucilato, scrive al figlio Kirill in una lettera:

«Che cosa ho fatto per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà unica, ma in ogni istante o, più precisamente, in ogni fase della mia vita, da un determinato angolo di osservazione. Ho esaminato i rapporti universali in un certo spaccato del mondo, seguendo una determinata direzione, in un determinato piano, e ho cercato di comprendere la struttura del mondo a partire da quella sua caratteristica, di cui mi occupavo in quella fase. I piani di questo spaccato mutano, tuttavia un piano non annulla l’altro, ma lo arricchisce, cambiando: ossia con una continua dialettica del pensiero (il cambio dei piani in esame, con la costante dell’orientamento verso il mondo come un insieme)» [P.A. Florenskij, Non dimenticatemi». Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Oscar Mondadori, Milano 2006, p. 379-380].

Come si può intuire da quanto appena esposto, Florenskij s’impegna a elaborare un approccio al reale e una gnoseologia che, alla luce dei recenti sviluppi del pensiero filosofico e dell’epistemologia della scienza, possono a buon diritto esser considerati importanti esempi di un “pensiero complesso”. Ebbene, sono convinto che proprio lo studio del progetto del “pensiero complesso” (della concezione globale del reale, del mondo, della vita) di Florenskij rappresenti “la” via per approcciare in modo corretto la sua ampia opera, rendendo possibile avvicinare le principali intuizioni di fondo e comprendere l’impostazione speculativa del suo poliedrico pensiero.

   

2. Dalla complessità del reale al simbolismo ontologico

Secondo Florenskij il reale, il mondo concreto in mezzo al quale viviamo, rappresenta una sfida conoscitiva di prim’ordine. Ecco perché egli non si stanca di sottolineare che il reale e la sua conoscenza sono il presupposto indispensabile – cioè il punto necessario di partenza e di costante riferimento – di ogni attività umana, incluse l’arte e la scienza. Esso implica la necessità di predisporsi a «percepire l’effettiva esistenza di ciò con cui veniamo a contatto» [P.A. Florenskij, Bilanci, in Id., Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2001, p. 95.], da lui ribadita persino in una delle sue lettere dal gulag, in cui, rispondendo a una missiva della madre, afferma:

«No, neanche se fossi a Mosca parteciperei ai lavori, agli studi moderni di fisica; mi metterei piuttosto a occuparmi della cosmofisica, dei principi generali della struttura della materia, ma così come essa è data nell’esperienza reale, e non come la costruiscono in modo astratto partendo da premesse formali. Più vicino alla realtà, più vicino alla vita del mondo: questa è la mia tendenza» [P.A. Florenskij, «Non dimenticatemi», p. 284].

Il “realismo” di Florenskij non ha niente a che fare con il naturalismo o con correnti simili, appiattite su posizioni fisiciste o biologiste. Al contrario: la sua idea del reale è alquanto curiosa, in quanto inscindibilmente connessa con il tema del mistero. Egli, infatti, avvicina e studia il reale come chi si è abituato a prendere tra le mani una conchiglia e, tenendola vicino all’orecchio, vuole inabissarsi nei suoni che provengono dal suo interno. È così che fa già da piccolo ragazzo, quando a Batumi gioca con le conchiglie sulla riva del mare; ed è così che fa anche da adulto, al punto di riconoscere – senza paura di essere frainteso – che tutte le idee scientifiche che gli stanno a cuore vengono suscitate in lui dalla netta percezione del mistero presente nel reale. «Tutto ciò che non ispira questo sentimento» – scrive dal gulag – «non rientra affatto nell’ambito del mio pensiero», pur trattandosi di «un sentimento inspiegabile».

Va detto che questa percezione del reale non ha in sé niente di esoterico, ma è da comprendere alla luce della teoria del simbolo che Florenskij elabora e considera fondamentale per il suo pensiero. Essa dice che tutto ciò che appare, il fenomeno, non è altro che la porta verso un qualcosa di più grande che sta oltre, il noumeno, che è realmente presente nel fenomeno, fondandone l’essere (in quanto fenomeno) e dandosi a conoscere solo in e tramite esso. Una simile teoria vede nel reale un insieme di innumerevoli livelli o strati – paragonabile ad una cipolla fatta di tanti “veli” –, che sono interdipendenti e reciprocamente comunicanti e di cui si può dire che lo strato più “in superficie” ha il suo fondamento nello strato “nascosto” sotto di esso e che perciò quello più “in superficie” è il simbolo dello strato “nascosto”.

Un significativo esempio di tale descrizione della complessità del reale si trova nel saggio Macrocosmo e microcosmo, dove Florenskij approfondisce due temi, intimamente connessi: l’interdipendenza strutturale tra l’uomo e l’ambiente circostante (natura, cosmo) e la complessità dell’essere-uomo. Trattando il primo tema, egli afferma che tra uomo e ambiente (natura, cosmo) c’è il nesso di un reciproco determinarsi, compenetrarsi e interrelazionarsi, al punto da poter dire che l’uno è immagine dell’altro e che entrambi sono una cosa sola. Ciò porta a constatare che, se è vero che il rapporto tra uomo e ambiente è solitamente pensato come quello tra microcosmo e macrocosmo, è altrettanto possibile e vero anche il contrario. Infatti, sia l’uno che l’altro sono infiniti, perciò «l’uomo in quanto parte della natura è equipotente al suo intero, e lo stesso dicasi per la natura in quanto parte del mondo» [P.A. Florenskij, Macrocosmo e microcosmo, in Id., Il simbolo e la forma, p. 210]. Per dirla in altre parole:

  «Sia la natura che l’uomo sono infiniti, e per questo loro essere infiniti, e in quanto equipotenti, essi possono essere reciprocamente parte l’una dell’altro. Dirò di più, essi possono essere parte di se stessi e parti equipotenti tra sé e con l’intero. L’uomo è parte del mondo, ma allo stesso tempo egli è complesso tanto quanto lo è il mondo. Il mondo è parte dell’uomo, ma anche il mondo è complesso tanto quanto lo è l’uomo» [Ibidem].

Quanto poi al secondo tema, quello della complessità dell’essere-uomo, Florenskij ricorda che nel voler analizzare e descrivere l’uomo in quanto realtà composta di infiniti strati o livelli, non si può non tenere conto di categorie biologiche, psicologiche, misteriche e spirituali; e aggiunge:

«E allora davvero l’ingegno si confonde, la mente vacilla nel constatare l’infinita complessità dell’uomo; infinita, certo, poiché man mano che scendiamo dall’intero alle sue parti, dalle parti alle parti delle parti, e da queste ultime alle loro parti, non solo non notiamo semplificazioni, ma constatiamo, piuttosto, che la complessità non fa che aumentare. E per quanto crediamo di aver afferrato la complessità dell’atomo, a un secondo esame essa crescerà in maniera geometrica, dando la complessità del primo (dell’universo) per aritmetica. La complessità dell’uomo si schiude di fronte alla conoscenza come un baratro inesauribile, e tutto ciò che di essa sappiamo o, più precisamente, ci immaginiamo di sapere, è solo una goccia in rapporto all’oceano (…)» [Ibid., p. 211].

Se tutto ciò che esiste (il reale nel suo insieme e nelle sue parti più piccole) è un insieme composto di innumerevoli strati, va detto che lo strato più vicino, più accessibile rispetto a chi lo osserva, è la manifestazione in atto dello strato “nascosto”, che sta oltre e che, a sua volta, è anch’esso la manifestazione di un altro strato ancora, e così via. È evidente che una simile dinamica concatenazione fondativo/manifestativa degli strati del reale caratterizza ogni sua dimensione: quella biologico-molecolare, quella fisico-energetica, quella psico-spirituale, quella intellettiva ecc. E questa stessa concatenazione mette trasversalmente in comunicazione tutte le dimensioni del reale, cosicché il reale si può immaginare come un’unica e onnipresente rete di infinite e multiformi relazioni di interdipendenza dinamica. Una rete di comunicazione bidirezionale tra il “fuori” e il “dentro” (tra ciò che “appare” e ciò che sta oltre ciò che “appare”) di una cosa, di un organismo, di un oggetto, e soprattutto: una rete organicamente unita nel modo di un’opera d’arte.

Impostare la conoscenza (da quella esistenziale/pratica a quella specifica delle scienze) in questo modo non dispensa, certo, dal sudore del ricercare né protegge automaticamente dagli errori. Tuttavia, lo sforzo di un allargamento della ragione alla carità, possibile grazie alle predisposizioni conoscitive del cuore umano, è per Florenskij l’unica via per iniziare a vedere e ad apprezzare ciò che si dà alla conoscenza nella sua verità oggettiva: nel suo essere parte di un unico e vivente organismo di dimensioni empirico-metafisiche, un mondo creato e “tenuto in essere” da Dio Trinità. Non sorprende il fatto che Florenskij – senza voler confondere fede e scienza, religione e filosofia – consideri la spiritualità, intesa come formazione del cuore, la parte essenziale della gnoseologia. Infatti, affinché l’uomo sia in grado di raggiungere ed esercitare questo tipo di conoscenza, è necessario che pratichi l’“ascesi” della carità, che permette al cuore di manifestarsi nella sua potenzialità originaria.

 

Uno sviluppo del presente articolo è pubblicato dall'autore in "Divus Thomas" 119 (2016), 3, pp. 137-171.