Luna, Mare della Tranquillità, 20 luglio 1969. Il modulo lunare Eagle della missione Apollo 11 atterra sul suolo lunare. All’interno due uomini, il pilota del modulo Edwin “Buzz” Aldrin ed il comandante di missione Neil Armstrong. I primi esseri umani che si posano sul satellite naturale della Terra. Tecnicamente i primi uomini sulla Luna sono due, dire il primo uomo non è corretto. Ci sarà il primo dei due che svolgerà l’attività extra-veicolare, che camminerà sulla superficie lunare prima dell’altro. Ma ad ogni modo meriti e rischi sono sostanzialmente condivisi lungo tutta l’intera missione.
Però il fascino del “primo” ha da sempre concentrato la narrazione giornalistica, politica e filosofica sul comandante Armstrong, il primo che ha sceso la scaletta dell’Eagle e impresso l’impronta della sua sovrascarpa sulla regolite lunare. Un simbolo patriottico, trofeo della vittoria USA sull’Unione Sovietica nella corsa allo spazio, un riferimento nei libri di storia dei decenni a venire.
Il Neil Armstrong di Chazelle non è nulla di tutto ciò. Il film (D. Chazelle [regia di], First man. Il primo uomo, 2018) non celebra la missione Apollo 11 e il suo equipaggio, in un certo senso neppure il primo uomo sulla Luna. Si pone invece in ascolto della vita di quella persona che cinquant’anni fa ha compiuto simbolicamente quel “piccolo passo per un uomo, un balzo da gigante per l’umanità”. Ecco allora che Aldrin non è sullo sfondo in quanto secondo, ma in quanto parte del paesaggio del mondo abitato da Neil, che il film intende esplorare.
E gli eroi non esistono, esistono solo persone eroicamente vive. Un altro elemento messo ben in chiaro dal film: non c’è interesse per il comandante astronauta, c’è desiderio di contemplare Neil, nel suo essere uomo, marito, padre, amico, … che è anche astronauta. Sulla Luna non ci sono andati astronauti, ma persone che di professione facevano astronauti. Unitamente al loro vissuto, relazioni, emozioni, desideri, paure, dolori, gioie… mentre sulla Terra sono rimasti eroicamente i loro cari, come Janet, la moglie di Neil.
La soggettiva delle inquadrature di First man con la camera a spalla ricerca costantemente di restituire allo spettatore la sensazione di partecipare all’esperienza narrata, in una immersività che fa cogliere la tensione delle fasi di missione più delicate, all’interno di veicoli spaziali (Gemini e LEM Apollo) claustrofobici e dall’apparente precarietà. Non c’è spazio per scenari mozzafiato o effetti speciali: tutto è centrato sul piccolo mondo racchiuso dalle pareti delle capsule, ambiente vivibile e ospitale a fronte dell’ostile vuoto cosmico esterno.
Molto riservato, introverso e composto, pilota collaudatore, laureato in ingegneria aeronautica, Neil lavorava da alcuni anni alla NASA all’aero-razzo X-15 prima di candidarsi al programma spaziale della NASA, probabilmente spinto anche dall’esigenza di dare un nuovo inizio alla vita della sua famiglia, tormentata dalla morte della piccola figlia a causa di un cancro (cfr. J. Hansen, First Man. La biografia autorizzata di Neil Armstrong, Rizzoli, Milano, 2018, pp. 137-138). Anche lui – come ogni essere umano – è un micromondo. E la sua persona in particolare – in accordo alla sua biografia ufficiale e alle testimonianze dei suoi familiari – ha una superficie difficile da scalfire, a causa di una fredda introversione del suo carattere. Un micromondo di comprensione non immediata, che in momenti puntuali della pellicola però si disvela, in maniera sintetica e concisa ma con chiarezza. Questa impossibilità di comunicare che causa freddezza nei rapporti interpersonali dell’astronauta, sembra rappresentata dalla solitudine e dalla desolazione della Luna, quasi a significare che per raggiungere quella meta occorra separarsi dalla Terra, esiliando la propria esistenza … oppure più semplicemente che la Luna rappresenti quell’altrove dove spesso Neil fa intendere di rinchiudersi in solitudine. Ma questo non significa che sia solo.
Nonostante sia un film biografico, Neil non è l’unico protagonista. In un contrappunto costante fra il mondo della casa e quello della NASA, Janet costruisce la narrazione insieme al marito: ogni impresa – casalinga o lunare – è realizzata a quattro mani. Dietro ad ogni grande uomo c’è una grande donna, si direbbe rifacendosi al contesto sociale di quegli anni. La moglie del primo uomo sulla Luna è regina del focolare, accogliente, custode, determinata; avviata ad una impresa – quale quella familiare – fortemente segnata dalla morte e dal rischio che qualcosa di negativo succeda, sia che ci si trovi nello spazio profondo che fra le mura di casa. E la coppia di consorti esprime la doppia funzione genitoriale, con la tensione di Neil di uscire dalle mura di casa unitamente a quella di lei che lo sostiene ma che al contempo lo richiama alla concretezza della Terra, alla richiesta di essere marito e padre, maturo e responsabile. Una moglie che mostra la realtà terrestre per quella che è, senza sconti: nel film, ai dirigenti della NASA durante la crisi dell’Agena in Gemini VIII dirà «Sembra tutto sotto controllo, in realtà non avete niente sotto controllo! Siete solo bambini che giocano con gli aeroplanini di legno!». Sarà Janet a mettere più in crisi Neil durante il film, soprattutto quando deve affrontare il suo essere padre nello spiegare ai figli che sarebbe partito per una missione con il 50% di probabilità di successo. Il nervosismo dell’astronauta mostra come per lui sia più facile sbarcare sulla Luna che parlare con la sua famiglia. Quella è la sua vera sfida.
Neil è chiamato a crescere nella sua funzione paterna, metaforicamente rappresentata dall’astronauta che varca i confini terreni, proiettando sé stesso prima di tutto verso l’esterno. E per primo deve sperimentare l’uscire dal focolare “terrestre”: è un padre, in quanto primo nell’esistenza della sua famiglia, non in quanto primo uomo sulla Luna. Così ogni paternità si mostra nell’unicità ed eroicità condivise con la maternità. Il primo uomo sulla Luna in realtà è il primo – l’Adamo – di una umanità in quanto padre: in ogni padre c’è l’Adamo, poiché si diventa padri in una prima volta e agli occhi dei figli si è addirittura l’unico.
Neil è un padre che – proprio in quanto tale – dovrà fare pace con il lutto della perdita della figlia: il “piccolo passo per un uomo” sulla Luna sembra scomparire di fronte a quelli che Neil affronta nella vita familiare.
Il film si concentra spesso sul tema della desolazione solitaria, del lutto, e sulla ricerca di un riscatto ad essi, un nuovo inizio, da parte di Neil e della sua famiglia. Questo tentativo salvifico si struttura in una impresa – quella lunare – che tanto ha dato a domandare circa il suo beneficio effettivo. Vale la pena raggiungere la Luna? Da sempre questa domanda accompagna le imprese astronautiche, ponendo sul tavolo della questione incidenti, morti, sforzi economici, disuguaglianze sociali, … denunciando di raggiungere le stelle abbandonando l’irrisolto sulla Terra.
In realtà il “ne vale la pena?” sollevato da First Man non si limita alla corsa alla Luna. È una domanda schietta all’esistenza, alla vita, all’esperienza umana. E il volo spaziale diviene metafora e occasione di riflessione: è la ricerca di una assoluzione e redenzione per qualcosa che Neil non è riuscito ad evitare, come la morte della figlia? Quanto si è disposti ad andar lontano dalla propria “casa” per ottenere un nuovo inizio, o ottenere una risposta? È possibile? Bastano quelle piccole capsule – icona dell’impresa tecnica umana, di un viaggio nuovo – lanciate nell’infinito a mostrare una nuova via?
In questi viaggi esistenziali interiori – ben più ambiziosi del volo Apollo – si evidenziano nel film i momenti abissali nei quali Neil si scontra-incontra con il mistero dell’uomo. Il tema principale della colonna sonora ritorna puntualmente lungo tutto il film, intensificandosi nel momento dell’atterraggio sulla Luna: tutto il vissuto di Neil è un continuo esplorare, atterrare. Il regista ha chiaramente scelto di evidenziare come il mondo di Neil fosse segnato dalla morte, dall’incapacità di rielaborare il lutto della figlia. Ed il suo carattere introverso nelle relazioni in fondo è come la Luna, un territorio altro rispetto al pianeta Terra, con il quale è posto in relazione gravitazionale nel loro pellegrinare attorno al sole.
Neil scappa dalla morte e nella solitudine lunare – «magnifica desolazione» come la chiamerà Aldrin – trova ancora la morte e non la vita. Ma porta con sé il braccialetto della figlia morta. Non è una ricostruzione storicamente esatta, seppur si rifaccia ad una ragionevole teoria confermata dai parenti dell’astronauta (cfr. Hansen 2018, p. 417), ma apre ad un enorme valore simbolico nel film. Sulla Luna dell’Orlando furioso Astolfo ci andava per riprendere la ragione dell’amico, Neil invece per seppellire il dolore della figlia. E torna a casa. Il profilo di missione diviene metafora dell’uscire dal quotidiano per poter congedarsi da un vissuto imprigionante e tornare a casa per ripartire grazie al nuovo inizio. Si scorgono le dinamiche di un rito di passaggio, con l’allontanamento per una successiva reintegrazione: questo nuovo inizio genesiaco è quello che afferma con forza quanto questo viaggio ne sia valsa la pena.
Apollo 11 diviene metafora del carattere e del vissuto di Neil: è il suo estraniarsi ed il cercare un punto di contatto, limpido come l’atmosfera, capace di abitare le relazioni. Una linea sottile simile a quella dell’orizzonte desertico che si mostra nella scena dell’X-15 all’inizio del film. Ma a differenza di questa, la linea blu dell’atmosfera permette la vita, ed è richiamata dal vetro di quarantena che nell’ultima scena del film separa Neil da Janet. Con un poco di ambiguità e beneficio del dubbio: al termine di tutto il viaggio, c’è ancora quel vetro fra di loro? È lo stesso del passato o è cambiato? È per isolare lui o proteggere lei? Il bacio reciproco che oltrepassa la barriera trasparente sembra proporre un nuovo inizio, per nulla miracoloso o da happy end, ma presente come la gravità terrestre ritrovata da Neil e degno della profondità che – nonostante la magnifica desolazione che spesso li ha accompagnati – ha abitato chiaramente il legame dei consorti lungo tutta la narrazione.
First Man è la storia di un uomo che nonostante (o grazie?) le avversità della vita è andato sulla Luna. E in fondo ci insegna proprio questo: che la grandezza della persona abita la sua fragilità e finitudine, facendogli compiere nel suo vissuto piccoli passi forse insignificanti per la storia umana ma grandi balzi per la sua umanità.