I. Sacra Scrittura e visione scientifica del mondo: i principali nodi storici - II. La questione biblica e il progresso delle scienze - III. Il contenuto della Sacra Scrittura alla luce dell'analisi storico-critica contemporanea - IV. L'utilizzo delle scienze come discipline ausiliari nello studio della Sacra Scrittura - V. Alcuni aspetti del dibattito contemporaneo fra autorità delle Scritture e pensiero scientifico.
I. Sacra Scrittura e visione scientifica del mondo: i principali nodi storici
Il rapporto fra Sacra Scrittura e visione scientifica del mondo costituisce un aspetto particolare e assai rilevante del problema del rapporto fra scienza e fede. La sua corretta comprensione dipende, in prima istanza, dal significato che si attribuisce alla parola «scienza», ma contemporaneamente anche da un corretto significato attribuito alla parola «fede», riconosciuta come significante un atto di natura razionale, cioè un atto "ragionevole" e non un sorta di impulso irrazionale del solo sentimento o della sola volontà. La comprensione di tale specifica natura della fede è possibile ove si coglie il rapporto esistente fra verità, fede e ragione. Dal punto di vista concettuale un utile punto di partenza, a questo scopo, è offerto da quanto affermato nell'enciclica Fides et ratio, per la quale la ragione umana e la fede sono come le due «ali» con cui lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità (cfr. Proemio). La ragione umana si manifesta, in forma privilegiata, in due terreni: quello della filosofia, intesa come ricerca dei princìpi ultimi che fondano la realtà osservabile, e quello della scienza, intesa soprattutto come conoscenza rigorosa, basata sull'evidenza sperimentale e formulata in leggi di tipo matematico. Occorre chiarire subito che il concetto di scienza, in senso generale ed ampio, non si applica solo alle cosiddette «scienze positive», di tipo fisico, chimico o naturale, ma anche e soprattutto alle discipline di tipo filosofico, basate sui princìpi primi della conoscenza, nonché alle scienze di tipo storico, il cui criterio di verità si basa sulla certezza morale.
Per quanto riguarda la nozione di Sacra Scrittura, essa si ricollega a quella più generale di Rivelazione: la «Sacra Scrittura», infatti, è definita come fonte della Rivelazione (cfr. Dei Verbum, 7). Il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce la Sacra Scrittura in rapporto alla manifestazione di Dio nella storia e nella Rivelazione, facendo leva sull'evento dell'Incarnazione del Verbo, seconda Persona della SS. Trinità: «Nella condiscendenza della sua bontà, Dio, per rivelarsi agli uomini, parla in parole umane: "Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell'uomo, come già il Verbo dell'Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo" (Dei Verbum, 13)» (CCC 101). La Sacra Scrittura è dunque, allo stesso tempo, opera di Dio e degli uomini, e mantiene pertanto una stretta relazione con l'Incarnazione del Verbo: Dio si esprime nella Scrittura mediante parole umane che si riferiscono sempre alla Parola perfetta in cui Dio si è espresso da sempre e per sempre.
Definiamo quindi la «Rivelazione» come l'automanifestazione del mistero della volontà di Dio, «mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4)» (Dei Verbum, 2). Nell'ambito di questa automanifestazione, libera e gratuita, Dio si esprime nelle Sacre Scritture con parole umane, assumendo il linguaggio degli uomini, in modo che «nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro» (ibidem, 21). La Sacra Scrittura è dunque la Parola di Dio, ed in ogni sua espressione riecheggia la Parola di Dio come Persona, ossia il Verbo Incarnato (cfr. CCC 101-104).
1. Profilo storico del rapporto tra la Sacra Scrittura e le scienze . Il rapporto fra la Sacra Scrittura e la visione scientifica del mondo ha cominciato ad offrire elementi di vivo dibattito fin dai secoli III e IV a causa della natura di certe correnti filosofiche, come il relativismo scettico di Celso (II sec.) e la teosofia neoplatonica di Porfirio (233-305). Sia Celso che Porfirio posero in dubbio la natura divina di Cristo sulla base di alcune discordanze riscontrate tra i Vangeli. Le loro teorie furono ribattute rispettivamente da Origene (185 ca. -253 ca.) e Agostino (354-430).
Ma quando si pensa al rapporto fra scienza e Sacra Scrittura il pensiero corre subito al caso di Galileo Galilei (1564-1642). Il problema posto dallo scienziato pisano affonda le sue radici verso la fine del secolo XIV quando, a causa del declino della teologia e della filosofia scolastiche, si produsse nel pensiero occidentale una separazione prima tra scienza e filosofia, e poi tra fede e ragione. Le cause di questa separazione sono molteplici, ma risalgono fondamentalmente alla cadenza pessimista del nominalismo ed alla svolta "soggettivista" impressa alla gnoseologia. Il frutto di questa separazione fu duplice: da una parte, la ragione proclamava la sua autonomia, ma si vedeva poi subito preda dello scetticismo, già con Montaigne (1533-1592). Per sfuggire allo scetticismo nominalista, il pensiero umano si rifugiava nella fede come unico mezzo per conoscere con certezza la verità. Ma l'autonomia della ragione provocò nelle medesime circostanze anche l'effetto opposto, quello del razionalismo, inteso come sforzo per "razionalizzare", ossia rendere evidente e dimostrabile, sia la fede, sia la rivelazione, sforzo che troverà il suo primo radicale esponente in Spinoza (1632-1677).
Nel processo di messa in discussione della Rivelazione, e quindi della Sacra Scrittura, possiamo distinguere varie fasi, segnate da personalità di rilievo come Lutero, Descartes e Kant (per il ruolo svolto in proposito da questi autori, cfr. J. Maritain, Tre riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau , Brescia 1983). Lutero (1483-1546) si colloca in un periodo travagliato del pensiero, nel quale la ragione umana, avvolta dallo scetticismo della tarda scolastica di autori come Guglielmo di Ockham e Nicola di Autrecourt nei secoli XIV e XV, si rifugia esclusivamente nella fede (sola fide) e nel contenuto della Rivelazione. Lutero è un vigoroso anti-intellettualista, che considera la metafisica come la causa di tutti i mali e difende il "libero esame" della Sacra Scrittura, convinto che lo Spirito Santo assista e guidi l'intelletto di ogni fedele. In quegli stessi decenni, agli inizi del XVI secolo, si andavano affermando le scienze sperimentali e logiche, specie con F. Bacone (1561-1626) con una decisa presa di posizione contro la fisica aristotelica, sebbene ne restasse vigente il contesto concettuale, con non poche ambiguità che trascinavano con sé anche la critica alla metafisica, compresa adesso riduttivamente, ormai persa la mediazione del pensiero tomista e della migliore scolastica.
Ulteriori passi, nella costituzione del problema della Sacra Scrittura, furono dovuti al razionalismo di Descartes (1596-1650) e soprattutto all'Illuminismo, con la loro pretesa di elevare la ragione umana a misura di tutte le cose. Le correnti razionaliste di quel tempo influirono sull'interpretazione della Sacra Scrittura ad opera di Richard Simon (1638-1712) e successivamente, in seguito al dibattito tra razionalismo ed empirismo, la filosofia critica di Kant (1724-1804) entrò anch'essa nel merito dell'interpretazione dei Vangeli, soprattutto in chiave morale, dando luogo allo studio della figura di Gesù come grande Maestro morale.
Nel secolo XIX, mentre in Francia la ragione umana veniva sottovalutata dal fideismo e dal tradizionalismo (ad opera di autori come L.E. Bautain e A. Bonnetty), che basavano la certezza umana solo sulla Rivelazione divina, la stessa ragione fu assunta, invece, a regola assoluta ed universale del sapere dal razionalismo panteista degli Idealisti tedeschi, specie con Fichte, Schelling, Hegel e, nella teologia cattolica, con Hermes, Günther e Frohschammer. In questo periodo si posero i fondamenti delle scienze storiche e letterarie. In questo contesto l'interpretazione della Sacra Scrittura si fece problematica, perché venne posto con speciale radicalità il problema della «ispirazione» della Sacra Scrittura e della sua veridicità nei confronti dei dati forniti dalle scienze naturali e storiche, che cercavano di precisare il contesto storico e letterario della Bibbia. Sorse così, soprattutto ad opera degli epigoni degli idealisti, come Schleiermacher, Baur, Strauss, Wellhausen, la cosiddetta «questione biblica». Per tutti questi autori, iniziatori o sostenitori di ciò che è stato chiamato il «protestantesimo liberale», la Rivelazione è solo un momento nel processo di autoconoscenza dell'Assoluto, il quale è, quindi, l'autore della Rivelazione. In questo senso, la ragione umana non solo può comprendere i misteri di Dio, ma li può dimostrare. Riguardo la Sacra Scrittura, il protestantesimo liberale propugnò una critica storica implacabile, insieme ad una critica letteraria, che oscillava tra due estremi: la storia delle letterature orientali e la ricostruzione di uno "spirito nazionale". Se il primo estremo faceva considerare la Bibbia come una delle molte opere letterarie dell'Oriente Medio, il secondo dissolveva l'ispirazione in una generica compenetrazione nello spirito di un popolo.
Tanto il fideismo quanto il razionalismo idealista furono esaminati e respinti dal Concilio Vaticano I (1870) nella Costituzione Dei Filius (cfr. DH 3008-3020). Il Concilio Vaticano I ha affermato con decisione che fra i due ordini di conoscenza, la fede e la ragione, non vi può essere opposizione, giacché Dio è tanto l'autore della Rivelazione, quanto la Causa agente del pensiero umano. La ragione e la Rivelazione non possono che confluire verso un unico oggetto - Dio somma Verità - considerato da due punti di vista: a) per quanto concerne i misteri nascosti della sua natura intima ed il suo disegno provvidenziale, accessibili solo alla luce della fede (lumen fidei); b) per ciò che può essere conosciuto a partire dalla Creazione, in quanto accessibile alla ragione con la sua luce naturale (naturale rationis lumen).
2. Il sorgere delle scienze ed il caso Galilei. Nell'occuparsi dei rapporti fra fede e ragione, nel suo capitolo IV, l'enciclica Fides et ratio (1998) riserva una sezione alla storia della separazione, avvenuta nella cultura dell'Occidente, tra la fede e la ragione, facendo rilevare che tale separazione ha coinciso con la nascita del pensiero scientifico fisico-matematico (cfr. nn. 45-46). La fissura iniziale si è sempre più allargata, sino a trasformarsi in una vera e propria opposizione con il sorgere del razionalismo critico cartesiano.
A partire da Descartes, infatti, è sorto il progetto di ricostruire tutto il sapere filosofico sulla base del metodo empirico matematico: in altri termini, la metodologia conoscitiva della matematica e della fisica è stata elevata a paradigma della conoscenza umana in generale. Ciò ha comportato, anche se i primi difensori del nuovo metodo non se ne rendevano conto, un rifiuto della metafisica, e quindi la negazione della comprensibilità della fede. Questa dolorosa separazione è stata favorita da vari fattori, tra i quali si possono segnalare la difesa ad oltranza, da parte di alcuni settori "teologici", di un metodo scientifico antiquato, connotato irrimediabilmente dal ricorso alle auctoritates e dalla difesa del sistema astronomico tolemaico, che sembrava indissolubilmente legato ad alcune tesi metafisiche irrinunciabili; da parte dei novatores, l'esigenza, avvertita anch'essa come irrinunciabile, di stabilire un dominio di certezze al di là di qualsiasi possibile dubbio, basata sulla certezza ed universalità di cui sembravano godere le conoscenze fornite dal metodo empirico positivo.
Come ha segnalato Maritain (cfr. Sept Leçons sur l'être, Paris 1933), ciò equivaleva a sostituire la ricerca della verità con il desiderio della certezza, e quindi a porre come ideale del sapere filosofico non la contemplazione dell'essere, ma l'imporsi dell'evidenza (more geometrico demonstrata), sia nel suo aspetto empirico, sia nella sua dimensione deduttiva a priori, a partire da princìpi universalmente accettati. Il passaggio da questa posizione - preoccupata di giungere all'evidenza - alla soggettività del principio di immanenza è facilmente comprensibile: una volta accettato il principio di immanenza, è fin troppo semplice, poi, da una parte rifiutare la metafisica, e dall'altra considerare la Rivelazione come una autoconoscenza e non più come autodonazione trascendente il mondo.
In questo processo di messa in questione del conoscere umano e della natura della Rivelazione, la controversia suscitata da Galileo ha, tutto sommato, un ruolo secondario, ma è istruttiva ed esemplare per ciò che riguarda l'impostazione dei rapporti tra l'esegesi biblica e le scienze. In essa, infatti, si percepisce l'inevitabile conflitto che doveva necessariamente sorgere tra la scienza sperimentale e l'insieme di convinzioni, derivate da quell'interpretazione semplicistica dei fenomeni naturali offerta dalla fisica ereditata dall'epoca classica, come, ad esempio, l'esistenza di quattro elementi fondamentali (terra, acqua, aria e fuoco) oppure l'esistenza di una vis vitalis , per distinguere le cose animate (piante, animali) dalle inanimate. Alcune di queste convinzioni erano diventate, nel corso dei secoli, quasi dei punti di riferimento della vita quotidiana. L'immobilità della terra, infatti, e la sua centralità all'interno dei sette cieli che la sovrastavano, erano l'espressione astronomica di un'idea filosofica. La terra era il culmine della creazione divina, ma era, nello stesso tempo, distinta e lontana dal cielo. La terra era il punto più basso dell'universo e sopra di essa, a grande distanza, si aprivano le diverse sfere celesti mobili, e quindi l'«empireo», considerato la sede dei beati. La scoperta che questa non era la realtà delle cose, dovuta al progressivo affermarsi del modello copernicano, non rappresentava solo una rivoluzione astronomica, ma un cambio di riferimenti vitali. La terra stava adesso nel cielo, più esattamente nel terzo cielo a partire dal sole, ed il sole occupava il luogo centrale.
Le scoperte astronomiche permesse dall'impiego del cannocchiale da parte di Galileo, ebbero perciò una ripercussione immediata nella cosmologia e, quindi, sulla Sacra Scrittura, che sembrava favorire l'antica cosmologia. I dati raccolti dallo scienziato pisano non solo rendevano improbabile il sistema tolemaico , e quindi la fisica aristotelica, ma sembravano contraddire l'interpretazione letterale e fino ad allora indiscussa di certi passi biblici (cfr. Gs 10,12-13; Sal 19,5-7; 92,1 e 104,5; Gb 10,12-13: Qo 1,4-5; Sir 46,4; Is 38,7-8). Giudicata con la prospettiva del tempo, la controversia pone in evidenza la scarsa capacità, da parte delle strutture culturali già stabilite, di assimilare le nuove idee scientifiche e l'epistemologia che le accompagnava. La diffidenza con cui i filosofi scolastici ed i teologi accolsero la nuova cosmologia fa vedere fino a qual punto la scolastica aveva perso nel secolo XVI la sua caratteristica di philosophia perennis. Un tale apparato filosofico non soltanto non serviva più alla conoscenza scientifica, ma rimaneva "stretto" anche alla Rivelazione, che era ora compresa con meno profondità di quando non era stato all'epoca patristica e medievale.
D'altra parte, per emettere un giudizio equilibrato, occorre considerare che il contesto culturale europeo era in piena effervescenza, sotto lo shock, non ancora superato, della riforma protestante. I riformatori non avevano esitato, infatti, a ripudiare la metafisica e l'aristotelismo come responsabili della visione legalista dell'etica. Ciò induceva a vedere germi di protestantesimo in qualsiasi novità che si presentasse come anti-aristotelica. Non si può neanche dimenticare, infatti, che pochi decenni prima del Galilei era stato condannato al rogo Giordano Bruno (1548-1600) ed erano ancora vivi gli echi di quella condanna.
Il caso di Galilei è, come si è detto, paradigmatico, perché fa vedere in azione le componenti culturali di una separazione che perdura fino ai nostri giorni. È lo scontro fra un eccessivo "teologismo" ed una visione della scienza svincolata dai suoi presupposti gnoseologici. Sotto la pressione degli avvenimenti - sospetti di riformismo luterano, sconvolgimento della fisica astronomica tradizionale, polemiche contro l'intero sistema aristotelico -, si ricorse ad una soluzione frettolosa e che non rispettava le giuste esigenze della scienza quale la condanna e l'abiura, anche se Galilei, contrariamente a quanto una certa storiografia ottocentesca ha ideologicamente veicolato, fu trattato con grande umanità e comprensione.
Il fondo della questione, perciò, non è privo di interesse perché ci sembra confluissero in esso tre problemi di grande importanza. Il primo si riferisce alla necessità di stabilire i criteri ermeneutici della Bibbia nelle questioni apparentemente in contrasto con i dati delle scienze naturali. Il secondo problema era quello di fissare delle premesse gnoseologiche (il metodo) che consentissero di accogliere le nuove teorie astronomiche in una gnoseologia universalmente valida. Il terzo problema, il più spinoso secondo noi, era quello di mantenere la continuità filosofica fra il nuovo metodo scientifico e i fondamenti della metafisica. In definitiva, nella vicenda delle teorie dello scienziato pisano erano in giuoco la definizione e la permanenza di una philosophia prima.
3. Le affermazioni di Galilei sull'ermeneutica biblica. Il pensiero di Galilei per ciò che riguarda la Sacra Scrittura si trova condensato principalmente in due lettere: quella a Padre Benedetto Castelli, del 21 dicembre 1613, e quella alla Granduchessa Maria Cristina di Lorena, terminata nel giugno del 1615. Entrambe precedono le disposizioni disciplinari del sant'Uffizio del febbraio del 1616 e rappresentano in certo modo la preparazione della sua difesa. Nelle due lettere, più estesamente in quella alla granduchessa madre, Galileo espone la sua convinzione della compatibilità fra la Sacra Scrittura ed il sistema copernicano. Lo scienziato parte da una affermazione basilare: tra due verità non ci può essere contraddizione. Come dice nella missiva alla granduchessa: «Sopra questa ragione [la realtà del sistema copernicano] parmi primeramente da considerare, essere santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento; il qual non credo che si possa negare esser molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle parole» (Opere, Firenze 1968, vol. V, p. 315); ed in una forma più teologica al Castelli: «procedendo di pari dal Verbo Divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio [.] pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle parole diverso sembiante» (ibidem, pp. 282-283). La soluzione sta quindi nell'interpretare la Scrittura in un senso che si discosta da quello immediato e letterale, com'è il caso quando si dice che Dio ha occhi, mani, dita, oppure si pente, si adira, sente compassione.
L'ermeneutica biblica proposta dal Galilei poggia quindi su due punti fermi: l'inerranza della Sacra Scrittura e l'impossibilità di attribuire sempre un significato assolutamente letterale ai testi biblici (vedi infra, III). Implicitamente, inoltre, Galilei sostiene la compatibilità della scienza e della Rivelazione, quando afferma che non si può ricorrere al dato rivelato nelle questioni che non sono di fede. Infine lo scienziato italiano afferma che laddove non è possibile attribuire un significato assolutamente letterale alle espressioni scritturistiche, lo scrittore sacro si adatta al modo di parlare e di pensare comune e ordinario.
II. La questione biblica e il progresso delle scienze
1. Gli sviluppi nel contesto del progresso scientifico dei secoli XVIII-XIX. Sopite la questione suscitata dal Galilei e le vicende che l'accompagnarono, l'inerranza della Sacra Scrittura venne rimessa in discussione nella seconda metà del secolo XVIII ed ancor più nel secolo successivo. Il Concilio Ecumenico Vaticano I, al dare risposta al razionalismo ed al fideismo, stabilì anche la "verità fondante" di ogni interpretazione, segnalandola nella «ispirazione» della Sacra Scrittura. «Questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede della Chiesa universale proclamata dal santo concilio di Trento, è contenuta "nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte che, ricevute dagli Apostoli dalla bocca dello stesso Cristo, o trasmesse quasi di mano in mano dagli stessi apostoli, per ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto dictante), sono giunte fino a noi". Questi libri dell'Antico e del Nuovo Testamento, nella loro interezza, con tutte le loro parti [.], devono essere accettati come sacri e canonici. La Chiesa li considera tali non perché, composti per opera dell'uomo, sono stati poi approvati dalla sua autorità, e neppure perché soltanto contengono senza errore la rivelazione; ma perché, scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto inspirante), hanno Dio per autore e come tali sono stati trasmessi alla stessa Chiesa» (DH 3006). Il riferimento alla «canonicità» dei Libri sacri vuole qui indicare che la Chiesa, attraverso un processo di continuo confronto con la testimonianza degli apostoli e dei loro successori, si preoccupò fin dai primi secoli di riconoscere quali testi appartenessero al deposito della Tradizione apostolica, separandoli da altri scritti che non offrivano tale garanzia.
Le conclusioni relative all'«inerranza», o verità, della Bibbia, tratte da questa premessa, sono esposte nell'enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII (18.11.1893) che stabilisce i retti criteri di interpretazione di fronte alle opinioni del protestantesimo liberale ed agli eccessi del razionalismo. In questo documento si afferma che tra le scienze fisiche e la Sacra Scrittura non vi può essere contraddizione: «Nessuna vera contraddizione potrà interporsi tra il teologo e lo studioso delle scienze naturali, finché l'uno e l'altro si manterranno nei propri confini, guardandosi bene, secondo il monito di s. Agostino, di "non asserire nulla temerariamente, né di presentare una cosa incerta come certa" (De Genesi ad litteram imperfectus liber, 9, 30: PL 34, 233). Se poi vi fosse qualche dissenso, lo stesso santo dà sommariamente le regole del come debba comportarsi in tale caso il teologo: "tutto ciò che i fisici, riguardo alla natura delle cose, potranno dimostrare con documenti certi, è nostro compito provare non essere nemmeno contrario alle nostre Lettere; ciò che poi presentassero nei loro scritti di contrario alle nostre Lettere, e cioè contrario alla fede cattolica, o dimostriamo con qualche argomento essere falso ciò che asseriscono o crediamolo falso senza alcuna esitazione" (De Genesi ad litteram, I, 21: PL 34, 262)» (DH 3287).
L'enciclica stabilisce inoltre il retto criterio per comprendere come la Scrittura parla dei fenomeni naturali. Anche qui il punto di partenza è un testo agostiniano: «Notiamo in primo luogo che gli scrittori sacri, o più giustamente "lo Spirito di Dio che parlava per mezzo di essi, non intendevano ammaestrare gli uomini su queste cose (cioè sull'intima costituzione degli oggetti visibili), che non hanno importanza alcuna per la salvezza eterna" (De Genesi ad litteram, II, 9: PL 34, 270)» (DH 3288). La soluzione consiste nel ritenere che gli autori sacri abbiano scritto o in senso metaforico (quodam translationis modo) o secondo il modo di dire proprio della loro epoca (sicut communis sermo per ea ferebat tempora ). Citando s. Tommaso, l'enciclica aggiunge che gli agiografi hanno seguito ea quae sensibiliter apparent (cfr. Summa theologiae, I, q. 70, a . 1, ad 3 um ).
2. I problemi posti dalle scienze alla Scrittura nel secolo XX. I primi decenni del XX secolo hanno visto l'influsso dei criteri del protestantesimo liberale su alcuni teologi cattolici, sotto la spinta di una pretesa esigenza di aggiornare la Chiesa per adeguarla ai tempi. Le posizioni dei modernisti, come vennero chiamati i fautori di questo aggiornamento della Chiesa, erano singolarmente vicine alle tesi di Harnack, Norden, Gunkel, ossia dei rappresentanti delle correnti storiche, filosofiche e letterarie legate al protestantesimo liberale. Il pontificato di s. Pio X (1903-1914) si svolse sotto il segno del preciso chiarimento degli errori contenuti in molte tesi moderniste, ormai introdotte in vari ambienti cattolici. Per ciò che riguarda la Sacra Scrittura sono particolarmente importanti il Decreto Lamentabili (3.7.1907) e l'enciclica Pascendi (8.9.1907), che offre, tra l'altro, una sintesi delle varie forme di modernismo. Il Papa pone in evidenza il presupposto immanentista dei nuovi critici, i quali considerano la fede come qualcosa che sgorga unicamente dalla religiosità soggettiva dell'uomo e negano perciò la sua dimensione oggettiva e in certo modo razionale. Tale apriorismo, unito ad una ricostruzione anch'essa a priori dell'evoluzione del sentimento religioso, conduce alla negazione pratica dell'ispirazione e quindi dell'inerranza, riducendola semplicemente ad un'ispirazione letteraria (capacità di esprimere il sentimento religioso della propria epoca).
La Pascendi ed il decreto Lamentabili hanno soprattutto un carattere difensivo e di denuncia degli errori e delle conseguenze delle nuove idee. Lo stesso si può dire delle varie risposte della Pontificia Commissione Biblica (PCB) emesse in quegli anni. La risposta positiva alla sfida del modernismo venne data da una seconda enciclica di argomento esegetico, la Spiritus Paraclitus di Benedetto XV (15.9.1920). In tale documento il Romano Pontefice additava s. Girolamo (ca. 347-419) come esempio per gli esegeti e, confermando ciò che aveva detto Leone XIII, precisava che per le narrazioni bibliche di carattere storico non si poteva applicare il principio valido per i fenomeni naturali, e cioè che l'autore umano avesse scritto seguendo l'opinione corrente. L'enciclica non dava tuttavia le indicazioni necessarie per risolvere i dubbi, ma si limitava ad enunciare i criteri generali. Una risposta più completa ed esauriente, alla luce del progresso delle scienze ausiliari (archeologia, storia, filologia, storia comparata delle letterature, ecc., vedi infra , IV), venne fornita dalla terza enciclica biblica la Divino afflante Spiritu di Pio XII (30.9.1943). Qui si stabiliva il criterio decisivo per risolvere i dubbi riguardanti l'inerranza. Occorreva tener presenti nei vari casi le norme dei «generi letterari» in uso al tempo della redazione, con le loro regole, i precetti stilistici e gli artifici retorici. L'enciclica, confermando ciò che avevano insegnato i documenti precedenti, auspicava una maggior collaborazione delle scienze ausiliari con l'esegesi propriamente detta, in modo da poter ricostruire con maggiore probabilità il pensiero e la mente dell'autore umano. L'esegesi rimane così aperta a tutte le conclusioni scientifiche compatibili con il carattere soprannaturale della Sacra Scrittura. Qualche anno dopo, nel 1950, una nuova enciclica, la Humani generis , confermava l'insieme dell'insegnamento dei tre documenti precedenti, sottolineando con vigore, contro gli eccessi razionalisti de la nouvelle théologie, l'infallibilità di tutta la Bibbia, il valore del suo significato letterale, e l'importanza dei criteri derivati dalla natura particolare della Sacra Scrittura: analogia della fede, ricorso alla Tradizione, interpretazione del Magistero (cfr. DH 3887-3889).
L'esegesi critica della Bibbia si sviluppò molto a partire dalla fondazione della critica storico-letteraria. Si poneva perciò il problema di stabilire la misura, gli accorgimenti e le precauzioni che un esegeta cattolico avrebbe dovuto usare nell'applicare i metodi storico-critici nello studio della Bibbia. Una prima risposta a questo quesito fu data dall'istruzione della PCB Sancta Mater Ecclesia del 21 aprile 1964. L'istruzione si riferiva alla verità storica dei Vangeli, ma le sue affermazioni avevano una portata più generale. Nel citato documento si sostiene la legittimità dell'uso dei metodi della critica storica e letteraria, compresi quelli impiegati dalla «Storia delle forme» (Formengeschichte), con la cautela imposta dalla dipendenza dei metodi storico-critici da premesse filosofiche incompatibili con la Rivelazione e la fede e sempre tenendo presente il legame tra la Scrittura e la Tradizione , così come si sviluppa nei tria tempora traditionis: la predicazione di Cristo, la predicazione degli apostoli e quella dei loro successori nell'episcopato (cfr. DH 4402-4407).
L'apertura intellettuale verso tutti i metodi critico-storici o letterari, unita all'adesione alla Tradizione, viene solennemente sancita, nello stesso periodo, dal Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica Dei Verbum (1965). Il testo fondamentale è il seguente: «Poiché Dio nella Sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della Sacra Scrittura, per vedere bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione, che cosa gli agiografi in realtà hanno inteso significare e che cosa a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto tra l'altro anche dei generi letterari. [.] Però, dovendo la Sacra Scrittura essere letta e interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e alla unità di tutta la Scrittura , tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede» (Dei Verbum, 12).
Il periodo posteriore al Vaticano II ha assistito a due fenomeni principali: da una parte il succedersi incessante dei metodi di critica storica e letteraria (metodo sociologico, dell'antropologia culturale, psicologico e psicoanalitico), nessuno dei quali sembrava offrire una soluzione definitiva e convincente; dall'altra il diffondersi dei metodi linguistici, basati sullo studio del linguaggio, della semiotica e della teoria narrativa. Tutti questi fattori confluiscono nel Documento della PCB del 15 aprile del 1993, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa. In questo documento si afferma l'apertura della Chiesa a tutti i metodi compatibili con l'origine soprannaturale della Bibbia e, nello stesso tempo, la necessità dell'impiego del metodo storico-critico quale importante strumento di esegesi.
3. La compatibilità fra la Sacra Scrittura e le scienze nel contesto dei rapporti fra fede e ragione. Fra le principali verità da mantenere, nella Dei Verbum si ricorda che la Sacra Scrittura è la parola di Dio, in quanto scritta per ispirazione dello Spirito Santo; che la Tradizione e la Scrittura costituiscono il deposito sacro della parola di Dio, affidato alla Chiesa; e che, infine, la Rivelazione che la Sacra Scrittura contiene e offre è stata messa per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito Santo (cfr. nn. 9-11). La Rivelazione è il modo di manifestarsi di Dio: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito santo hanno accesso al Padre e son resi partecipi della divina natura» (Dei Verbum, 2). Esiste una Rivelazione naturale, nella quale Dio si manifesta mediante le opere della creazione, ed una Rivelazione soprannaturale e positiva, che si è data nella storia umana.
La Rivelazione soprannaturale comprende parole ed opere: «Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto» (ibidem). Questo disegno di salvezza corrisponde a un piano pedagogico, che predispone la rivelazione dell'AT come preparazione e "figura" del NT. Cristo, come Parola di Dio incarnata, è il vertice e la pienezza della Rivelazione; dopo di Lui, Dio non ha un'altra parola con cui parlarci, perché in Lui ha detto tutto. Cristo è «insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione» (ibidem). La comprensione della Scrittura si riconduce, quindi, alla comprensione del mistero del Verbo Incarnato, nel senso che tutta la Scrittura parla di Lui, e nel senso che la Scrittura non è se non un "prolungamento" dell'Incarnazione, nella quale il divino e l'umano si uniscono senza alterarsi né confondersi.
III. Il contenuto della Sacra Scrittura alla luce dell'analisi storico-critica contemporanea
Riceve il nome di «ermeneutica» dal verbo greco hermeneúo, «traduco, interpreto», la parte della scienza storica o letteraria che cerca di stabilire il significato dei documenti o dei testi, ossia cerca di porre in evidenza e rendere comprensibile ciò che l'autore ha voluto dire o ciò che un documento significa in un determinato contesto storico e sociale. Dato che la Bibbia è un libro scritto da autori umani ed con linguaggio umano, si possono applicare le norme dell'ermeneutica generale. Ma la Bibbia è, al tempo stesso, opera di un autore principale divino: «i libri sia dell'Antico che del Nuovo testamento - dirà la Dei Verbum al n. 11 - con tutte le loro parti, perché, scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa». Tale peculiarità deve essere tenuta presente quando si vuol proporre un'interpretazione, dato che l'intelletto divino è infinitamente superiore all'intelletto umano. Esistono perciò alcune regole ermeneutiche proprie ed esclusive della Bibbia, dovute alla sua origine divina. L'ermeneutica biblica studia l'insieme di tutte queste regole, sia le comuni o generali, sia le specifiche e particolari.
1. Il problema dell'ermeneutica. Nel linguaggio umano il significato di un testo, scritto od orale, è di solito unico. Affermare il contrario sarebbe fonte di errori e causerebbe incertezza nel lettore o ascoltatore. Tuttavia, nel caso della Sacra Scrittura, non si può escludere che Dio abbia voluto comunicare "più di un solo significato". Ciò non contraddice il fatto che il significato letterale sia uno solo, perché la molteplicità dei significati si basa sul fatto che essi sono internamente coerenti, non contraddittori, ma si collocano a diverse profondità. In ogni caso devono esserci, nel testo stesso o nella tradizione che l'accompagna, sufficienti indizi di una simile polisemia. La ricchezza di un testo biblico, pertanto, non si esaurisce nel senso o significato "letterale", che consiste in ciò che le parole di per se stesse indicano (prout verba significant res), ma si ricollega a una pluralità di significati analoghi, dando luogo alla polisemia della Bibbia, che è riflesso del carattere analogo (non univoco né equivoco) del linguaggio biblico.
L'esigenza quindi dell'interpretazione o ermeneutica è duplice: da un lato, è necessario stabilire quale sia il vero senso letterale delle parole; dall'altro, occorre scoprire quali e quanti sono i veri significati del testo ai vari livelli e dimostrare la loro coerenza e non contraddittorietà. Dal punto di vista della correttezza del testo, inoltre, l'ermeneutica è necessaria al fine di scartare i significati erronei che vengono proposti, e far risaltare così il senso letterale nel suo aspetto di testo primigenio.
Il necessario punto di partenza dell'ermeneutica biblica è la nozione di ispirazione: con essa il credente riconosce che il testo è allo stesso tempo opera divina ed umana. Dio, infatti, agisce negli scrittori sacri e per mezzo di essi, facendo sí che lo scritto rispecchi tutto e solo ciò che Egli vuol rivelare per la nostra salvezza. I criteri d'interpretazione corrispondono, perciò, a questa duplice natura, divina ed umana, della Scrittura (cfr. Dei Verbum, 12). Possiamo in tal modo distinguere alcuni criteri che provengono dalla natura soprannaturale della Bibbia, e che possiamo considerare come specifici o particolari, in quanto non si applicano a nessun altro libro. Sono necessari, inoltre, criteri generali o comuni, che provengono dalla Sacra Scrittura, considerata come qualsiasi altra opera letteraria, e cioè suscettibile di essere esaminata con criteri di tipo letterario.
2. La pluralità dei significati. Nel linguaggio umano le parole possiedono un significato naturale, determinato dalle convenzioni attive in ogni momento storico e dai rapporti con il contesto. Questo significato, che dipende dalla grammatica di una lingua e dall'uso abituale, si chiama «senso letterale». Può essere «letterale proprio», se si tratta di un discorso diretto e semplice, ovvero se non ricorre a particolari artifici letterari, o «letterale figurato», detto anche «metaforico», se presenta il ricorso a figure retoriche, come la parabola, l'allegoria od il paragone. Il senso letterale proprio è il significato normale delle narrazioni storiche; il significato letterale figurato è molto più frequente, invece, nella poesia e nei generi letterari di tipo parabolico o metaforico, appartenenti ai libri sapienziali e profetici, ma può essere presente, in forma sporadica, anche nei libri storici. Il significato letterale indica ciò che l'autore vuol dire direttamente, mediante il significato immediato dei termini usati.
Nella Sacra Scrittura esiste sempre un senso letterale: se così non fosse, l'autore principale avrebbe scritto parole sconnesse e prive di significato, cosa che ripugna evidentemente alla veradicità e alla santità di Dio. Il senso letterale è compreso e voluto dall'autore umano ed è la base sulla quale si fondano gli altri «significati» o «sensi». Questo senso letterale, oltre ad essere presente universalmente, è anche unico, perché altrimenti il linguaggio diventerebbe equivoco e ne risulterebbe una notevole incertezza al momento di stabilire il significato di un testo.
Oltre a quello letterale esistono però altri sensi. Va ricordato il «senso plenior » o «eminente», che solo alcuni testi presentano oltre al senso letterale. Si tratta di un senso che completa e specifica quello letterale, riferendolo ad un soggetto scelto in una molteplicità (ciò che spiega il nome di "eminente") oppure che conferisce al termine di riferimento una profondità e una pienezza speciali. Un esempio è quello di una proprietà che si afferma di molti individui, ma si applica in senso più proprio e completo (ciò che spiega l'aggettivo plenior) ad uno solo tra di essi. È il caso di Gen 3,15, quando Dio annuncia che stabilirà un'inimicizia tra il serpente e la donna (con articolo), tra la discendenza del serpente e quella della donna. Questa donna è direttamente ed immediatamente Eva, ma è anche un nome collettivo che indica tutte le donne, in quanto possono possedere una discendenza. Eppure, la presenza dell'articolo induce a pensare ad una donna in particolare. Se si tiene presente il NT, nella Lettera ai Galati s. Paolo afferma che Cristo nacque «da una donna» (Gal 4,4). Il nome «donna» si attribuisce, quindi, in modo eminente o più perfetto alla Madre di Gesù Cristo. Il senso plenior può essere ignorato dall'autore umano e venire manifestato, a posteriori, solo dall'unità della Sacra Scrittura e dalla connessione dei misteri della fede (analogia Scripturarum ed analogia fidei). Per affermare, infatti, che un testo possiede un senso plenior c'è bisogno di riferirsi a ciò che si conosce mediante altre fonti, che possono essere altri testi scritturistici o anche gli insegnamenti della Tradizione Apostolica.
Il «senso tipico» o «figurativo» è un altro significato o senso biblico che va affiancato al letterale: in alcuni casi è quello che si ricollega al parallelismo esistente tra persone, cose od avvenimenti nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Le persone, cose od avvenimenti dell'AT sono così «figure» o «tipi» (gr. typoi) delle realtà del NT. Il rapporto di correlazione si può stabilire solo se è rivelato dalla stessa Scrittura o dalla Tradizione, in modo particolare se su di esso vi è stato il consenso unanime dei Padri della Chiesa. Tra i vari esempi di senso tipico si può citare il discorso del Signore nella sinagoga di Cafarnao (cfr. Gv 6,22-65) quando rivelò che la manna era figura del vero pane del cielo o pane della vita, ossia della Eucaristia. In un altro momento della sua predicazione (cfr. Mt 12,38-40; Mc 8,11-12; Lc 11,29-32) Gesù stesso stabilisce un parallelismo fra le vicende di Giona (cioè i tre giorni trascorsi nel ventre del cetaceo) e quelle della sua morte e resurrezione. Allo stesso modo la Lettera agli Ebrei afferma che tutto ciò che si riferisce alla costruzione del Tabernacolo e dell'arca erano «ombre», ossia figure della realtà, che è quella del Corpo di Cristo, del suo Sacrificio e della Chiesa (cfr. Eb 8,5; 9,9 e 9,23). S. Paolo stesso rivela che gli episodi narrati nel libro dell'Esodo erano figura delle realtà cristiane: la Chiesa ed i sacramenti (cfr. 1Cor 10,6.11). Presso i Padri, ad esempio, l'arca di Noè è stata costantemente interpretata come figura del battesimo, e il sacrificio di Abele e quello di Melchisedec come una prefigurazione del sacrificio redentore di Cristo. Molti personaggi dell'AT sono per i Padri una figura di Gesù Cristo; tra i quali i più comuni sono Abele, Isacco, Giuseppe, Mosè, Giosuè, Davide, Salomone, Geremia, Giobbe. Ciò non vuol dire, ovviamente, che tutti gli aspetti della loro vita fossero una "figura" di Cristo, ma che l'aspetto più significativo della loro esistenza trova in Cristo la sua spiegazione più compiuta.
I tre sensi fin qui considerati - cioè il letterale, il plenior ed il senso tipico - sono sensi "del testo", in quanto sono voluti dall'autore umano (senso letterale) o divino (plenior e tipico). I Padri della Chiesa sono soliti parlare però di un senso della Sacra Scrittura che va al di là della lettera del testo e permette di penetrare nella realtà divina. Questo senso è di solito chiamato «senso spirituale», per distinguerlo da quello letterale. A volte il senso spirituale coincide con il tipico, ma in altre occasioni è un senso che l'interprete scopre alla luce della totalità della fede. In questo caso si tratta di un senso che deriva dall'applicazione di un testo biblico ad una situazione attuale, con certe sfumature di simbolismo e di allegoria. In questo senso, per esempio, si possono interpretare tutte le prescrizioni relative alla purezza ed impurezza legali, specialmente quelle che si riferiscono alle distinte forme di lebbra, come simboli del peccato in generale e specialmente del peccato contro la castità. A questa categoria appartiene anche la simbologia numerica. S. Agostino, per esempio, vede nell'invio dei discepoli "di due in due" un simbolo del doppio precetto della carità. Anche il fatto che i discepoli fossero 72 è per il vescovo d'Ippona un simbolo della perfezione del Nuovo Testamento rispetto all'Antico: 72 è infatti il risultato della somma 70+2, ossia sette volte (simbolo della perfezione) dieci (i comandamenti dell'Antica Legge) più il doppio precetto della carità. È evidente che questo senso deve essere impiegato con prudenza e moderazione, rispettando sempre il senso letterale. In questi limiti, il senso spirituale può risultare utile per le sue applicazioni di carattere pastorale.
3. Criteri e metodi per trovare il significato di un testo. Il principio fondamentale da tener presente è che la Sacra Scrittura è parte della Rivelazione, e che essa è stata affidata alla Chiesa. Il significato di un testo, quindi, è collegato alla totalità della Rivelazione in una duplice direzione: non vi può mai essere contraddizione tra due testi e un testo oscuro riceve luce da testi più chiari o da verità della Rivelazione meglio conosciute. Inoltre il testo non è slegato dalla Chiesa, perché è stato in essa ricevuto e da essa trasmesso. Come ricorda il Vaticano II, inoltre, occorre ricorrere alla Tradizione, dato che Scrittura e Tradizione costituiscono l'unica fonte della Rivelazione.
La Tradizione, rispetto alla Scrittura, ha una funzione esplicativa, difensiva e diffusiva. Nell'interpretare perciò il testo sacro, occorre sempre conoscere ciò che dice la Tradizione a proposito di un passo della Sacra Scrittura, consultando le fonti opportune. Tra esse bisogna citare, in primo luogo, le opere dei Padri della Chiesa e degli scrittori ecclesiastici. Fra le dichiarazioni del Concilio Vaticano I vi fu infatti anche quella che non è lecito interpretare un testo contro il consenso unanime dei Padri (cfr. DH 3307). Il Magistero successivo confermò tale asserzione e ne estese la portata, chiarendo che il parere anche di un singolo Padre merita fiducia, se si tratta di un autore che ripete o difende la dottrina ricevuta e non una sua opinione personale. È il caso, per esempio, di s. Atanasio, s. Basilio e s. Gregorio di Nazianzo nella controversia con gli ariani, quello di s. Cirillo di Alessandria di fronte ai nestoriani, di s. Agostino contro i Pelagiani, di s. Leone Magno contro i monofisiti o di s. Massimo il Confessore contro gli iconoclasti. Il consenso unanime dei Padri (quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est , come affermava s. Vincenzo di Lerins) è criterio certo della Tradizione. Così pure lo è il consenso unanime dei Dottori della Chiesa e dei teologi attraverso i secoli. Si possono menzionare come fonti della Tradizione anche le liturgie antiche, tanto in Oriente quanto in Occidente, specialmente la liturgia Romana, e l'arte sacra. Ricordiamo inoltre che esiste anche un'infallibilità della Chiesa in credendo : una verità creduta da tutti e dovunque, in modo ininterrotto, da tempo immemorabile, in unione con i legittimi Pastori, appartiene certamente al deposito della fede anche se non è stata definita dal Magistero. Si parla, in questo caso, del sensus fidei del popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, 12).
La Sacra Scrittura, la Tradizione ed il Magistero costituiscono un'unità tale che uno di essi non può sussistere senza gli altri (cfr. Dei Verbum, 10). Il deposito della fede, contenuto nella Rivelazione, è stato affidato alla Chiesa perché essa lo conservi intatto, lo conosca con sempre maggiore profondità, lo difenda dalle interpretazioni erronee e lo annunci agli uomini di tutti i tempi. Ciò vale in particolare per la Sacra Scrittura , come parte della Rivelazione medesima. Il suo senso corretto è quello che mantenne e mantiene la Chiesa, come dichiarato attraverso il suo Magistero, sia nelle sue forme solenni e straordinarie (Concili Ecumenici e Definizioni ex cathedra del Romano Pontefice), sia mediante le sue forme di esercizio ordinario ed universale, come nelle Encicliche e negli altri documenti del Papa o dei Vescovi in comunione con lui (cfr. Lumen gentium, 25).
Sono assai pochi i casi nei quali il Magistero ha proposto in modo definitivo il senso di un testo biblico. Si possono menzionare in proposito il decreto sul peccato originale promulgato dal Concilio di Trento (17.6.1546; cfr. DH 1510-1516), nel quale si afferma che il testo di Rm 5,12 si riferisce al peccato originale, commesso da Adamo e presente come proprio in ogni uomo, non per imitazione ma per propagazione (cfr. DH 1512). Vi è poi quanto affermato dal Concilio Vaticano I in merito ai testi di Mt 16,16-18 e Gv 21,15-17, per i quali si dichiara in che essi si riferiscono esplicitamente al primato universale di Pietro su tutta la Chiesa , primato che comprende anche l'infallibilità del suo Magistero (Pastor Aeternus, 18.7.1870, DH 3053). È invece più frequente il caso di testi biblici che vengono citati come punto di appoggio per insegnare una verità di fede, ma senza la volontà di definirne il significato: ne sono un esempio il testo del saluto dell'Arcangelo Gabriele a Maria (Lc 1,28: «Ti saluto, piena di grazia») e quello del cosiddetto protovangelo (cfr. Gen 3,15), addotti come fondamento biblico dell'immunità di Maria dal peccato originale, cioè della sua «Immacolata Concezione» (cfr. Pio IX, Ineffabilis Deus, 8.12.1854). In epoca più recente il Magistero ha svolto soprattutto una funzione di orientamento degli studi biblici, senza voler limitare il campo degli studi né la libertà di ricerca degli esegeti. Sono particolarmente significativi in tal senso i già citati due interventi della PCB del 1964 e del 1993.
La Sacra Scrittura si inserisce nel contesto globale della Rivelazione, ossia nell'insieme di tutte le verità oggetto di fede. Poiché Dio ne è l'autore principale, la Sacra Scrittura costituisce una unità a motivo, appunto, dell'unicità del suo Autore divino. Ciò significa che per chiarire il significato di un passo biblico si può ricorrere ad altre verità di fede o ad altri testi della stessa Scrittura. Questo modo di procedere, che costituisce un vero principio ermeneutico, riceve il nome di «analogia della fede» (analogia fidei) e, nel caso del ricorso ad altri testi interni alla Scrittura, si chiama «analogia della fede scritturistica» (cfr. DH 3016, 3887).
Fissati i criteri teologici, il campo che resta alla ricerca esegetica è assai ampio. Questa ricerca deve svolgersi secondo le regole della critica letteraria e storica. Il primo compito è perciò la fissazione di un testo criticamente sicuro (compito proprio della critica testuale). Quando si è stabilito il testo, occorre sottometterlo ad una lettura minuziosa ed attenta. Questa lettura deve effettuarsi sul testo originale e risolvere i vari problemi di ordine grammaticale e lessicale: struttura della frase e del periodo, ordine delle parole, significato dei termini utilizzati. Si tratta, in sintesi, di scoprire con la maggiore esattezza possibile ciò che l'autore umano ha voluto dire.
Le norme fondamentali di critica letteraria stabiliscono che il significato di un testo si può ricavare, e si deve ricavare, non solo dalla lettura del testo ma anche dalla considerazione del "contesto"; si tratta sia del contesto prossimo - ciò che precede o segue il testo - sia di quello remoto: cioè la struttura e la finalità di tutta l'opera o del particolare libro, le circostanze storiche nelle quali il testo fu concepito e redatto, le eventuali fonti alle quali attinse l'autore umano o i modelli che seguì o imitò, le altre opere o scritti dello stesso autore. È sempre molto importante stabilire il genere letterario del testo considerato, perché ogni genere letterario deve tener conto dei testi paralleli dello stesso o di altri autori per stabilire analogie di significato.
4. I metodi ermeneutici storico-critici. L'uso sistematico di questi criteri crea un "metodo" ermeneutico. Dato che i criteri esposti si basano sulle scienze storiche, i metodi relativi possono essere inglobati tutti sotto il nome di «metodo storico-critico». Come spiega il citato documento della PCB del 1993, «poiché la Sacra Scrittura , in quanto "Parola di Dio in linguaggio umano", è stata composta da autori umani in tutte le sue parti e in tutte le sue fonti, la sua giusta comprensione non solo ammette come legittima, ma richiede, l'utilizzazione di questo metodo» (EV 13, 2862). L'utilizzazione di questo metodo, in ogni caso, deve essere unita ad un attento discernimento, allo scopo di eliminare gli apriorismi filosofici che possono condizionarlo, dato il suo originario sviluppo in un contesto razionalista ed idealista.
Il metodo storico-critico è un metodo essenzialmente "storico" perché cerca di ricostruire, attraverso le fonti, i documenti, le particolarità letterarie, la storia della formazione di un testo. Si parla, in questo senso, di un "metodo diacronico". Esso si distingue dai metodi "sincronici", che cercano di stabilire il significato a partire dal testo così come ci è pervenuto, mettendone in evidenza i collegamenti, le strutture e le regole di redazione. Oltre al metodo o ai metodi diacronici, come si è detto, vi sono metodi sincronici, i quali non considerano la gestazione e la formazione di un testo, ma solo il suo rapporto con il contesto o la sua coerenza interna. Il documento del 1993 ne cita tre: l'analisi retorica, le teorie della narratologia e l'analisi semiotica. Il primo consiste nel rilevare e descrivere il significato e la funzione delle varie parti di un testo alla luce del proposito generale dell'autore; il secondo metodo si centra sulla natura e sul processo del racconto, mettendo in luce l'autore reale, l'autore fittizio, il lettore reale, il lettore fittizio ed il filo narrativo; il terzo, infine, cerca di identificare i personaggi e le idee che muovono una narrazione. Dal punto di vista metodologico, i metodi sincronici si avvicinano al testo con il minor numero possibile di presupposti e ne indagano la struttura, sia in superficie (contesto letterario, aspetti grammaticali e sintattici, risorse stilistiche, frasi fatte, ecc.), sia in profondità (elementi logico dimostrativi, contenuti e generi letterari, ecc.).
Questi metodi possono essere di utile complemento ai metodi diacronici e consentono di evitarne gli eccessi soggettivisti. Occorre però precisare che anche i metodi sincronici si sono formati a partire da gnoseologie o scienze del linguaggio di tipo immanentista (fenomenologia, positivismo, esistenzialismo, strutturalismo). I metodi sincronici esigono un'analisi particolareggiata del testo, fino ai più minuti elementi, ma non sempre giungono a stabilirne il significato in modo chiaro. Se non si basano su un realismo gnoseologico possono condurre a una sterile dissezione del testo.
Osserviamo infine che il documento della PCB del 1993 opera una distinzione tra "metodo", che è un sistema globale di spiegazione, ed "approccio", che è una visione parziale, o realizzata sotto una determinata angolatura. Tra gli approcci vengono citati in primo luogo il canonico, il ricorso alle tradizioni interpretative giudaiche, la storia degli effetti del testo. Altri approcci, dovuti al contributo delle scienze umane, sono: l'approccio sociologico, l'antropologia culturale, la psicoanalisi e la psicologia; esistono poi approcci contestuali, che cioè tengono conto delle necessità e del contesto dei lettori, come le prospettive operate dalla teologia della liberazione e dalla teologia femminista. Al termine di questi «approcci» il documento discuterà, in una sezione a parte, in cosa consista la «lettura fondamentalista» ed il fondamentalismo biblico (vedi infra, V.4).
All'interprete cattolico non si preclude alcuno di questi metodi od approcci al testo, ma egli deve esaminarli e valutarli criticamente, alla luce della loro compatibilità con la fede e con una retta concezione di Dio, del mondo e dell'uomo. Per questo motivo il documento manifesta chiare riserve riguardo gli approcci della teologia della liberazione e del femminismo e, soprattutto, quello operato dalla lettura fondamentalista, mentre il giudizio sugli altri metodi od approcci dipende sostanzialmente dalla particolare filosofia che essi collocano alla loro base e quale punto di partenza delle loro argomentazioni.
IV. L'utilizzo delle scienze come discipline ausiliari nello studio della Sacra Scrittura
L'utilizzo delle scienze, sia filosofiche che positive, non comporta pertanto alcun pericolo per l'interpretazione della Sacra Scrittura, se si mantengono chiari i rispettivi fondamenti e limiti. Non solo: le scienze vengono in aiuto all'esegesi biblica quali "discipline ausiliari", in quanto permettono di conoscere meglio il contesto geografico, storico e letterario del Libri Sacri. Si pone quindi la domanda: quali sono i requisiti che deve possedere una scienza per non contrastare con la Sacra Scrittura ? E quali requisiti deve possedere una scienza ausiliare?
Da quanto precedentemente detto, si ricava con facilità che il primo requisito richiesto ad una scienza, sia essa di tipo filosofico, sia di tipo empirico-matematico, è la compatibilità dei suoi presupposti con il contenuto della Rivelazione divina, considerata nel suo insieme, quale lettura della verità dell'uomo e del mondo alla luce della loro condizione creaturale. Ciò comporta a sua volta, come dato non questionabile, l'affermazione della possibilità, da parte del pensiero umano, di conoscere la verità e di trasmettere tale conoscenza. Occorre, in altri termini, aver superato il dilemma che si poneva Descartes circa il dubbio metodico. Accettare quest'ultimo equivarrebbe a situarsi in una linea di pensiero che sbocca inevitabilmente nell'immanentismo gnoseologico. La scienza corre il pericolo di essere in contrasto con la Rivelazione quando, ignorando i suoi limiti ed i suoi fondamenti, pretende di erigersi a unica forma di conoscenza o quando fissa nella "presenza a un soggetto" il punto di partenza del conoscere. Occorre aver chiaro che la verità, intesa come adaequatio rei et intellectus, è soprattutto l'adeguamento dell'intelletto alla res piuttosto che l'inverso.
In questo senso, l'affermazione che la scienza può solo conoscere il "come" delle cose, ma non il loro "perché" - affermazione che ha continuato ad avere buon gioco anche in un contesto neopositivista -, e che quindi la conoscenza umana sarebbe sempre e soltanto conoscenza di un modello, racchiude una negazione della possibilità della Rivelazione. Se la conoscenza umana è solo un autoconoscenza, si resta inevitabilmente presi nelle maglie di un soggettivismo privo di garanzie. Quanto si verificò storicamente con il razionalismo cartesiano, l'illuminismo, il razionalismo idealista ed il positivismo, può verificarsi oggi, in relazione all'esegesi, con alcuni usi della logica e delle scienze del linguaggio (semiotica, semantica, lessicologia e grammatica): anche in questo caso saremmo di fronte ad un razionalismo esacerbato che, basato su un dubbio metodologico, si limiterebbe ad affermare il "come se" delle cose, rifuggendo dall'affermazione ontica.
In linea di principio l'esegeta può ricorrere a tutte le scienze che "l'aiutino a capire il significato dei fatti". Ci siamo prima riferiti alla storia, all'archeologia, alla filologia, alla sociologia, alla psicologia; in una parola, tutto ciò che ci permette di comprendere meglio il pensiero di un autore, dalle sue circostanze storiche fino alla psicologia del suo subconscio, può offrire un aiuto, a volte molto utile, per meglio intendere un testo. Essere compatibili con la Rivelazione, la sua possibilità storica ed il suo contenuto, vuol dire per le scienze essere aperte alla trascendenza e non restare confinate in una pretesa autosufficienza intellettuale. In altri termini, si richiede che l'esercizio delle scienze non si nutra di un substrato razionalista o fideista, cosa che può essere evitata quando esse si mantengono all'interno del proprio oggetto formale e ne colgono l'apertura verso altri campi della conoscenza. Come caso particolare, è necessario che tali scienze siano aperte, dall'interno del loro metodo, all'irriducibilità del problema dei fondamenti, a livello gnoseologico ed ontologico, e ammettano in fondo l'elemento soprannaturale (nel caso specifico una rivelazione divina ispirata ed inerrante), per lo meno come possibilità. Occorre infine che le scienze ausiliari siano basate su una conoscenza ontologica (ens et verum convertuntur) e siano guidate da una gnoseologia metafisica, ossia rivolta all'ente in sé e in tutta la sua ampiezza, e non limitata al solo soggetto conoscente.
A questa fruttuosa interazione dinamica con la Scrittura possono partecipare non solo le scienze umane, storiche o letterarie, ma anche le scienze naturali. La più precisa conoscenza che esse ci danno del creato in tutte le sue dimensioni, da quella del suo sviluppo storico a quella della ricchezza dei suoi componenti, può aiutare la migliore comprensione della Parola di Dio scritta e trasmessa, purché i criteri prima segnalati vengano rispettati. Il loro ruolo è senza dubbio assai importante a motivo della grande quantità di conoscenze contestuali che esse, forse più delle scienze umane, sono in grado oggi di fornire. Allo stesso tempo non va dimenticato che il testo sacro ha come motivo di fondo la rivelazione delle verità che segnano i rapporti fra l'uomo e Dio e solo secondariamente quella delle verità concernenti la realtà materiale in se stessa, oggetto delle scienze naturali. Queste ultime verità vengono lette quasi essenzialmente all'interno di una dimensione antropologica, che troverà la sua pienezza in una dimensione cristologica, anch'essa normativa dei rapporti fra Dio e il mondo creato.
L'idea che ogni conoscenza, anche quella derivante dallo studio della natura, poteva venire utilizzata dal teologo per una corretta esegesi apparteneva già alla tradizione patristica ed è rintracciabile nella teologia medievale. Nel contesto epocale di Tommaso d'Aquino tale fonte di conoscenza era principalmente quella derivante dalle opere di Aristotele, che egli assumeva come punto di riferimento per la "filosofia naturale" piuttosto che per le sue riflessioni su Dio (per le quali l'Aquinate si rivolgerà più volentieri al neoplatonismo). L'impiego fatto di tali conoscenze nella teologia, ed in misura minore, ma significativa, anche nello studio della Scrittura, può ben riepilogarsi nella nota affermazione che «coloro che si servono degli insegnamenti filosofici nella sacra dottrina, indirizzandoli in ossequio alla fede, non mescolano l'acqua con il vino, ma, piuttosto, trasformano l'acqua in vino» (Super librum Boethii de Trinitate , q. 2, a . 3, ad 5 um). Prima di lui, così lo aveva espresso Agostino: «Quanto più si progredisce nella scienza, più si ammirano le Sacre Scritture, poiché la loro profondità le fa insondabili» (Ad Orosium contra Priscillanistas, n. 9).
V. Alcuni aspetti del dibattito contemporaneo fra autorità delle Scritture e pensiero scientifico
1. La metafora dei due "Libri". Nella tradizione teologica cristiana accanto al "Libro della Scrittura" ha trovato spazio, sebbene con diverse vicissitudini, la metafora del "Libro della Natura". Sorta in ambito patristico e presente in s. Agostino, essa riecheggia poi nella modernità con Bacone, Galileo e Keplero per giungere fino ai nostri giorni, non senza qualche ambiguità, attraverso la teologia naturale del Settecento e dell'Ottocento. La metafora ha riacquistato oggi interesse nelle riflessioni filosofiche di alcuni scienziati ed è stata ripresa recentemente anche dalla Fides et ratio (cfr. n. 19). Nella prospettiva dei rapporti fra Sacra Scrittura e pensiero scientifico può essere utile farne riferimento. Si tratta di due libri certamente diversi ma non indipendenti, perché hanno lo stesso Autore. È diverso il loro linguaggio - quello della Natura è scritto con i caratteri della matematica e della geometria, come ricordava Galileo nel Saggiatore -, ma la conoscenza dell'uno diviene importante ai fini di una migliore comprensione dell'altro. La persona umana è costitutivamente capace di comprendere entrambi i linguaggi e di riconoscere la necessità che essi convergano in un sapere armonico ed unitario. La teologia medievale affiancherà a questi due libri un terzo, il "Libro della Croce", per ricordare che l'uomo, a motivo dell'oscuramento recato dal peccato, non è sempre in grado di leggere correttamente il libro della Natura: la comprensione della Rivelazione, il cui principio ermeneutico centrale resta il mistero pasquale di Gesù Cristo, dovrà sempre fare i conti con il paradosso e con lo scandalo della croce.
In alcuni momenti della storia, separare la "finalità" dei due diversi libri può essere sembrata la strada più facile per evitare conflitti fra scienza e Scrittura: il primo libro - come ricordava il card. Baronio all'epoca del caso Galileo a proposito delle scienze astronomiche - doveva dirci "come va il cielo", mentre il secondo "come si va in cielo". Questa strategia, sebbene potesse a prima vista servire per fare un po' d'ordine, alla lunga avrebbe offerto il fianco al sorgere di ambiguità e di pericolosi malintesi. Il libro della Natura parla dello stesso Dio che la Scrittura dice aver creato il cielo e la terra, e per coloro ai quali non sono ancora giunti né il messaggio biblico, né la conoscenza del Vangelo, è un libro che certamente possiede una dimensione salvifica (cfr. At 17,26-28; Rm 1,20-22 e 2,14-15; Lumen gentium , 16). Il libro della Natura prepara l'uomo ad accogliere il contenuto del libro della Scrittura (cfr. Fides et ratio , 36) e quest'ultimo illumina, con la grazia della Rivelazione divina, il senso ed il significato ultimo di quanto appartiene alla Natura, rivelando la verità più profonda della creazione. Perché il riferimento al "Libro della Natura" sia oggi significativo all'interno del dialogo fra Sacra Scrittura e scienze naturali è dunque necessario che, pur nel rispetto della autonomia metodologica e dei diversi linguaggi, la metafora sia capace di cogliere anche i collegamenti e le reciproche implicazioni sottese dai due libri.
2. Opportuni chiarimenti in sede esegetica. Un secondo aspetto degli odierni rapporti fra scienze e Scrittura riguarda lo scarso rigore esegetico con cui si affrontano alcune questioni bibliche in rapporto a presunte incompatibilità con i risultati delle scienze. Con una certa frequenza alcuni autori sottolineano il valore "mitico" di buona parte dei racconti biblici, associando a questo aggettivo non tanto l'idea di una conoscenza arcaica trasmessa e mediata attraverso importanti categorie narrative e culturali, quanto piuttosto quella di racconti fantasiosi ed ingenui, di carattere popolare, dai quali non ci si deve preoccupare di estrarre un contenuto veritativo stabile e coerente. Si tratta in fondo di un altro esempio di come trovare una facile via d'uscita a supposte incompatibilità: la conoscenza scientifica non "provoca", né "risulta provocata", dal messaggio biblico, perché quest'ultimo avrebbe un valore soggettivo e totalmente allegorico. Le narrazioni della creazione del cosmo, della prima coppia umana, la loro condizione di intimità con Dio e la triste esperienza del peccato, l'episodio del diluvio, la vocazione dei patriarchi e gli avvenimenti più antichi della storia della salvezza, sarebbero immagini senza alcuna corrispondenza con la storia reale dei popoli e delle culture.
Una corretta esegesi non può assumere acriticamente una simile concezione del mito. Il senso allegorico, ove presente, non cancella la presenza di verità che l'autore sacro ha voluto trasmettere con quelle narrazioni: l'umanità può conoscere il messaggio veritativo e salvifico che esse contengono, senza che si resti imprigionati in un circolo ermeneutico chiuso, ove il continuo rimando simbolico finisce col non dire più nulla, perché incapace di rimandare al di là di se stesso. Assumere il valore "storico" di molti racconti biblici, ove così venga esplicitamente chiesto dal Magistero della Chiesa, non implica d'altra parte che tutti i singoli fatti narrati siano precisamente accaduti nel modo indicato dal testo sacro, bensì che i racconti abbiano il loro fondamento ultimo nella storia, in fatti, opere e parole che Dio ha realmente operato, e che l'agiografo ha descritto con il linguaggio in quel momento più appropriato o a lui disponibile, lasciando poi all'esegeta il compito di esplicitarne il senso valido per ogni tempo.
Talvolta i conflitti sorgono quando i cultori delle scienze naturali vedono la Sacra Scrittura come un insieme di "formulazioni di autorità", assumere le quali vorrebbe dire interrompere il progresso delle scienze o falsificarne i risultati. La mediazione dell'esegesi, della teologia e della filosofia, è scarsamente presa in considerazione, così come pure l'idea di "progresso o sviluppo dogmatico": tutto il dibattito fra fede e scienza sembra esaurirsi assai riduttivamente in un confronto fra versetti biblici e scoperte scientifiche. Tale pericolo è maggiormente presente in quelle tradizioni religiose le quali, pur riconoscendosi nel "Libro della Scrittura", lo utilizzano in modo immediato e talvolta istintivo, escludendo o riducendo al minimo la necessaria suddetta mediazione. Si tratta, invece, di una opportuna mediazione "scientifica" in senso proprio, sia perché deve ricorrere all'impiego dei criteri dell'esegesi scientifica, sia perché si giova, quando necessario, anche delle scienze positive e sperimentali, che possono contribuire con i loro risultati a chiarire meglio il contenuto di una verità di fede o favorirne un certo sviluppo dogmatico omogeneo. L'impiego frammentario ed isolato di frasi bibliche, in linea generale, non è mai il modo migliore di impostare un confronto con la visione scientifica del mondo, perché la Scrittura possiede una sua unità e coerenza e va considerata alla luce dell'analogia della fede, del collegamento esistente fra i vari misteri divini e, non ultimo, alla luce del buon senso.
3. Alcuni problemi di attualità. Le raccomandazioni prima ricordate valgono in modo particolare per alcuni temi di attualità nel dibattito fra Rivelazione cristiana e lettura scientifica del mondo. Per quanto riguarda il "problema delle origini", oggi tematizzato o almeno suscitato anche all'interno delle scienze, va ricordato che il messaggio biblico sulla rivelazione dei rapporti originari ed originanti fra Dio e l'umanità, fra Dio e la natura, non va limitato ai primi capitoli del testo genesiaco. Questi versetti, pur nella loro solennità ed importanza, non esauriscono certo il senso di quei rapporti, né contengono tutta la dottrina biblica sulla creazione: quest'ultima va cercata anche nei libri sapienziali e profetici e nell'interpretazione che ne ha dato la teologia dei Padri. Né una vera conoscenza di cosa sia la creazione può prescindere dal messaggio del NT, in particolare dall'annuncio escatologico di una «nuova creazione» le cui primizie ci sono già date nella resurrezione di Gesù Cristo. È in questa ottica che va anche affrontato il rapporto con le scienze in merito agli scenari finali dell'universo fisico e alla sua trasfigurazione futura.
Sempre all'interno della dottrina biblica della creazione risulta evidentemente sterile ed esegeticamente scorretto focalizzare il confronto fra Scrittura e pensiero scientifico attorno alla dialettica fra "creazionismo" ed "evoluzionismo"; il primo inteso come un paradigma fissista che affermerebbe la comparsa immediata di tutte le specie dei viventi, negando la possibilità di trasformazioni biologiche o perfino geologiche, ed il secondo come paradigma filosofico che interpreti la morfogenesi di tutta la realtà in termini di uno sviluppo necessario ed immanente oppure come gioco di una cieca casualità. L'esegesi biblica può confrontarsi e dialogare con i fatti, e dunque con l'evoluzione, fisica o biologica, spiegata in modo scientifico, liberata da presupposti di carattere filosofico aprioristico. La presenza di analoghi presupposti non va esclusa neanche per quanto concerne il tema del «monogenismo», cioè l'origine di tutto il genere umano da una sola coppia di progenitori. A volte si presenta tale convincimento, suffragato da vari passi biblici e dall'insegnamento del magistero cattolico, come qualcosa di certamente smentito dai risultati scientifici, senza riflettere sul fatto che la ricostruzione scientifica, per quanto accurata possibile, non potrà mai giungere, per ovvi motivi, a prove apodittiche pro o contro di esso. A ciò va aggiunta la considerazione che l'analisi scientifica può dedurre a posteriori se e quando ci si trova di fronte a reperti certamente umani, ma non può concludere nulla sulla comparsa di una prima coppia di progenitori, in quanto la "causa ultima" di tale comparsa - sia essa l'animazione spirituale di un corpo, un nuovo intervento creativo di Dio, ecc. - non è di ordine empirico, mentre lo sono solo le conseguenze ad esso riconducibili.
Dal canto suo, il magistero ecclesiastico ha affrontato il tema con chiarezza ed insieme prudenza: il monogenismo appare così legato alle conseguenze "normative" dei progenitori per tutto il genere umano, alla dottrina sul peccato originale in particolare, ma anche alla ricapitolazione in Cristo di quanto significato in Adamo, al punto che un abbandono del monogenismo obbligherebbe la teologia ad una seria ricomprensione di molti contenuti della Rivelazione. La dichiarazione principale in proposito resta sempre quella dell'Humani generis: «I fedeli non possono abbracciare quella opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra dei veri uomini, che non hanno avuto da lui origine come progenitore di tutti gli uomini per generazione naturale, o che Adamo rappresenta l'insieme di molti progenitori; non sembra infatti possibile concordare (cum nequaquam appareat quomodo componi) queste affermazioni con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un vero peccato commesso individualmente da Adamo e personalmente e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio» (DH 3897). Non vi sono attualmente dei risultati scientifici che impongano di abbandonare questa comprensione teologica, né potrebbero, per quanto prima detto, essercene di apodittici in futuro.
4. Il rischio del "fondamentalismo biblico": la Scrittura non sposa una specifica visione fisica o biologica del mondo. Buona parte dei conflitti o dei dibattiti prima accennati possono facilmente trovare una composizione evitando ciò che viene chiamata una «lettura fondamentalista» della Bibbia. Così ne parla il documento della PCB del 1993: «La lettura fondamentalista parte dal principio che la Bibbia , essendo Parola di Dio ispirata ed esente da errore, deve essere letta ed interpretata letteralmente in tutti i suoi dettagli. Ma per "interpretazione letterale" essa intende un'interpretazione primaria, letteralista, che esclude cioè ogni sforzo di comprensione della Bibbia che tenga conto della sua crescita nel corso della storia e nel suo sviluppo. Si oppone perciò all'utilizzazione del metodo storico-critico per l'interpretazione della Scrittura, così come ad ogni altro metodo scientifico [.]. Il problema di base di questa lettura fondamentalista è che, rifiutando di tener conto del carattere storico della rivelazione biblica, si rende incapace di accettare pienamente la verità dell'Incarnazione. Il fondamentalismo evita la stretta relazione del divino e dell'umano nei rapporti con Dio. Rifiuta di ammettere che la Parola di Dio ispirata è stata espressa in linguaggio umano ed è stata redatta, sotto l'ispirazione divina, da autori umani le cui capacità e risorse erano limitate. Per questa ragione tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito e non arriva a riconoscere che la Parola di Dio è stata formulata in un linguaggio e una fraseologia condizionati da un data epoca» (EV 13, 2971 e 2974).
In accordo con questi princìpi, si comprende perché, sebbene nella Bibbia si rispecchiano una o più visioni del cosmo contemporanee all'epoca in cui scriveva l'autore sacro, non si possa affermare che il cristianesimo (e prima l'ebraismo) abbia "sposato" una particolare cosmologia. «Il fondamentalismo porta inoltre ad una grande ristrettezza di vedute: ritiene infatti come conforme alla realtà, perché la si trova espressa nella Bibbia, una cosmologia antica superata, il che impedisce il dialogo con una concezione più aperta dei rapporti tra cultura e fede» (EV 13, 2978). Sono invece i rapporti fondanti fra Dio e il creato, fra Dio e l'uomo, così come le relazioni fra la persona umana - creata ad immagine e somiglianza di Dio - ed il resto della natura, a costituire il nucleo essenziale del messaggio biblico, con la sua storia di amore e di libertà, di peccato e di salvezza, di dono ricevuto e di compito da svolgere, di responsabilità storica e di attesa della rivelazione definitiva dei figli di Dio (cfr. Rm 8,19).
Documenti della Chiesa Cattolica correlati:
Leone XIII, Providentissimus Deus, 18.11.1893; Benedetto XV, Spiritus Paraclitus, 15.9.1920; Pio XII, Divino afflante Spiritu, 30.9.1943; Dei Verbum, 11-17; Giovanni Paolo II: Discorso in occasione del 350° anniversario della pubblicazione del "Dialogo sui due massimi sistemi del mondo", 9.5.1983, Insegnamenti VI,1 (1983), pp. 1192-1199; Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze nel 50° della Rifondazione, Insegnamenti IX,2 (1986), pp. 1274-1285; Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 31.10.1992, Insegnamenti XV,2 (1992), pp. 456-465. PCB, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 15.4.1993, EV 13, 2846-3150; Fides et ratio, 7-12, 16-23, 45-48.
Aspetti teologici ed ermeneutici: B. ORCHARD ET AL.., A Catholic Commentary of the Holy Scripture , Nelson & Sons, Toronto - New York - Edinburgh 1960; J. DANIELOU , In principio: Genesi 1-11 , Morcelliana, Brescia 1965; M. DE TUYA , J. SALGUERO, Introducción a la Biblia, 2 voll., Ed. Católica, Madrid 1967; V. MANNUCCI, La Bibbia, Parola di Dio. Introduzione alla Sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 19834 ; E. GALBIATI, Pagine difficili della Bibbia, Massimo, Milano 1985 5 ; R. LAURENTIN, Come riconciliare l'esegesi con la fede , Queriniana, Brescia 1986; P. GRELOT, Introduzione alla Bibbia , Paoline, Cinisello Balsamo 1987; J. RATZINGER, Creazione e peccato, Paoline, Cinisello Balsamo 1987; L. PACOMIO (a cura di), L'esegesi cristiana oggi, Piemme, Casale Monferrato 1991; J.M. CASCIARO, J.M. MONFORTE, Dios, el mundo el hombre, Eunsa, Pamplona 1992; J. SANCHEZ CARO et al., Introduzione alla studio della Bibbia, Paideia, Brescia 1994; C. WESTERMANN, Genesi, Piemme, Casale Monferrato 1995; M.A. TABET, Introduzione generale alla Bibbia , San Paolo, Cinisello Balsamo 1998.
Sul rapporto fra scienze e Sacra Scrittura: C.S. GILLISPIE, Genesis and Geology , Harper & Row, New York 1959; A. PEACOCKE, Creation and the World of Science, Clarendon Press, Oxford 1979, cap. I: "The Two Books"; O. PEDERSEN, Il Libro della natura , Paoline, Milano 1993; J.F. HAUGHT, Science and Religion. From Conflict to Conversation , Paulist Press, New York 1995; I. BARBOUR, Religion and Science. Historical and Contemporary Issues , SCM Press, London 1998; D. LAMBERT, Sciences et théologie. Les figures d'un dialogue , Presses Univ de Namur - Lessius, Namur - Bruxelles 1999; G. TANZELLA-NITTI, La presenza delle scienze naturali nel lavoro teologico , in "Interpretazioni del reale. Teologia, filosofia e scienze in dialogo", a cura di P. Coda e R. Presilla, Pontificia Università Lateranense - Mursia, Roma 2000, pp. 171-184.
Sugli aspetti scritturistici del caso Galileo: P. POUPARD (a cura di), Galileo Galilei, 350 anni di storia , Piemme, Casale Monferrato 1984; S. PAGANO , A. LUCIANI (a cura di), I documenti del processo di Galileo Galilei, "Pontificiae Academiae Scientiarum Scripta Varia" 53 (1984); G.V. COYNE ET AL. (a cura di), The Galileo Affair. A Meeting of Faith and Science , Specola Vaticana, Città del Vaticano 1985; S. DRAKE, Galileo. Una biografia scientifica, Il Mulino, Bologna 1988; R. FABRIS, Galileo Galilei e gli orientamenti esegetici del suo tempo , "Pontificiae Academiae Scientiarum Scripta Varia" 62 (1986); W. BRANDMÜLLER, Galilei e la Chiesa, ossia il diritto di errare, LEV, Città del Vaticano 1992; A. FANTOLI, Galileo. Per il copernicanesimo e per la Chiesa, LEV, Città del Vaticano 1993; R. MARTINEZ, Il significato epistemologico del caso Galileo: due diverse concezioni della scienza, "Acta Philosophica" 3 (1994), pp. 45-74; P. POUPARD (a cura di), La nuova immagine del mondo. Il dialogo fra scienza e fede dopo Galileo , Piemme, Casale Monferrato 1996; D. SOBEL, La figlia di Galileo: una storia di scienza, fede e amore, Rizzoli, Milano 1999.