Parlando di astronautica... tra arte e cinema

Diego Santimone

L'arte come esperienza astronautica

La Luna e il cielo sono soggetti che puntualmente tornano in numerose forme d'arte: opere mitiche, letterarie, pittoriche e musicali... Qui si effettuerà una breve incursione in alcune aree del mondo della pittura, in particolare in quello contemporaneo ed esplicitamente dedicato all'astronautica: la divulgazione spaziale.

In seguito si presenterà l'arte come la possibilità per un astronauta di poter proseguire l'esplorazione del cosmo e di poter custodire ed interrogare il senso ultimo che le imprese compiute hanno lasciato nella sua persona.

Il Realismo spaziale della divulgazione

Negli anni del boom della divulgazione dei voli spaziali negli Stati Uniti d'America (anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso), gli articoli nei quali eminenti scienziati ed ingegneri presentavano future missioni lunari, marziane o nel sistema solare erano accompagnati da disegni realizzati da numerosi artisti che realisticamente e scientificamente (secondo le conoscenze che si avevano al tempo) proiettavano il lettore nell'esplorazione di un corpo celeste secondo quanto si ipotizzava o si progettava per missioni spaziali realizzabili in un futuro medio o lontano. Era una sorta di Realismo che prese per soggetto l'astronautica.

Uno dei più famosi autori di queste opere fu Chesley Bonestell (1888-1986) che spesso collaborò con tecnici ed ingegneri della NASA per l'ideazione delle sue tavole: la collaborazione più importante e significativa fu quella con Wernher von Braun (1912-1977), ideatore del lanciatore Saturn che permise la realizzazione delle missioni Apollo.

Anche se erano opere notevoli, quelle del realismo spaziale americano erano però un prodotto artistico frutto dell'immaginazione di come si sarebbe svolta la futura storia astronautica negli anni a venire, pur prestando attenzione a proprietà e caratteristiche scientifiche dei corpi celesti che si volevano rappresentare e alle peculiarità tecnologiche dei veicoli proposti dagli ingegneri.

Rifacendosi ai progetti tecnici di missioni astronautiche in corso di realizzazione o di proposta, questi artisti mostravano non tanto quello che avrebbero provato esistenzialmente e sentimentalmente gli astronauti durante questi ipotetici futuri viaggi, quanto gli scenari di missione che si sarebbero presentati e i panorami di cui gli esploratori spaziali avrebbero goduto dalla superficie di un pianeta o in viaggio attorno ad un corpo celeste.

Invece alcuni astronauti e cosmonauti che hanno partecipato a storiche missioni spaziali hanno poi cercato di descrivere e di fissare in un'opera d'arte l'esperienza che hanno vissuto nella loro vita. Uno fra tutti il cosmonauta Aleksei Leonov (1934), che fu il primo uomo a compiere un'uscita extra-veicolare nel vuoto spaziale, da anni dipinge quadri di astronautica.

Il pittore Apollo

Alan Bean (1932) insieme a Pete Conrad (1930-1999) effettuò il secondo sbarco lunare con la missione Apollo 12 (novembre 1969). Alcuni anni dopo, effettuata anche una missione sulla stazione spaziale USA Skylab di quasi due mesi, lasciò la NASA per dedicarsi unicamente all'attività artistica. Da allora e fino ad oggi Bean si dedica nella sua attività di pittore, dipingendo unicamente astronauti Apollo (che spesso identifica con se stesso e gli altri suoi compagni) sulla Luna o nello spazio[1].

E' un esempio emblematico di come l'arte permetta di perpetuare e rivivere un'esperienza che si è vissuta nella propria vita e il cui senso e significato sembra inesauribile ed esplorabile in parte solo con questo mezzo. Nell'interpretazione di un'esperienza umana come quella di un viaggio lunare le scienze naturali e la tecnologia possono contribuire ben poco. L'uomo è chiamato ad interrogare le altre sue dimensioni, fra cui quella artistica, in grado di fornire un contributo non realizzabile e non comprensibile da un prodotto tecnico-scientifico come una macchina.

Alan Bean guarda continuamente ed esclusivamente alla Luna, una parte di sé è rimasta là e può andare a raggiungerla solamente tramite l'arte. Non è un cammino di ricerca semplice e spontaneo, tutt'altro: la ricerca di senso in un'esperienza di vita come quella dell'evento astronautico richiede un lavorio riflessivo, una fatica del concetto. Alla domanda se si stanchi mai di dipingere astronauti e la Luna Bean risponde

No. E credo che uno dei doni che una persona riceve... si parla di quando il talento sia un grande dono,ma io non sono sicuro che lo sia. Non sono sicuro che il dono maggiore non sia che in qualche modo ti importa così tanto di queste cose, per ignote ragioni, che hai voglia di dedicargli il tempo che ci vuole a imparare a farle. E poi quando le sai fare, vuoi farle meglio e ti piace farle. Perché potrebbero smettere di piacerti anche a metà strada. Così quando mi dicono: “Ehi, sei fortunato, hai un sacco di talenti: sai pilotare gli aerei e le navicelle spaziali e fare questo...” io penso soltanto “Sai, niente di tutto questo è stato facile”. [2]

Le sue opere pittoriche non sono solo un memoriale di quello che ha vissuto nel suo viaggio lunare, ma vogliono essere quasi una parte di sé stesso, l'espressione della sua contemplazione dell'esperienza lunare. Con il martello da geologo e le suole dei copri-stivali che ha utilizzato sulla Luna Bean prepara il supporto dei sui quadri martellando dei pannelli di legno per strutture aeronautiche e realizzando così sulla superficie delle orme identiche a quelle che ha lasciato sul suolo lunare nel novembre del 1969. A volte aggiunge una spilla o un distintivo che indossava sulla Luna. Addirittura in alcuni quadri ha mischiato con la pittura della polvere lunare che gli è rimasta sulle patch di missione.

L'operazione di realizzare l'opera d'arte è il tentativo di custodire intatta ed esplorare l'esperienza che ha vissuto in prima persona: non sono fantasie o falsificazioni quelle che ispirano il lavoro di Bean, ma una meditazione sulla sua esperienza lunare con Apollo 12.

Il mio obiettivo principale è di preservare questa grande avventura, in modo in cui non lo fa nessun altro. Ma cerco anche di preservare quel sentimento, se lo trovo. È stato trent'anni fa, quindi devo allo stesso tempo fare attenzione a non divagare troppo. Così parlo sempre con gli altri astronauti e guardo le foto e tutto il resto, cercando di fare attenzione a non trasformarlo da quello che è stato in quello che desideravo che fosse.[3]

L'esigenza di tornare sempre ad un'avventura come quella lunare è data dal fatto che la possibilità di fermarsi a pensare sulla Luna durante la missione a quello che stava accadendo era molto limitata:

Il primo pensiero di Armstrong può anche essere stato “Questo è un piccolo passo per un uomo...”, ma io ricordo in modo vivido che dopo essere sceso dalla scaletta e aver toccato la superficie lunare, il mio primo pensiero fu: “siamo in ritardo di venti minuti e dobbiamo recuperare”.[4]

Fondamentale nell'attività artistica di Bean è la scelta dei colori che si possono impiegare per rendere il paesaggio lunare, che si traduce in un continuo tentativo di esplorare il senso della sua esperienza lunare:

Sono pochi i colori che puoi usare per la Luna e farla sembrare reale; puoi usare i rossi e gli arancioni – che sono diventati i miei preferiti – e i gialli. Ma se usi quasi qualsiasi altro colore sembra sbagliato. Mi ci sono voluti anni per capirlo, ma essendo un amante dell'arte può essere comunque frustrante. Continuo a pensare: “ Forse un modo c'è”. E passo le ore a provarci”.[5]

Non tutti i colori vanno bene per dipingere la Luna, non tutte le tecniche di luce-ombra evidenziano l'assenza di atmosfera lunare.

Il problema dei colori non riguarda però unicamente la restituzione della colorazione del suolo lunare: per quella basterebbe una missione automatica dotata di una fotocamera con colorimetro. A seconda dei momenti e delle situazioni che si crearono sulla Luna, Bean ricorda un variazione nella percezione dei colori, dettata dal cambiamento e dal tipo di emozioni che viveva nella sua esplorazione lunare. Per decenni agli astronauti Apollo è stata chiesta quale fosse la sensazione di camminare sulla Luna. Numerosi tentativi sono stati fatti nelle descrizioni e nell'esprimere le sensazioni che quegli uomini provarono, ma solo Bean provò a dipingerle:

È una domanda cui in dodici si sono sforzati di rispondere negli ultimi trent'anni e cui Bean ha cercato di dare una risposta con il pennello. “L'ho dipinto in oro perché mi sentivo come se lassù avessi un bagliore, capisci, di grande eccitazione... Non sapevo come mi ero sentito! Ma era il più bel giorno della mia vita. Però l'ho guardato e mi sono detto: “non mi sentivo affatto nel modo in cui appare”. Così ho pensato: “Forse è più come un arcobaleno” e allora ha cominciato a dare una sensazione più vicina a quella che avevo provato. E quei colori stanno bene insieme, è per questo che sembra così bello.[6]

Quel che si prova a camminare sulla Luna Bean è riuscito a descriverlo nella pittura: nel suo quadro “That's How It Felt to Walking on the Moon” ha usato colori come il verde, viola e soprattutto oro. Sono colori che non esistono sulla Luna e che nessuna sonda automatica avrebbe mai fotografato. Li vide solo Bean quando camminò nell'euforia di autocomprendersi su un altro mondo, sperimentando una strana sensazione di cedevolezza ai piedi, una insolita leggerezza, ...

Anche se la pianificazione delle attività sul suolo lunare era fitta e prevedeva pochi momenti di “tempo libero”, la consapevolezza di quello che stava accadendo si presentava in modo violento alla sua sensibilità, come riporta A. Smith nella sua intervista al pittore lunare:

La superficie gli fece venire in mente delle “sculture in un giardino roccioso”. Lottò per mantenere l'attenzione concentrata sul piano crudelmente impla-cabile di compiti, mentre guardava la Terra sorgere e tramontare nel cielo “come un occhio bianco e azzurro che si apre e si chiude”. Di tanto in tanto si aggrappava a qualcosa di solido e guardava in su mormorando tra sé: “questa è la Luna, quella è la Terra: sono qui davvero, sono qui davvero”. Anni dopo, l'intera faccenda sarebbe parsa “irreale e forse un po' come un sogno” e mi chiedo se sia per questo che cerca di catturarla nei quadri, di fissarla e renderla comprensibile, identificabile, qualcosa di solido, che sembri reale.[7]

Con l'opera d'arte l'astronauta Apollo può anche permettersi di illustrare delle situazioni immaginate dalla sua personalità e volontà, che avrebbe realizzato se il volo lunare si fosse ripetuto in futuro. L'esplorazione lunare “continua” nel tempo disteso dell'arte, come mostra nel suo quadro “Football”:

Se fossi andato di nuovo avrei portato un pallone da football e avrei indotto Pete ad andare fino in fondo... Eravamo così concentrati sugli aspetti scientifici che abbiamo perso quelli umani. Una cosa che amo dell'artista è che quando vuoi fare una cosa, non devi convocare una riunione. E in più non dev'essere una cosa che ha senso.[8]

A fronte di una esperienza come quella di un volo sulla Luna, Bean si sente interpellato come singolo uomo e come rappresentante dell'umanità sul significato dell'universo, il posto che l'uomo vi occupa all'interno di esso, le possibilità che gli si aprono con l'astronautica e se sia sperduto sulla Terra che vaga abbandonata per il cosmo o se sia invece accompagnato da Qualcuno. E coglie come l'uomo sia diverso da tutto il resto dell'universo:

L'unica cosa dell'universo che non possiamo prevedere, l'unica cosa che non sappiamo dove sarà anche solo fra dieci anni, siamo noi. Possiamo anche esser piccoli, ma ci è stato dato il dono più straordinario dell'universo.[9]

Emblematici sono i quadri “Hello Universe!” in cui saluta l'universo intero di fronte alla meraviglia della camminata lunare e “Is anyone out there?” in cui si domanda se vi sia “qualcun altro” oltre l'umanità e la Terra più in là nel cosmo e probabilmente anche su un piano divino.

La meraviglia dell'uomo che si affaccia all'universo con un semplice passo come quello che hanno compiuto i dodici astronauti Apollo scendendo dal Modulo Lunare si rinnova potente nella rivisitazione della loro esperienza e del significato che dischiude. L'uomo si ritrova a salutare euforico l'universo e nel contempo a chiedersi se la sua esistenza sia data da Qualcuno a lui superiore o meno. Domande ed esclamazioni che Bean lascia aperte e nude, fissandole nei colori delle sue opere.

L'opera d'arte permette di trascendere la pura esperienza fattuale che si ha vissuta e offre la possibilità di descrivere quello che la raccolta di dati e informazioni puramente scientifiche (in grado di realizzarla qualsiasi sonda automatica) non sarebbero in grado di cogliere!

L'arte contribuisce all'astronautica nella misura in cui offre la possibilità di approfondire il senso e il significato del volo spaziale umano, l'esplorazione dell'universo e quali domande, certezze, paure e speranze si affiancano all'umano durante l'avventura extra-atmosferica.

Il cinema parla di astronautica

Anche l'opera d'arte cinematografica può fornire un contributo alla comprensione dell'evento astronautico. Numerose pellicole sono state dedicate all'astronautica, trattando numerosi generi differenti.

Per questo lavoro è stata effettuata una selezione di quattro opere cinematografiche in grado di presentare un percorso che affronta la relazionalità uomo-macchina e la dimensione della persona umana carica delle sue istanze psicologiche ed esistenziali di fronte all'evento astronautico.

  • Uomini veri (USA 1983, regia di P. Kaufman) per il rapporto uomo-macchina nelle prime missioni astronautiche.
  • 2001: odissea nello spazio (USA 1968 , S. Kubrick) per lo scontro uomo-macchina e la vocazione umana all'incontro con lo spazio.
  • Moon (USA 2010, D. Jones) per le problematiche socio-psicologiche e le istanze personali di un astronauta in missione
  • Solaris (URSS 1972, A. Tarkovskij) per le motivazioni esistenziali che spingono l'uomo ad affrontare lo spazio e i limiti possibili della conoscenza umana.

Uomini veri. La storia dell'uomo e della macchina

La storia dei primi uomini scelti per diventare i primi astronauti Mercury è descritta dal film Uomini veri[10] (USA 1983, regia di P. Kaufman), che propone trama e personaggi molto fedeli al contesto storico originale e pertanto risulta una utile presentazione delle problematiche e delle dinamiche che si instaurarono fra questi uomini e la nuova macchina spaziale.

Il film ruota attorno ai sette piloti aeronautici che vengono selezionati per compiere le prime missioni spaziali americane. È una unica, continua, enorme sfida: quella fra il mondo aeronautico e quello nuovo astronautico; la sfida fra l'uomo e la macchina; la sfida fra l'ingegnere e l'astronauta; la sfida fra requisiti tecnici e umani; la sfida fra la morte e il successo; la sfida fra il ruolo dell'astronauta di passeggero o di pilota delle capsule spaziali.

È interessante anche l'antropologia dell'astronauta che appare: una persona preparata con una enorme esperienza nel volo aeronautico e in grado di affrontare situazioni critiche e al limite delle prestazioni umane. Ma si tratta pur sempre di una persona: gli uomini veri sono carichi delle loro storie personali, delle loro qualità, dei loro difetti, delle loro scelte, dei loro affetti e delle loro relazioni.

2001. La sfida fra l'uomo e la macchina

2001: odissea nello spazio (USA 1968 , S. Kubrick) non è un film di avventura spaziale. Molti spettatori che si attendevano la narrazione di imprese di cowboy spaziali rimasero delusi di fronte all'impegnativa sfida riflessiva che la pellicola di Stanley Kubrick (1928-1999) proponeva al pubblico[11]. È il racconto della storia dell'umanità: dalla condizione preistorica alla lotta per la liberazione dal dominio della macchina che permetterà all'uomo di proseguire il suo cammino evolutivo verso nuove dimensioni dell'esistenza.

La narrazione inizia all'alba dell'uomo, nella preistoria, quando si presenta ad un branco di scimmie un misterioso monolite nero alieno. L'Australopithecus Afarensis (che Clarke nel suo romanzo chiama Guarda-la-Luna) mostra paura, curiosità e coraggio di fronte alla strana comparsa: sono le emozioni che accompagnano alla scoperta dell'utensile: il primo impiegato dall'uomo è un osso, che utilizza come arma. Qui trova conferma l'osservazione guadagnata nell'indagine antropologica: la tecnica è ambigua, contesa fra servizio e minaccia all'uomo.

La storia umana trascorre rapidamente fino all'era astronautica. L'uomo che si accinge al volo spaziale è civilizzato, razionale e scientifico, colui che ha soffocato la paura, la curiosità e il coraggio primitivo della scoperta. Ma nel volo spaziale avviene lo stravolgimento della sua condizione: si ritrova improvvisamente regresso alla condizione di bambino, dovendo imparare nuovamente a camminare, a muoversi in assenza di gravità, a mangiare, ad andare in bagno, ...). Il padrone della terra si ritrova bambino nello spazio. È il prologo per un nuovo salto evolutivo che la specie homo dovrà affrontare.

Sulla scena della storia umana compare un nuovo personaggio, la macchina. Il calcolatore di bordo HAL9000 dell'astronave Discovery in viaggio verso Giove è il sistema nervoso dell'habitat dove l'equipaggio sopravvive. L'utensile non ha più bisogno di un Guarda-la-Luna che lo usi. A cosa serve allora l'uomo? Nelle scene di vita quotidiana i due astronauti non ibernati dell'equipaggio risultano annoiati e soprattutto... noiosi. Intervengono solo per la manutenzione della macchina-veicolo: il massimo sviluppo dell'homo sapiens è il servizio alla macchina che lui stesso ha creato.

Però la macchina non è perfetta: HAL9000 commette un errore di valutazione nel rilevare un guasto inesistente all'antenna per telecomunicazioni. In seguito all'errore i due astronauti ritengono che la capacità operativa del calcolatore sia compromessa e decidono di disattivarlo. Accortosi il calcolatore delle intenzioni dei due uomini, inizia così la guerra fra l'uomo e la macchina che vedrà l'uccisione di tutto l'equipaggio a parte l'astronauta Dave Bowman. L'uomo deve risvegliare l'ingegno e il coraggio che era proprio dell'uomo-scimmia: solo così riuscirà a disattivare il calcolatore, impiegando un semplice strumento quale il cacciavite.

L'uomo si ritrova nello spazio da solo, ponendo fine all'antica alleanza con la tecnica iniziata con l'utensile millenni prima. Nei pressi di Giove Dave lascia l'astronave per affrontare l'ignoto, e dall'incontro con il monolite, si ritrova nella stanza della sua intera esistenza, dove dovrà affrontare la sfida decisiva, quella con la morte. Nell'ultima cena dell'uomo il bicchiere è rotto, ma il vino c'è ancora e prende forme nuove, impossibili da assumere prima. Dave si ritrova solitario di fronte al monolite, il misterioso responsabile dei salti evolutivi della razza umana. E qui avviene l'ulteriore salto: l'astronauta oltrepassa la propria morte e diviene un bambino stellare, il Bambino-delle-stelle (come lo chiama Clarke).

L'uomo sulla Terra, il Guarda-la-Luna, ha sviluppato la tecnica fino a poteri raggiungere lo spazio. Ma il costo è stato quello di esser soggiogato dalla tecnologia, che gli è sfuggita di mano. Per liberarsi da questo potentato e proseguire la propria evoluzione egli necessita di due cose: combattere la macchina risvegliando quelli che sono i propri tratti primitivi-strutturali (paura, curiosità, coraggio, ...) e che persistono nella sua natura, ed affrontare liberamente lo spazio profondo, senza più l'intermediazione con la macchina, divenendo il Bambino-delle-stelle. L'astronautica è il luogo in cui questo decisivo scontro avviene e in cui è possibile per l'uomo cogliere una nuova sensibilità dell'universo e del posto che al suo interno vi occupa.

All'interno dello scontro uomo-macchina presentato in 2001 è possibile cogliere quello che era stato introdotto come contrasto primitivo in Uomini veri: la dialettica uomo-macchina fra limitazioni ed esigenze si è presentata nell'analisi storica ed è stata sviluppata amplificando possibili scenari distruttivi e minacciosi in 2001. Il rapporto uomo-macchina non è mai una relazionalità scontata e banale. Soprattutto in uno scenario che esige un rapporto così stretto e contiguo come il volo spaziale umano: la grande sfida dell'umanità è quella di saper costruire una sana relazionalità con la tecnologia capace di conservare l'uomo nella sua verità antropologica più profonda e permettendogli così una sempre miglior conoscenza di sé stesso.

Moon. Le esigenze “personali”

Nel film Moon (USA 2010, D. Jones) viene presentato un ipotetico futuro nel quale dalla Luna viene estratto l'elio-3 depositato sulla sua superficie dal vento solare per alimentare le centrali nucleari sulla Terra. Per la raccolta viene impiegato un sistema automatizzato gestito da un singolo astronauta in missione di lunga durata ospitato in una base sulla superficie lunare sul lato nascosto della Luna. La mancanza di altri esseri umani viene compensata dall'intelligenza artificiale dell'amichevole calcolatore della base. Un misterioso guasto ai satelliti-ponte per le trasmissioni dirette con la Terra non permette all'astronauta di comunicare in tempo reale con la sua famiglia rimasta sul pianeta d'origine, ma solo tramite video-messaggi pre-registrati.

In realtà l'astronauta scoprirà essere solo uno di numerosi cloni identici impiegati dalla società proprietaria della base lunare per gestire il programma di estrazione dell'elio-3 a costi contenuti: i componenti della famiglia che l'astronauta osserva nei video-messaggi sono semplicemente attori.

Ma anche se è un clone, è pur sempre un uomo. È interessante osservare come l'astronauta nella sua solitudine cerchi di risolvere delle esigenze “personali” proprie del suo essere persona: un uomo ha bisogno di coltivare la sua storia personale, di mantenere i contatti con i suoi affetti e i suoi cari. Le relazioni sociali e le dinamiche di gruppo non riescono ad essere compensate dall'alterità dell'intelligenza artificiale, che non sarà mai identica ad una persona reale.

Quando l'astronauta si troverà a doversi relazionare con un suo clone che viene risvegliato da una condizione di ibernazione,il singolo uomo dovrà confrontarsi con sé stesso. Anche nel conflitto.

Solaris. Il portato di senso dell'esplorazione spaziale

Se in Moon emergono le esigenze psicologiche e relazionali che un astronauta necessita di soddisfare, in Solaris (URSS 1972, A. Tarkovskij)[12] si tenta un'analisi più profonda dell'umano, un'indagine esistenziale, gnoseologica ed ontologica della condizione umana di fronte all'evento astronautico.

Il protagonista del film è il socio-psicologo Kris Kelvin che viene inviato sulla stazione spaziale in orbita attorno a Solaris, un corpo celeste oceanico che da decenni è oggetto di studio da parte dell'umanità. Sono state compiute innumerevoli ricerche e studi sul fenomeno che hanno portato a collezionare una innumerevole quantità di dati e la nascita di una scienza dedicata quale la solaristica, ma mai si è riusciti ad comprendere la natura del misterioso oceano, se non l'ipotesi che sia caratterizzato da una qualche specie di conoscenza.

Da alcune settimane sulla stazione si sono verificati strani eventi, e Kelvin viene inviato per capire cosa stia succedendo. Kris si rende conto che il pianeta Solaris materializza il passato personale, l'inconscio, la storia di ogni persona che si addormenti sulla stazione. Incontra così Hari, la sua moglie morta suicida anni prima sulla Terra. Il misterioso pianeta sembra studiare come le diverse persone dell'equipaggio reagiscano a queste “apparizioni”: l'astrobiologo Sartorius si rinchiude nel suo laboratorio e, come il dottor Faust, tenta di cogliere il segreto dell'immortalità; il cibernetico Snaut soggiorna nella sua camera, nel suo quotidiano e nella biblioteca considerando le sue apparizioni non come fantasmi ma come ospiti. Kelvin riprenderà la sua relazione con quella che si convince essere la vera Hari.

Il grande tema che il film affronta è quello della conoscenza: esistono dei limiti alla conoscenza quantitativa delle scienze naturali? A quale genere di conoscenza permettono di accedere l'arte, la psicologia, e la propria storia personale? È il problema critico kantiano che si ripropone in veste astronautica indagando gnoseologicamente l'approccio con il pianeta Solaris.

Nel suo cammino di discernimento conoscitivo, Kelvin passa dal distaccato approccio scientifico (capace di distruggere l'oggetto che non riesce a comprendere) alla disponibile apertura della ragion pratica e artistica simboleggiata da Snaut, fino a compiere un personale salto fiduciale per la comprensione di Solaris.

Lo stesso regista Tarkovskij offre una riflessione sulla conoscenza nel rapporto fra scienza ed arte:

Per mezzo dell'arte l'uomo si appropria della realtà attraverso un'esperienza soggettiva. Nella scienza la conoscenza umana del mondo procede lungo i gradini di una scala senza fine, venendo successivamente rimpiazzata da sempre nuove conoscenze su di esso che sovente si confutano a vicenda, in nome di verità oggettive particolari. La scoperta artistica invece, nasce ogni volta come un'immagine nuova e irripetibile del mondo, come un geroglifico della verità assoluta. Essa si presenta come una rivelazione, come un desiderio appassionato e improvviso di afferrare intuitivamente tutte in una volta le leggi del mondo – la sua bellezza e il suo orrore, la sua umanità e la sua ferocia. La sua infinità e la sua limitatezza.[13]

La conoscenza umana che indaga il mistero dell'esistenza inevitabilmente si scontra anche con quello della sofferenza, come è ben presentato da un dialogo fra Snaut e Kelvin:

"Le persone più felici sono quelle che non si sono mai interessate a queste maledette questioni".

"Una domanda vuol dire sempre desiderio di conoscere e per conservare la semplice unità umana ci vogliono i misteri. Il mistero della felicità, della morte, dell'amore. Pensare questo è come conoscere il giorno della propria morte. L'impossibilità di sapere questa ci rende praticamente immortali". [14]

L'evento astronautico fornisce il luogo dove poter affrontare il problema della conoscenza, e l'impresa astronautica appare come il riferimento più alto in cui si presenta l'interrogativo sull'esistenza umana, sulla comprensione dell'universo e sulla posizione dell'uomo in esso.

Significativa è la domanda che Hari pone a Kris e la risposta di questi: «Tu ti conosci?», «Come ogni essere umano...». L'uomo non si conosce, è questa la vera sfida che egli deve affrontare, senza perdersi in dannate mire faustiane:

Ci ruba i pensieri, li rende vivi per sputarci in faccia le nostre ossessioni. Ma perché andiamo a frugare l'universo quando non sappiamo niente di noi stessi? Il nostro Faust sta indagando sulla causa dell'immortalità. Sartorius costruisce l'annichilatore. È un uomo di ferro, un vero scienziato. Ma io quell'aggeggio lo chiamo mattatoio. Gibarian non è morto di paura, è morto di vergogna. La vergogna, ecco il sentimento che salva l'uomo. [15]

La ricerca di conoscenza che spinge l'uomo sempre più lontano da casa sua, dalla Terra nel caso spaziale, non è in grado di rispondere scientificamente a tutte le domande dell'umano: l'uomo affronterebbe gli spazi siderali non per trovare nuovi mondi, ma per incontrare uno specchio capace di mostrargli la sua identità e la sua piena conoscenza. Il volo spaziale è il simbolo della più avanzata ricerca scientifica: una volta trovata in esso la possibilità per l'uomo di riflettersi nel proprio mistero, egli capisce che non può trovare le risposte ai suoi interrogativi esistenziali scappando dalla Terra. Nell'intenso dialogo affrontato nella biblioteca della stazione, Snaut afferma:

Ecco dove è il problema: l'uomo ha perduto il sonno. “Il sonno rende uguali il pastore e il re, lo sciocco e il saggio”. La scienza? Sciocchezze. In questa situazione la mediocrità e il genio sono ugualmente inutili. Noi non vogliamo affatto conquistare il cosmo. Noi vogliamo allargare la Terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi. Abbiamo bisogno di uno specchio. Ci affanniamo per ottenere un contatto e non lo troveremo mai. Ci troviamo nella sciocca posizione di chiamarla una meta di cui ha paura e di cui non ha bisogno. L'uomo ha bisogno solo dell'uomo.[16]

Al termine della sua esperienza, Snaut osserva che per Kelvin sia giunta ora di tornare a casa: «Penso sia ora per te di tornare sulla Terra». Kris ritornerà alla dacia paterna abbandonata all'inizio del film per poter compiere il viaggio su Solaris. Lì troverà, carico di nuovi significati prima ignorati e nascosti nel mistero, il padre, a cui si abbandonerà fiducioso in un abbraccio misericordioso. L'uomo fin da Adamo ha sempre vissuto la tentazione di rendersi indipendente dalla propria storia, dalla propria esistenza, dalla propria casa rappresentata nel film dalla Terra: lo strappo esistenziale dell'uomo con il proprio mistero divenuto esplorabile viene risanato dall'abbraccio con il padre e l'attesa della possibilità di nuovi «miracoli crudeli».

Tratto da D. Santimone, Spazio Uomo. L'evento astronautico, Utelibri, Bergamo 2013, pp. 261- 282.


[1] Le opere di Alan Bean sono elencate e visionabili nella sua galleria http://www.alanbeangallery.com/collection.html, 05-01-2013.
[2]A. SMITH, Polvere di luna, Cairo Editore, Milano 2006, p. 206.
[3]Ibid, p. 206-207.
[4] Ibid, p. 208.
[5] Ibid, p. 209.
[6] Ibid, p. 217.
[7] Ibid, p. 204.
[8] Ibid, p. 221.
[9] Ibid, p. 222.
[10] Derivata dal libro di Tom Wolf , The Right Stuff (New York: Farrar, Strauss and Giroux, 1979).
[11] La sceneggiatura fu scritta a quattro mani da Kubrick e lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke (1917-2005). Quest'ultimo pubblicò qualche anno dopo l'uscita del film anche il romanzo omonimo, che funge da spiegazione per le scene più criptiche del film.
[12] La sceneggiatura del film è tratta dall'omonimo romanzo di S. Lem.
[14] Dal film, dopiaggio in italiano.
[15] Discorso di Snaut. Dal film, doppiaggio in italiano.
[16] Dal film, doppiaggio in italiano.