“Nonostante gli stretti legami storici fra la scienza e la filosofia, gli scienziati contemporanei spesso percepiscono la scienza come qualcosa di completamente differente dalla filosofia, quando non in aperta opposizione ad essa. Noi, al contrario, argomenteremo qui che la filosofia può avere un impatto importante e produttivo sulla scienza”. Sono queste le parole con cui prende avvio l’articolo pubblicato qualche settimana fa sui Proceedings of the National Academy of Sciences, una delle più importanti riviste scientifiche che fanno opinione oggi, il cui testo integrale è a disposizione in una pagina del nostro portale in lingua inglese. Il testo, firmato da 9 ricercatori, fra i quali 3 italiani, è stato commentato nei giorni scorsi da vari organi di stampa e di informazione, anche in Italia. Due autori fra i firmatari, Carlo Rovelli (fisico) e Alberto Mantovani (immunologo), sono infatti ben noti anche al nostro pubblico per il loro impegno scientifico. Nasce allora una domanda: Come mai finisce sui giornali il contenuto di un articolo scientifico che questa volta non parla della scoperta di acqua sotto la superficie di Marte, di un esperimento di clonazione avanzata o della scoperta di un frammento osseo di un ominide sconosciuto? Su questi temi, sì, ci saremmo aspettati un ampio rilancio, ma non riguardo ad un articolo che auspica un maggiore dialogo fra filosofi e scienziati.
L’articolo in questione —è questa la nostra valutazione— pur nella sua essenzialità sembra segnare un punto di svolta. Se abbiamo la pazienza di leggerlo (sono solo 4 pagine), ci renderemo subito conto della sua novità. Non siamo di fronte alla semplice esortazione, come giunge ormai da più parti, di promuovere lavori interdisciplinari che riuniscano insieme umanisti e uomini di scienza. A partire dagli anni ’70 del XX secolo, questa esortazione, sebbene in buona parte ancora disattesa, si è fatta strada in molti ambienti accademici. I finanziamenti della Comunità Europea, basti pensare al recente programma-quadro Horizon 2020, sono da tempo soliti privilegiare progetti che tengano conto sia delle dimensioni scientifico-sperimentali, sia di quelle umanistico-culturali. Non siamo neanche di fronte ad un commento, di tono moralistico, nel quale si richiami la scienza alle sue responsabilità etiche, chiedendo di riflettere sulle conseguenze del progresso tecnologico, sull’ambivalenza dei big data, sui problemi ambientali o sulle applicazioni troppo disinvolte in settori della biologia o della medicina. Pur prendendo avvio da alcuni risvolti etici di temi circoscritti, gli autori puntano verso una direzione diversa ed assai più ampia. Nell’articolo di Mantovani, Rovelli e colleghi, la filosofia non viene fatta scendere in campo per richiamare la scienza entro i suoi limiti, per risolvere gli eventuali guai che essa potrebbe arrecare alla società, o per farle valutare rischi e profitti. Non siamo di fronte ad un comune, quanto a volte stereotipato avvertimento, contro i pericoli della specializzazione o contro l’estrema astrattezza del formalismo scientifico. Volendoci esprimere in poche parole, nell’articolo “Perché la scienza ha bisogno della filosofia”, gli autori non affidano alla filosofia il compito di mostrare i limiti della scienza, bensì un compito assai più importante, quello di mostrare i suoi fondamenti. La novità che ci pare qui importante sottolineare è il riconoscimento del contributo della filosofia al progresso delle conoscenze scientifiche in quanto scientifiche. Il motivo per cui la scienza ha bisogno della filosofia è, in sostanza, quello di poter essere una migliore scienza.
Questa impostazione, finora ribadita da autori di nicchia —pensiamo a Polanyi, Cantore, Nicolescu, o al nostro Giorgio Israel, solo per fare qualche nome— viene adesso messa in luce con sobria ma importante chiarezza. Fino a questo momento, per un giovane ricercatore impegnato nelle cosiddette hard sciences, interessarsi di questioni filosofiche era visto (ed è ancora in larga parte visto) come una perdita di tempo, qualcosa da rimandare al termine della propria carriera, quando ci sarà la possibilità di scrivere saggi su temi extra-scientifici. La necessità di pubblicare su riviste specializzate, di alto impact factor, ha sempre finora suggerito di non coltivare, in età scientificamente feconda, questo tipo di interessi. In Italia, le rigorose ripartizioni disciplinari del MIUR fanno sì che nei concorsi non vengano computati come curriculum significativo quegli articoli che non siano inquadrabili solo e soltanto entro il settore disciplinare per il quale si concorre. Una volta, un giovane dottorando in astrofisica mi confidò che il suo tutor di dottorato gli aveva caldamente consigliato di eliminare dal suo curriculum una ricerca svolta insieme ad altri autori nell’ambito della sociologia della scienza, per evitare che i suoi superiori lo pensassero poco concentrato sul suo lavoro! In realtà, un simile episodio assai probabilmente non avrebbe avuto senso in un’università statunitense, dove la capacità di scrivere e pubblicare in campi diversi dal proprio è vista come una qualità ed un merito curriculare, non come una dispersione, innecessaria o addirittura dannosa.
Gli autori di Why Science needs Philosophy incoraggiano invece i giovani ad avere interessi storici e filosofici fin dall’inizio della loro carriera scientifica, come importante elemento per comprendere con maggiore profondità la scienza in quanto scienza, e dunque per poter meglio inquadrare la portata e la correttezza dei risultati raggiunti. Intese così, la filosofia, la storia, l’antropologia o l’epistemologia non sono più un ammennicolo opzionale, pura cosmesi per mostrare che si è al corrente di qualche dibattito interdisciplinare o si conosce il nome di qualche filosofo della scienza. Divengono il quadro necessario entro cui valutare meglio e con maggiore competenza la portata del proprio oggetto di studio e di ricerca, e assumono il valore di importante risorsa per l’avanzamento della propria disciplina. In questo modo la specializzazione —da difendere in sé perché necessaria ad ogni seria ricerca— non viene più vista in opposizione alla cultura o all’unità del sapere. Ad opporsi ad una formazione culturale ampia ed equilibrata non è la specializzazione, ma il riduzionismo. E si tratta di due cose ben diverse. Lo aveva capito bene già John Henry Newman, che nella sua Idea di Università (1852) lodava il sapere specializzato biasimando invece l’ignoranza e la ristrettezza mentale.
Gli autori non ignorano le difficoltà che il progetto di poter avvicinare fra loro la comunità dei filosofi e quella degli scienziati certamente incontra. Vi sono problemi di linguaggio, di background conoscitivo, di tempo, oltre a comprensibili diffidenze che l’uno deve superare in merito alla rilevanza del lavoro dell’altro. A queste oggettive difficoltà gli autori dell’articolo in questione rispondono con importanti raccomandazioni programmatiche, che puntano soprattutto sui giovani, e dunque sulla preparazione di un nuovo terreno fertile che consenta in futuro di raccogliere frutti significativi. Sono raccomandazioni che meritano di essere prese sul serio. Ci vengono offerte sotto forma di una lista concisa ma preziosa, che non dovrebbe essere ignorata da chi ha la responsabilità di impostare i nostri ordinamenti scolastici e universitari. Ne riproponiamo, quasi letteralmente le idee essenziali. a) Favorire la partecipazione di filosofi a convegni di scienziati e viceversa, dando loro spazio affinché rivolgano domande e offrano i loro punti di vista; b) aprire i laboratori scientifici ai filosofi: in tal modo si rendono i filosofi più familiari con la ricerca scientifica e si possono ascoltare le loro osservazioni sui modi in cui la ricerca è condotta; c) fare in modo che i dottorati di ricerca possano avere come supervisore sia uno scienziato che un filosofo, facendo così maturare nella mentalità del nuovo dottore i frutti del loro dialogo; d) dare origine a curriculum integrati di filosofia e scienze, valorizzando quanto si sta già facendo in modo embrionale in alcuni Paesi: tutti i curriculum di studi scientifici dovrebbero avere come obbligatori insegnamenti di storia e di filosofia della scienza, mentre tutti i curriculum filosofici dovrebbero contenere almeno istituzioni di insegnamenti scientifici; e) fare in modo che i ricercatori in scienze leggano delle opere di filosofi e i ricercatori in materie filosofiche leggano opere di scienziati; g) aprire sezioni di taglio filosofico, inerenti temi specifici, in riviste di ambito scientifico, in modo da facilitare l’accesso degli uomini di scienza alle riflessioni dei filosofi.
Potremmo provare a sognare quali profili formerebbero simili curricula universitari, quali ricercatori opererebbero in simili laboratori e quali studiosi sorgerebbero da un simile scambio di conoscenze. Non dei tuttologi, ma semplicemente delle persone colte, profonde, quelle di cui ha sempre più bisogno la società odierna. Non è fermando la scienza che si rende la società più umana, ma esplicitando e valorizzando le dimensioni umanistiche che la scienza certamente possiede. Una sfida intellettuale e culturale difficile, ma oggi possibile, più di ieri. E forse, ormai, anche doverosa.