Commento a "la città ideale" di Leonardo

Eugenio Garin

1. Nel manoscritto <i ">B dell’Istituto di Francia il lettore s‘imbatte, a un certo punto (16 <i ">r - 15 <i ">v), in uno schizzo elegante di edifici e di strade fiancheggiate da portici; sotto si legge, delineata in rapidi tratti, nello stile lapidario di Leonardo, l’immagine della città ideale: costruita presso il mare o lungo un fiume, perché sia sana e pulita, verrà edificata su due piani fra loro comunicanti per mezzo di scalinate. Chi voglia, può percorrere tutto il piano superiore senza mai discendere, e viceversa; il traffico di carri e di bestie da soma si muoverà sul piano basso, dove si apriranno le botteghe e si svolgeranno i traffici. «E sappi che chi volesse andare per tutta la terra per le strade alte, potrà a suo acconcio usarle, e chi volesse andare per le basse, ancora il simile. Per le strade alte non deve andare carri, né altre simili cose, anzi sia solamente per li gentili uomini. Per le basse devono andare i carri e altre some, a l’uso e comodità del popolo. L’una casa deve volgere la schiena all’altra lasciando la strada bassa in mezzo»[1].

I particolari minuti a cui Leonardo discende definiscono con precisione l’ufficiò dei due piani della città e sottolineano una distinzione di classi: in alto «li gentili homini»; sotto, secondo l’espressione usata nel Codice Atlantico (65vb), «la poveraglia». In genere, a proposito di questo famoso progetto, si sottolineano le preoccupazioni estetiche; esse tuttavia non sono disgiunte da una concezione politica della città, anzi fanno corpo con essa. Nel Codice Atlantico Leonardo offre consigli a Ludovico il Moro per rendere «bella» Milano: ma anche qui si tratta di una bellezza legata ad una più adeguata funzionalità; dominano, come in tutti questi progetti di città, preoccupazioni igieniche, dell’approvvigionamento idrico, di una equa distribuzione delle persone nelle case e nei quartieri, in modo da evitare ogni sovraffollamento, pericoloso per la salute pubblica e, insieme minaccioso per l’ordine: «e disgregherai tanta congregazione di popolo, che, a similitudine di capre, l’uno addosso all’altro stanno, [e], empiendo ogni parte di fetore, si fanno semenze di pestilente morte».

Alla città medievale, cresciuta disordinatamente su se stessa, con gli edifici ammucchiati lungo le strade strette e tortuose, si vuole sostituire la nuova città pianificata secondo un disegno razionale. Contemporaneamente, ordinamenti complessi e contraddittori si vogliono trasformare in ordini organicamente articolati. È il punto in cui una società, fatta matura, si ripiega su se stessa, riflette sulle proprie strutture e cerca nella lezione del passato un suggerimento per il futuro, commisurando all’insegnamento della storia esperienza e ragione.

Non è difficile trovare in testi classici, letti negli originali, o variamente filtrati, le ispirazioni liberamente rielaborate dai politici e dagli architetti che vanno disegnando la città ideale della Rinascenza. Solo che si rifletta sulla raffigurazione di Leonardo, sulla luminosità del piano alto della sua città, e sull’operosità del piano basso, ove si concentrano i servizi, e tutto ciò che soddisfa i bisogni dell’uomo, anche i più vili; solo che si tenga presente tutto questo, verrà fatto di guardare oltre Vitruvio, alle corrispondenze platoniche fra stato e uomo, fra le parti del corpo umano e le ‘anime’ e le classi: alla gerarchizzazione di reggitori e lavoratori. Questo non significa, si badi, voler ricondurre Leonardo nell’ambito del platonismo, se non per quanto la Repubblica, tante volte tradotta nel Quattrocento, fra Firenze e Milano, doveva incidere un po’dappertutto e perfino nella bottega di un artista geniale. Del platonismo di Leonardo si dovrà certamente parlare, ma in altro modo e su altro piano. Qui si vuole richiamare l’attenzione sulla stretta connessione nei progetti di città ideali, fra struttura politica é struttura architettonica; sulla saldatura fra il corpo e l’anima della nuova polis, nel cui sfondo non è difficile intraveere spesso il profilo dell’antica polis. E lo stato ideale di cui si parla è poi sempre lo stato-città, ossia la res publica che nelle forme architettoniche oggettiva una struttura economico-politica adeguata a quell’immagine dell’uomo che si è venuta definendo nella cultura dell’Umanesimo. Il progetto fissa in linee razionali quello che un’esperienza storica particolare sembra rivelare come corrispondente alla vera natura dell’uomo.

Si è parlato spesso, a proposito degli urbanisti del Rinascimento, dall’Alberti a Leonardo, di un predominio di preoccupazioni estetiche di un divorzio fra bellezza e funzionalità, ossia di una supremazia dell’ornato, di una sorta di prepotenza retorica su concrete esigenze economiche, politiche e sociali. In realtà si tratta piuttosto di un modo di intendere e tradurre la funzionalità. La bellezza a cui Leonardo si riferisce esplicitamente nel suo progetto per Milano, e che è una preoccupazione chiara nel suo disegno di città ideale, coincide con la funzionalità pienamente raggiunta di una forma razionale. Proprio perché la città deve essere di misura umana, e l’uomo nella sua più alta attività, il «gentile uomo», vive nella luce e nell’armonia, proprio per questo gli edifici, le strade, i luoghi dovranno adeguarsi a tale natura. Il disegno di Leonardo, ben lungi dal rappresentare una delineazione fantastica, si connette a reali aspirazioni delle città-stato italiane; e vuole ricondurre una di esse — Milano — a un tipo che risponda a quelle «ragioni» che infusamente vivono in seno a tutta la Natura, e la dirigono, la guidano, la costringono nella loro «necessità». Chi, infatti, al di là dell’urbanistica e dell’architettura in genere, andasse esaminando la concezione filosofica della natura presente in un Alberti come in un Leonardo, troverebbe non poche analogie fra i due artisti proprio nell’idea comune di logoi, di «ragioni seminali», di leggi matematiche immanenti, che l’uomo scopre nel fondo dell’essere, onde innestare fra le cose naturali le proprie opere, nuove sì ed originali, ma che devono trovare un aggancio nelle «necessità» naturali, e obbedire alla rete razionale del tutto, esprimendola e potenziandola. La regione umana, in altri termini non è chiamata a lottare contro forze naturali ostili; deve piuttosto coordinarle attraverso una legislazione che esprime ed integra la legislazione universale entro la quale e non contro la quale si esplica la stessa libera attività umana. Uomo e natura, ragione umana e legge naturale, si integrano reciprocamente; e la città ideale è, a un tempo, la città naturale e la città razionale: la città costruita secondo ragione a misura umana, ma anche la città perfettamente rispondente alla natura dell’uomo.

[…]

4. In verità nel XV secolo il processo di dissoluzione di antiche strutture è ormai giunto al suo limite; ci troviamo di fronte a prese di consapevolezza sempre più chiare, e a soluzioni nuove di situazioni mutate. In molte città italiane i nuovi gruppi di cittadini che hanno raggiunto il potere cercano di consolidarlo in forme adeguate, mentre riorganizzano le città secondo piani rispondenti ai traffici, alle industrie, alle attività bancarie, ai nuovi modi di amministrare. Non a caso vecchie città comunali vedono il loro centro spostarsi verso i palazzi dei grandi banchieri, che ospitano i veri capi politici: a Firenze, dal merlato Palazzo dei Signori, alla splendida Casa Medici, in cui una nuova impostazione architettonica traduce nuovi rapporti funzionali.

In questa situazione si svuota di senso ogni discorso che configuri il ritorno al passato come il vagheggiamento di un mito, o il riferimento al futuro come la prefigurazione fantastica di una perfezione non temporale. L’impegno razionale — ché di questo si tratta — intende valersi delle teorie classiche come di sussidi utili, e di suggerimenti realizzabili, in una condizione che ha visto il consumarsi di sistemazioni insufficienti. In altri termini, nel secolo XV il cosidetto mito dell’antico non è un mito, né la Repubblica platonica un’utopia. Come in fisica Archimede è più attuale e moderno di Buridano, così Vitruvio o Platone appaiono più vivi e più utili dei teorici medievali. Imitare le città antiche, nelle costruzioni come negli ordinamenti, significa obbedire alla ragione e alla natura. Nell’Arte della guerra Machiavelli dice chiaro come sia opera vitale quello che sembra un dedicarsi alle «cose morte». In una città moderna — esclama Fabrizio Colonna — «dove fusse qualcosa ancora del buono» la vita e l’ordine della repubblica romana sarebbero sempre validi. La città ideale nelle pietre e negli istituti è la città razionale, quale i Greci delinearono e attuarono, secondo un tipo che le città-stato italiane si avviano a riprodurre. Quando a metà del secolo XV un dotto bizantino offre a un senatore veneto la versione delle Leggi di Platone, osserva che Venezia realizza già i piani dei filosofi antichi. Gli elogi di Firenze e Venezia sottolineano il rinnovarsi della perfezione reale delle poleis antiche: città esistite che potevano tornare ad esistere. Al posto di modelli collocati in un passato favoloso o in un futuro fuori della storia; al posto di miti, di utopie e di apocalissi, nel Quattrocento troviamo ancora una grande fiducia nella virtù dell’uomo; e il dominio della fortuna è ancora piccolo, e può vincersi con l’accortezza e il calcolo prudente. E si può forse dire di più: che in questa fiducia che l’uomo ha di costruire secondo ragione la città, come già fecero gli antichi, il problema non è di scoprire il modo della edificazione, ma di coglierei il motivo della decadenza. Perché un edificio a regola d’arte crolla? Come mai, si chiedeva già Coluccio Salutati, Palazzo della Signoria a Firenze, così razionalmente perfetto, si spezzerà?

Comunque, e importa sottolinearlo, questo clima in cui uno dei libri antichi più diffusi è la Repubblica di Platone, non è clima di evasioni fantastiche, ma di piani da attuare: non disegni di città immaginarie, ma costruzioni di città reali. Certo, uno dei motivi dell’interesse per Platone è da cercarsi probabilmente nell’idea di uno stato gerarchizzato, strutturato in classi definite; e il parallelo con Venezia era anche troppo facile. Eppure ciò che più colpiva era la razionalità dello stato giusto, la possibilità di raggiungere la concordia attraverso un ordine capace di superare i contrasti. Si ripete che al centro delle nuove città sta come un simbolo la Justitia. «Essa era presente dovunque — ricorda Werner Kaegi — in cento immagini, sulle fontane e sulle porte, nell’affresco della sala del consiglio e sul portale del duomo, nella Praefatio del diritto cittadino o nel Proemium degli atti pubblici; essa era realmente lo spirito vitale e il senso della città»[2]. A Firenze, ricordava Giannozzo Manetti, il Gonfaloniere nell’assumere la carica doveva pubblicamente celebrare la giustizia, ragionarne l’essenza e chiarirne l’interpretazione.

Ma in quella ripresa della Repubblica platonica c’è qualcosa di più: c’è l’idea di una giustizia che è capace di inserire l’ordine umano nell’ordine naturale, di rimandare la legge umana alla legge di natura. L’età medievale fino a tutto il Trecento aveva letto il Timeo, il libro del1a naturalis justitia, della legge che regola la natura e i regge il mondo. Quando all’alba del XV secolo Emanuele Crisolora apre ai latini la Repubblica platonica, è la civilis justitia che indica la possibile estensione alle comunità umane di un ordine geometrico. Nel punto in cui sta per affermarsi la nuova scienza della natura — si pensi a Leonardo — si vagheggia una costruzione scientifica anche della città, secondo matematica, ossia secondo ragione.

«Il sapiente dominerà le stelle»: il famoso motto dell’astrologia ritorna spesso nelle scritture del Quattrocento intese a esaltare l’uomo; e vuol dire che l’uomo, calcolando, può sottrarsi anche al fato stellare. Ma vuol dire anche che solo gli ‘scientifici’, come li chiama l’architetto Francesco di Giorgio Martini, possono insignorirsi delle cose e organizzare la loro comunità. Lo stacco platonico fra savio e sovrano deve cadere. Il motto caro ai signori del1a Rinascenza — «un re non letterato è un asino coronato” — è un omaggio reso al sapere attivo, al1a necessità della scienza per ogni opera. In certo senso la saldatura fra la città fisica, ossia fra l’architettura della città, e la città morale e civile, traduce in forma tangibile il nodo e la continuità fra natura del mondo e civitas secondo natura, fra leggi naturali e leggi civili, mentre certi temi di Cicerone da una parte e di Vitruvio dall’altra si caricano di una forza nuova.

Uno studio comparato di una parte della letteratura politica e delle opere dei tecnici dell’architettura e degli urbanisti del Quattrocento può dare non pochi frutti. Uberto Decembrio, traduttore del1a Repubblica insieme al Crisolora, nei suoi dialoghi politici ripercorre le vicende dello stato visconteo attraverso il capolavoro platonico. D’altro canto il Filarete, fiorentino trapiantato in Lombardia e architetto dell’ospedale di Milano, trasfigura nella sua fantastica Sforzinda il progetto della città perfetta[3].

La stessa città dell’Alberti, più ancora che medievale o preromantica — come è stata detta — è piena delle preoccupazioni di una giustizia platonica, con le sue nette divisioni di classi, solidificate in mura che chiudono «un circuito dentro un altro», una città dentro un’altra, e sempre secondo lo schema dei circoli concentrici. In Leonardo da Vinci saranno piani: su, alla luce del sole e del vero, i gentili uomini, i reggitori; giù i lavoratori, «la poveraglia”. Nell’Alberti dentro un muro «gagliardissimo e altissimo» con torri e merlature e fossato a guisa di fortezza, «fino a tanto che sopravanzi a tutti i tetti degli edifizi privati», stanno i mercanti e quanti provvedono ai bisogni del ventre: «i pizzicagnoli, beccai e cuochi e simili”[4].

L’Alberti, a dire il vero, distingue i principati nuovi e i regni dalle libere repubbliche. I principati nuovi devono arroccarsi sulle montagne, e stare sulla difensiva, in sospetto e timore; laddove i popoli liberi possono abitare le comode città della pianura. Ma a parte questo cenno, la città albertiana è costruita per scandire le differenze di classe, per adeguare nelle mura. e negli edifici una struttura politica precisa. Architetto diventa così sinonimo di regolatore e coordinatore di tutte le attività cittadine; liberamente riprendendo l’espressione aristotelica, l’Alberti presenta l’architettura come arte delle arti, unificatrice e regina di tutte le altre. L’urbanistica, più che essere connessa con la politica, fa corpo con essa e quasi l’esprime esemplarmente. «Architettore chiamerò io colui, il quale saprà con certa, e meravigliosa ragione e regola, sì con la mente e con l’animo divisare; sì con l’opera recare a fine tutte quelle cose, le quali mediante movimenti di pesi, congiungimenti ed ammassamenti di corpi, si possono con gran dignità accomodare benissimo all’uso degli uomini. E a potere far questo, bisogna che egli abbia cognizione di cose ottime ed eccellentissime, e che egli le possegga”.

Chi ponga mente, più di quanto non si faccia, alla trattatistica degli urbanisti, dei tecnici militari, degli artisti in genere, troverà negli «scientifici» l’idea di una conoscenza operativa volta alle costruzioni per la comune utilità e la convivenza civile, universale e capace di assommare in sé tutto il corpo delle scienze e delle arti. Come nella città si riuniscono e si attuano tutte le opere dell’uomo in società, così chi edifica e struttura la città incarna la totalità delle funzioni umane. Così il Ghiberti chiede per l’artefice una conoscenza di tutto; così Leonardo vuole per il suo pittore una scienza universale. Leon Battista Alberti, anzi, arriva a dire che l’uomo è per natura costruttore; che è uomo proprio in quanto architetto. «Quanto il pensiero e il discorso dello edificare diletti, e sia fitto dentro negli animi degli uomini, si vede da molte cose e da questa ancora, che tu non troverai nessuno, purché egli abbia il modo, che non abbia dentro una certa inclinazione di edificare qualche cosa; e se egli avrà col pensiero trovato cosa alcuna appartenente allo edificare, volentieri da se stesso non la dica, e non la manifesti all’uso degli uomini, quasi che sforzato da natura»[5].

Senza dubbio per l’Alberti edificare ha significato larghissimo: edifica chi fa chiese e fortezze, chi regola fiumi e costruisce dighe o porti, chi bonifica e argina le acque, ma anche chi fabbrica navi e macchine da guerra. Per l’Alberti non v’è separazione fra circolazione di merci e di idee, fra «le vettovaglie, le spezierie, le gioie, e le notizie e cognizioni delle cose e tutto quello che è utile alla salute e al modo della vita». Ed è la città nella sua consistenza fisica, negli edifici, che fa reale e concreta la polis, e le permette di attuarsi in pieno. Per questo l’architetto è uomo universale, o, se si preferisce, il reggitore si fa architetto, e il politico teorico dell’architettura, nel punto stesso in cui la scienza si fa pratica e si connette con la sapienza politica. Per questo non si possono comprendere le concezioni politiche del Quattrocento prescindendo dai costruttori delle città: da quel «murare» di Cosimo che pare una frenesia, da quell’edificare di Niccolò V, da quel mutar volto alle città perché erano mutate le attività, e se ne era spostato il centro, erano cambiati i rapporti sociali e il modo della vita. E gli urbanisti, e i loro committenti, più ancora che rispondere a delle richieste, venivano imponendo i loro piani, «secondo le ragioni dell’architettura» — come diceva Francesco di Giorgio. Le quali ragioni erano poi queste: che si devono costruire «proporzionate abitazioni e dilettevoli... con dilettabile apparenza e amena esistenza”, intorno alla piazza e al mercato, che è «come il bellico dell’uomo”. E tutta la città ha da essere a misura d’uomo; infatti «essendo il corpo dell’uomo meglio organizzato che alcun altro, come più perfetto, è cosa conveniente che qualunque edificio ad esso si può assimigliare”[6]. Che in questa atmosfera l’immagine più impressionante della città ideale sia stata delineata proprio da un architetto, non è cosa che meraviglia. Tale, appunto, il caso del Filarete, ossia di Antonio Averlino, nato a Firenze proprio nel 1400, e che tra il ‘60 e il ‘64 completò i venticinque libri del suo Trattato d’Architettura, dedicato allo Sforza, e donato poi a Piero dei Medici in una splendida copia illustrata, conservata oggi alla Biblioteca Nazionale di Firenze.[7]

Anche per il Filarete l’uomo è portato per natura a edificare; costruire è come generare: «non è altro lo edificare, se non un piacere voluptuario, come quando l’uomo è innamorato». L’uomo artifex esprime a pieno la sua attività primaria nella città; e la costruzione riproduce l’immagine del costruttore, e come lui è sempre individuata. «Così ti do l’edificio sotto forma e similitudine umana esser fatto... Tu non vedesti mai niuno edificio, o vuoi dire casa, o abitazione, che totalmente fusse l’una come l’altra, né in similitudine, né in forma, né in bellezza: chi è grande, chi è piccolo, chi è mezzano, chi è bello e chi è men bello, chi è brutto e chi è bruttissimo come nel uomo proprio. Sì che credo che Idio, come che mostrò nella generazione umana e anche nelli animali bruti questa varietà e dissimiglianza per dimostrare la sua grande potenzia e sapienza et anche, come io ho detto, per più bellezza, e così ha concesso all’ingegno umano, messo che l’uomo non sa da che si venga che non sia fatto ancora un’edificio che totalmente sia fatto proprio come un altro”.

E tuttavia la ragione pianifica i vari edifici, e Sforzinda, la ville radieuse della Rinascenza, è «bella e buona e perfetta secondo il corso naturale». Le costruzioni rispondono organicamente ai bisogni dei cittadini, al loro governo, alla giustizia, all’educazione, alla formazione degli artigiani, alle esigenze della difesa, alla cura delle malattie, agli esercizi ginnastici. Ogni edificio di Sforzinda traduce in pietra un capitolo dell’ordinamento economico e politico della città. Ne viene fuori quella selva di costruzioni secondo ragione, ma anche rispondenti a una fiammeggiante fantasia, che il Filarete esprime in disegni singolari ove il grandioso si affianca al particolare minuto e quasi pedante: il collegio con le sue camerate, la prigione con i suoi tormenti; e questo mentre si definiscono le istituzioni, si abolisce la pena di morte, e le leggi suntuarie attuano una sorta di equilibrio sociale.

Uno storico recente ha osservato che l’Averlino è stato il primo a elaborare il piano organico di una città intera, ma ha soggiunto che, se dagli edifici singoli passiamo alla nozione del tutto, dal campo del possibile entriamo in quello dell’utopia. Così, se consideriamo la struttura politica di Sforzinda, troveremo «un organismo di stampo comunale, con le sue bonarie magistrature civiche, le rigide corporazioni di mestiere, una semplicità patriarcale, costumi severi, profondo senso degli interessi collettivi», e su tutto, contraddittorio e inutile, un principe della Rinascenza.[8] Tutto vero: ma questa, spesso fu la situazione reale delle città: strutture repubblicane in crisi, principi che fondano stati nuovi, e nascita di nazioni al di là degli stati cittadini, mentre lo stato-città, che doveva essere il capolavoro di un’organizzazione razionale, si consuma all’interno ed è soffocato all’esterno. I progetti razionali della polis si infrangono entro processi storici che li superano; tra delusioni e sconfitte nascono profezie, previsioni apocalittiche, evocazioni di paradisi originari e sogni di soluzioni al di fuori di ogni realtà. Non più Sforzinda, ma città solari e repubbliche immaginarie.

5. La città ideale di tante scritture del secolo XV è una città razionale; è una città reale portata a compimento, svolta secondo la sua natura; è un piano o un progetto attuabile; è Firenze, è Venezia, è Milano, quando siano perfezionate le loro leggi e finite le loro «fabbriche». Ed è la città naturale, che osserva le leggi immanenti alle cose. Senza estremismi, la giustizia è fatta di coordinamenti e di organizzazione; è un problema risolubile con deliberazioni sagge e volontà concordi, con eque tassazioni. Di Platone si ammira la razionalità, l’architettura, la distribuzione in classi, piuttosto che la comunione dei beni e delle donne. Così nelle strutture fisiche come negli istituti la città ideale è un disegno in via d’attuazione, nella fiducia che l’uomo ha di sé, confermata dalle antiche storie di città ideali che si realizzarono; Atene e Sparta, come Firenze e Venezia. I problemi sono tutti di politica e di urbanistica, di saggezza e di giustizia. Ed è importante che in queste scritture, dialoghi, storie, elogi, scarso o nessun posto abbiano i grandi temi religiosi. La città ideale del Quattrocento è in terra, e non si confonde né si confronta con la città celeste. Bene individuata, colloca la propria condizione di vita nelle autonomie, nell’armonia dei molti, nella molteplicità coordinata. Seguendo le metamorfosi della città di Dio Gilson nel Quattrocento non ha trovato che un testo da esaminare, il De pace fidei del Cusano; ed ha concluso che il filosofo non si pose un problema religioso, ma il problema della pace in terra, riconoscendo l’esistenza di fatto di una molteplicità di credenze fino a legittimarla. Non più «l’unità di una sola e identica saggezza», ma «la coesistenza di religioni differenti in seno a una pace comune». In Terra la «saggezza» deve accogliere i molti e coordinarli.[9] Ancora una volta pluralità e armonia, e, in primo piano un problema di coesistenza umana, terrena.

In tutto questo era dominante la fiducia umanistica nell’uomo, nella sua ragione, nella sua capacità di edificare: l’homo faber artefice di sé e della sua fortuna. E tuttavia, chi segua le scritture del Quattrocento è colpito proprio dal variare del tema della fortuna, dall’ampliarsi del suo regno, da una crescente sfiducia nelle forze dell’uomo, dal senso che anche quelle città perfette dell’antichità furono disfatte alla fine dalla fortuna. Ed è la tuch che distrugge anche la repubblica di Platone; al saggio non resta che riflettere sulle cause della decadenza di Roma. Così sul cadere del secolo scoppiano le profezie, di sventura e di palingenesi, di catastrofi e di riscatti. La Firenze di Savonarola, la mistica erede di Gerusalemme, la nuova città santa, è molto lontana dalla Firenze di Leonardo Bruni. E se è vero che Savonarola, nel concreto dell’opera politica, continuava a credere nella perfezione degli ordinamenti veneti, è pur vero che al di sopra del tempo vedeva incombere la giustizia divina, implacabile nel colpire il peccato. Il trionfo della giustizia nella città non è soltanto opera di saggi reggitori; è legato al ritmo di peccato e redenzione, e all’intervento divino. L’avvento della città ideale si lega alla profezia del «secolo nuovo», del rinnovamento umano, della pace universale, dell’unificazione del gregge umano sotto un solo pastore. A un rigoroso ragionare, a un discorso di magistrature e di imposte, di rapporti fra larghezza di strade e altezza di edifici, di piani regolatori e di tribunali, sottentra una visione di nuove Gerusalemmi, di città solari, di monarchie universali. Un empito religioso, e l’eco delle profezie dell’abate Giovacchino sostituiscono un misurato discorso umano.

E se la riflessione di Machiavelli, legata all’esperienza e alla lettura delle antiche storie, è compagna dei pensieri di Leonardo, il Cinquecento vede, con le esercitazioni platoniche di Francesco Patrizi e le bizzarrie di Anton Francesco Doni, le «repubbliche immaginarie» che vogliono salvare anacronisticamente, fra invasioni e guerre di imperi, l’illusione del piccolo stato-città.[10] La realtà effettuale è un’ansia religiosa, fra sconfitte e speranze, per un secolo nuovo che liberi l’umanità da ogni servitù, portandola oltre quegli ordini e quelle gerarchie di classi, che la repubblica platonica e lo stato aristotelico non facevano che ribadire, e che la giustizia dei Comuni come quella delle città rinascimentali consideravano fondate su natura e ragione. Nello sconforto savonaroliano come nell’amarezza di Machiavelli si esprimeva la catastrofe di una civiltà. Il Quattrocento svelava la sua ambiguità: oltre l’annuncio di un rinnovamento, la tristezza di un tramonto: e mentre le splendide città cadevano, in un clima religioso di attesa si chiedeva a un rinnovamento totale una condizione diversa dell’uomo, e la sua liberazione dalla schiavitù alla natura e alle sue leggi. Ed è a queste richieste che risponderanno ormai, anche se in modo tanto diverso, la Città solare di fra’ Tommaso Campanella e la Nuova Atlantide del Cancelliere Francesco Bacone: una riforma religiosa da una parte, la scienza moderna dall’altra, svincolata ormai da ogni nostalgia del passato.

tratto da Scienza e Vita nel Rinascimento Italiano, Bari, 1965, pp. 33-56.



[1] LÉONARD DE VINCI, Manuscrit B de l’Institut de France, Grenoble, 1960, pp. 47-9.
[2]W. KAEGI, Meditazioni storiche a cura di D. Cantimori, Bari, 1960, p. 20.
[3]U. DECEMBRIO, De re publica (Milano, Bibl. Ambros., B 123 sup., f. 80 e sgg.); A. AVERLINO FILARETE, Tractat über die Baukunst (ed. parziale a cura di W. von Oettingen), Wien 1896.
[4]L. B. ALBERTI, Della architettura libri dieci (trad. Cosimo Bartoli), Milano 1833, pp. 135-6.
[5]L. B. ALBERTI, Della architettura, p. XXI.
[6]FRANCESCO DI GIORGIO MARTINI, Trattato d’architettura civile e militare (ed. Cesare Saluzzo), Torino, 1841, pp.156-7, 191,193.
[7]Ms. Naz. II, I, 40.
[8]L. FIRPO, La città ideale del Filarete, in «Studi in memoria di Gioele Solari”, Torino, p. 56.
[9]E. GILSON, Les metamorphoses de la cite de Dieu, Louvain-Paris, 1952, pp. 180-1.
[10] L. FIRPO, Lo stato ideale della Controriforma, Bari, 1957, p. 241 sgg. (cfr. Utopisti e riformatori italiani del Cinquecento, a cura di C. Curcio, Bologna, 1941; Utopisti italiani del Cinquecento, a cura di C. Curcio, Roma, 1944).