Questo sermone di John Henry Newman, pronunciato all'Università di Oxford il 13 gennaio 1839, rappresenta uno dei suoi testi più classici sul rapporto fra fede e ragione. L'interesse del testo sta nel fatto che esso già presenta le idee di base che 30 anni più tardi saranno strutturate ne La grammatica dell'assenso (1870). Dopo aver mostrato, in controtendenza rispetto all'Apologetica del suo tempo, che la fede non è un atto successivo all'esercizio della ragione, bensì un atto unitario della persona, il pensatore inglese si interroga sull'apparente fragilità della fede, quando valutata col metro delle dimostrazioni filosofiche formali. Egli illustra che in molteplici campi il ragionamento umano si basa, per il suo completo esercizio, su presupposti formalmente indimostrabili, che sono tuttavia acquisiti per certi. È l'indimostrabilità dei primi principi, nutriti dall'esperienza della vita. Accettandoli, è vero, si assume un rischio, ma un rischio ritenuto ragionevole da ogni persona sensata. Il genio, la scoperta, la creatività, l'intuizione, non viaggiano su binari formali, ma spaziano liberi, mettendo in luce i confini ampi della ragione. Valutata su questo sfondo, la fede diviene allora, per Newman, un "atto della ragione", ovvero un "atto della persona ragionevole". Ed appartiene alla ragione umana, aggiunge Newman, perfino il coraggio e lo slancio con cui ci si avventura in imprese difficili, il cui successo non è dimostrato, che spingono l'essere umano all'impegno oltre il calcolo. La fede è la più importante e la più seria di queste imprese.
{1. La fede fondata su supposizioni antecedenti}
{202} 1. Oggi è consueto parlare come se la fede fosse semplicemente di natura morale, e dipendesse e derivasse da un previo e distinto atto della ragione, – e la ragione garantirebbe in base a prove, ampiamente e attentamente esaminate, che il Vangelo deriva da Dio, e poi la fede lo abbraccerebbe.
D'altra parte, la rappresentazione più propria della Scrittura, che ovviamente è anche più d'accordo con i fatti, sembra essere questa: invece di esserci effettivamente tale procedimento unitario, prima di ragionare e poi di credere, l'atto di fede è unico ed elementare, e completo in se stesso, e non dipende da alcun procedimento mentale ad esso precedente: e questa dottrina è confermata dall'opinione comune degli uomini che, anche se mettono a confronto fede e ragione, considerano tuttavia la fede una ragione debole piuttosto che una qualità o un atto morale successivo alla ragione. La Parola di vita viene offerta ad un uomo; e, per il fatto che gli viene offerta, egli ci crede. {203} Perché? In base a queste due ragioni,– la parola del suo messaggero umano e la verosimiglianza del messaggio. E perché sente che il messaggio è probabile? Perché amore per esso, un amore forte, benché la testimonianza sia debole. Ha un acuto senso dell’intrinseca eccellenza del messaggio, della sua desiderabilità, della sua somiglianza a quello che gli sembra che la bontà divina concederebbe, se ne concedesse uno, il senso del bisogno di una rivelazione e della sua probabilità. Così la fede è il ragionare di uno spirito religioso, o di quello che la Scrittura chiama un cuore retto o rinnovato, che agisce in base a supposizioni piuttosto che a prove, che specula e rischia sul futuro di cui non può essere certo.
2. Così prendiamo il caso di San Paolo che predica ad Atene: egli disse ai suoi ascoltatori che veniva come messaggero di Dio che essi già adoravano senza saperlo, e del quale parlavano i loro poeti. Egli si appellò alla convinzione che dimorava dentro di loro della natura spirituale e dell’unità di Dio; e li esortò a volgersi a Colui che aveva designato Uno solo a giudicare il mondo intero nell’al di là. Si trattò di un appello alla probabilità antecedente di una Rivelazione, che sarebbe stata considerata in modo diverso a seconda del desiderio che ciascuno ne aveva in cuore.
Ora, quale fu la prova che diede per riunire quelle diverse supposizioni antecedenti, alle quali si riferiva, a favore del messaggio di cui era portatore? Una prova molto leggera, eppure sempre una prova; non un miracolo, ma la sua stessa parola che Dio aveva risorto Cristo dai morti; molto simile alla prova data alla massa degli uomini ora, o {204} piuttosto non proprio. Nessuno dirà che si trattava di una prova forte; eppure, aiutata dalla novità, e da quella che si può chiamare originalità dell'affermazione, strana e improbabile per essere considerata una mera invenzione, e dal portamento personale dell'Apostolo e sostenuta dalla piena forza delle probabilità antecedenti esistenti, che egli risvegliava in loro, essa fu sufficiente. Fu sufficiente, perché qualcuno credesse, – sufficiente, non in se stessa, ma sufficiente per coloro che avevano amore, e per questo erano inclini a credere.
Per coloro che non avevano timori, desideri, bramosie o attese, di un altro mondo, egli non era che “un pitocco"; coloro che ne avevano, o che, nelle parole che l’Evangelista usa in un altro luogo, erano “destinati alla vita eterna” [At 13,48], “aderirono a lui, e divennero credenti” [At 17,34].
3. Questo esempio, dunque, sembra giustificare pienamente la concezione della fede che ho assunto, secondo la quale essa è un atto della ragione, ma di quella che il mondo chiamerebbe ragione debole, cattiva, o insufficiente; e quella, perché si basa di più su supposizioni, e meno su prove. D’altra parte, ritengo che questo passo della Scrittura non si adatti affatto alla moderna teoria ora in auge secondo la quale la fede è un semplice atto morale, che dipende da un precedente procedimento di una ragione chiara e prudente. Se fosse così, si dovrebbe pensare che San Paolo non avesse alcun diritto sulla fede dei suoi ascoltatori, a meno che prima non avesse compiuto un miracolo, che la ragione poteva convalidare, come segno che il suo messaggio doveva essere consegnato all’accettazione della fede.
4. Ora, che questa differenza di teorie sulla natura della fede religiosa non sia irrilevante, è evidente, forse, dalle conclusioni che ne ho tratto {205} la scorsa settimana, le quali, se legittime, sono certamente importanti: e poiché sento che si tratta di una differenza importante, ora procederò a indicare distintamente che cosa intendo per rapporto della fede alla ragione. Osserverò, allora, quanto segue.
{2. Il rapporto della fede alla ragione}
5. Siamo circondati da esseri che esistono in modo del tutto indipendente da noi, – esistono sia che noi esistiamo o che cessiamo di esistere, che ne abbiamo cognizione o no. Di solito li distinguiamo in due grandi gruppi, materiali e immateriali. Dei materiali abbiamo conoscenza diretta attraverso i sensi; siamo sensibili all’esistenza di persone e cose, delle loro qualità e modi, delle loro relazioni reciproche, e del corso delle azioni che compiono. Di tutti questi siamo direttamente consapevoli attraverso i sensi; vediamo e sentiamo ciò che accade, e questo in modo immediato. Quanto agli esseri immateriali, non sembra che possediamo facoltà analoghe ai sensi attraverso le quali avere diretta cognizione della loro presenza, eccetto per quanto riguarda la nostra stessa anima e i suoi atti. Ma fin qui è certo almeno che non siamo consapevoli di possederle; e a ragione riteniamo che sia da fanatici professare tale consapevolezza. A volte, quella consapevolezza è stata sì concessa, come in alcune di quelle apparizioni di Dio all'uomo che sono contenute nella Scrittura: ma, nel corso ordinario delle cose, qualunque sia la relazione diretta fra l'anima e gli esseri immateriali, che li percepiamo o no, e ne siamo influenzati o no, certamente di quella percezione o influenza non abbiamo alcuna consapevolezza, quale quella che i nostri sensi ci comunicano nella percezione delle {206} cose materiali. I sensi, allora, sono gli unici strumenti di cui sappiamo che ci sono concessi per una conoscenza diretta e immediata delle cose a noi esterne. Inoltre, è ovvio che anche i nostri sensi ci conducono solo un poco oltre noi stessi, e ci introducono al mondo esterno solo in certe circostanze, in certe condizioni di tempo e di spazio, e di certi mezzi attraverso i quali agiscono. Per toccarle, dobbiamo essere vicini alle cose; per sentirle, non dobbiamo essere interrotti da alcun suono simultaneo; per vederle, dobbiamo avere luce; non possiamo né vedere né udire né toccare le cose passate o future.
6. Ora, la ragione è quella facoltà della mente con cui si supplisce questa mancanza; con cui si ottiene, al di là dell’ambito dei sensi, la conoscenza delle cose a noi esterne, di esseri, fatti ed eventi. Essa ci attesta non solo le cose naturali, o solo quelle immateriali, o solo quelle presenti, passate o future; ma anche se limitata nel suo potere, essa è illimitata nel suo ambito, considerata come una facoltà, benché naturalmente, nei singoli individui vari anche il suo raggio d’azione. Essa giunge ai confini dell'universo, e al di là di essi, al trono di Dio; ci porta conoscenza, chiara o incerta, pur sempre conoscenza, in qualunque grado di perfezione, da ogni parte; ma nello stesso tempo, con la caratteristica di ottenerla indirettamente, non direttamente.
7. In realtà la ragione non percepisce alcunché; ma è la facoltà di procedere dalle cose che sono percepite alle cose che non lo sono; l’esistenza delle quali essa ci certifica in base all’ipotesi di qualcosa d’altro che si sa che esiste, in altre parole, che si presuppone che sia vero.
{207} 8. Tale è la ragione, considerata in termini elementari; di qui l'idoneità di un certo numero di parole comunemente usate per indicare essa e i suoi atti. Ad esempio: di solito il suo atto è considerato un processo , che, naturalmente, deve essere il procedere del pensiero da un'idea all'altra; un esercizio della mente, che difficilmente si può chiamare percezione attraverso i sensi; o, ancora, un'indagine, o un'analisi; oppure si dice che confronta, distingue, giudica e decide: tutte parole che comportano non semplicemente l'assenso alla realtà di certi fatti esterni, ma una ricerca sui fondamenti, e un assenso in base a fondamenti. Essa, allora, è la facoltà dell'ottenere la conoscenza in base a determinati fondamenti; e il suo esercizio sta nell'asserire una cosa a causa di qualcos'altro; e, quando il suo esercizio è condotto con correttezza, essa conduce alla conoscenza; quando è condotto in modo sbagliato, ad una conoscenza apparente, all'opinione e all'errore.
9. Ora se questa è la ragione, un atto o processo di fede, considerato in termini elementari, è certamente un esercizio della ragione; se sia un esercizio corretto o no è un 'altra questione; e se chiamarlo così ne sia una descrizione sufficiente, è un’altra questione ancora. Si tratta di accettare come reali cose che i sensi non comunicano, in base a certi fondamenti precedenti; è uno strumento di conoscenza indiretta relativo a cose a noi esterne, – essendo il processo come segue: “Do l'assenso a questa dottrina ritenendola vera, perché mi è stata insegnata"; oppure, "perché i superiori così mi dicono"; oppure, "perché gli uomini buoni la pensano così"; oppure “ perché uomini molto diversi la pensano così”; oppure “perché tutti gli uomini”; oppure, “perché è stabilito”; oppure “perché le persone cui credo {208} dicono che una volta fu garantita dai miracoli”; oppure, “perché l'ha insegnata uno di cui si dice che abbia compiuto miracoli"; o, "che dice di averli compiuti"; oppure, "perché ho visto uno che vide miracoli”; oppure, “perché vidi ciò che ho ritenuto un miracolo"; oppure per tutte o alcune di queste ragioni insieme. Tale esercizio della ragione è l'atto di fede, considerato nella sua natura.
10. D'altra parte, chiaramente la fede si trova esposta all'accusa popolare di essere un esercizio imperfetto della ragione, in quanto condotto su fondamenti insufficienti; e, ritengo, si deve assolutamente concedere o che sia illogica , o che la mente possieda dei fondamenti che non sono completamente esplicitati quando il processo si manifesta in questo modo. In altre parole, quando la mente possiede la fede salvifica, il ragionamento che quella credenza implica, se è logico, non procede semplicemente dalle prove effettive, ma anche da altri fondamenti.
11. Dico, esiste questa alternativa se consideriamo il particolare processo della ragione implicato nella fede; – dire che il processo è illogico, o che la materia è più o meno speciale e misteriosa; che l'atto di inferenza è imperfetto, o che le premesse non sono sviluppate; che la fede è debole, o che non è terrena. La Scrittura dice che non è terrena, e il mondo dice che è debole.
{3. Il confronto fra la fede e altre attività della ragione che si definirebbero irragionevoli}
12. Dato che è dunque questa l'imputazione avanzata contro la fede, che si tratta del ragionamento di una mente debole, mentre in verità è il ragionamento di una mente illuminata da Dio, mi si consenta ora di tentare di dimostrare in poche parole l'analogia di questo stato di cose con ciò che avviene {209} anche in altre attività della ragione; ossia, tenterò di dimostrare che la fede non è l'unica attività della ragione che, quando venga esaminata criticamente, si definirebbe irragionevole, senza esserlo.
13. In verità, niente è più comune fra gli uomini inclini al ragionamento del pensare che nessuno oltre ad essi ragiona bene. Naturalmente tutti gli uomini pensano di essere loro nel giusto e che sbaglino gli altri che non la pensano allo stesso modo; e per questo tutti gli uomini devono trovare imperfetti i ragionamenti altrui, poiché nessuno si propone di agire senza ragioni di qualche tipo. Di conseguenza, finché gli uomini sono abituati ad analizzare le opinioni altrui e ad esaminare i loro processi di pensiero, saranno tentati di disprezzarli come illogici. Se ci mettiamo ad esaminare perché i vicini sono schierati da una certa parte nelle questioni politiche, e non da un'altra; perché sono favorevoli o contrari a certe misure di natura sociale, economica o civile; perché appartengono a questa parte religiosa, e non a quella; perché sostengono questa o quella dottrina; perché hanno certi gusti in letteratura; o perché sostengono certe concezioni in questioni di opinione; non c'è bisogno di dire che, se misuriamo i loro fondamenti semplicemente in base alle ragioni che essi adducono, non avremo alcuna difficoltà ad esporli al ridicolo, o anche a censurarli.
{3.1 L’esercizio della ragione in generale}
14. E così anche per quanto riguarda le conclusioni tratte da determinati fatti comuni a tutti. Dalla visione del medesimo cielo l'uno può prevedere bel tempo, l'altro brutto; dai segni dei tempi, l'uno l'avvento del bene, l'altro del male; dalle medesime azioni individuali l'uno deduce grandezza morale, l'altro depravazione o perversione, l'uno semplicità, l’altro destrezza; in base alle medesime prove {210} l’uno giustifica, l'altro condanna. I miracoli del cristianesimo dei primi secoli, alcuni li imputavano alla magia, altri ne erano convertiti; l'unione dei suoi adepti era attribuita da alcuni a scopi sediziosi e proditori, mentre altri erano indotti a dire: “Guardate come questi cristiani si amano l’un l’altro”. I fenomeni del mondo fisico hanno dato origine ad una varietà di teorie, ossia, di fatti presunti, ai quali si ritiene che esse alludano: teorie dell’astronomia, della chimica e della fisiologia; teorie religiose e atee. I medesimi eventi sono e non sono considerati come prove di una provvidenza particolare; come attestazioni della divinità di una religione o di un'altra. Per i pagani la caduta dell'Impero Romano fu una confutazione del cristianesimo, per i cristiani una prova. Tale è la diversità con cui gli uomini ragionano, dimostrandoci che la fede non è l'unico esercizio della ragione che trova l'approvazione di alcuni e non di altri, o che, nel senso comune della parola, è irrazionale.
15. Né si può onestamente dire che tali diversità derivino da mancanza di capacità di ragionare della massa; e che si dimostri che la fede, come l'ho descritta , non sia quindi che un esempio di tale mancanza. Questo è ciò che gli uomini di lucida intelligenza non tardano ad immaginare. Intelligenze lucide, forti, solide, se non sono profonde,guarderanno a queste differenze di deduzione principalmente come fallimenti della facoltà ragionativa, e le disprezzeranno oppure le scuseranno, a seconda. Tali sono gli uomini che di solito sono latitudinari in religione da una parte, o innovatori dall'altra; uomini di mente precisa o acuta ma superficiale, che considerano tutti in errore eccetto loro stessi, e che tuttavia pensano che questo non abbia importanza; {211} che considerano il perseguimento della verità solo come un procedimento sillogistico, e il non riuscire a raggiungerla semplicemente un effetto della mancanza di conformità della mente alle leggi che governano il retto ragionare. Ma sicuramente non c'è errore più grande di questo. Infatti, l'esperienza della vita dimostra abbondantemente che in materie pratiche, quando la mente è realmente desta, gli uomini di solito non ragionano male. Quando è in gioco il loro interesse, gli uomini non sbagliano. Hanno un senso istintivo della direzione verso la quale dirigersi, e di come devono agire per difendersi o per affermarsi. E così nel caso di questioni in cui son interessati lo spirito di parte, l’opinione politica, il principio etico o il sentimento personale, gli uomini possiedono una sorprendente sagacia spesso ignota a loro stessi, nel trovare il proprio posto. Per quanto lontana sia la relazione fra il punto in questione e il loro credo, abitudini o sentimenti, i principi che professano li guidano senza errore ai loro legittimi effetti; e così spesso accade che in pratiche o abitudini o sentimenti apparentemente indifferenti, o in questioni di scienza, politica o letteratura possiamo quasi predire in anticipo, in base alle loro concezioni religiose o morali, da che parte certe persone si schiereranno, e spesso possiamo difenderle molto meglio di quanto si difendano loro. La stessa cosa si dimostra a partire dalla coerenza interna di credi religiosi ai quali tempo e spazio hanno concesso di svilupparsi liberamente; come il cristianesimo primitivo, il sistema medievale o il calvinismo –una coerenza che tuttavia si esprime in e attraverso gli spiriti rozzi e grossolani della massa. È inoltre {212} dimostrato dall'uniformità osservabile nello sviluppo della medesima dottrina in età e paesi differenti, sia essa politica, religiosa o filosofica; le leggi della ragione, infatti, la costringono agli stessi sviluppi, nella stessa successione, nella stessa ascesa e nella stessa decadenza, cosicché la registrazione della sua storia nel corso di un secolo servirà nella prospettiva del successivo.
16. Tutto questo dimostra che, a dispetto dell'inadeguatezza dell’espressione, o (se vogliamo) del pensiero, che prevale nel mondo, nel complesso gli uomini non ragionano in modo scorretto. Se la loro stessa ragione fosse in errore, ragionerebbero ognuno a modo suo: invece formano scuole, e non semplicemente per imitazione e simpatia, ma certamente per un impulso interiore, per l'influenza cogente dei loro diversi principi. Possono argomentare male, ma ragionano bene; ossia, i loro fondamenti dichiarati non sono una misura sufficiente di quelli reali. E in modo analogo, benché le prove di cui la fede si appaga, siano apparentemente inadeguate allo scopo, tuttavia questa non è una prova di effettiva debolezza o imperfezione del suo ragionare. Essa sembra contraria alla ragione, eppure non lo è; è solo indipendente e distinta da ciò che si chiama indagine filosofica, sistemi intellettuali, sequenze di argomenti e simili.
17. Fin qui quanto ai fenomeni generali che accompagnano l’esercizio di questa grande facoltà, una delle caratteristiche della superiorità della natura umana rispetto agli animali. Che consideriamo i processi della fede o un'altra attività della ragione, gli uomini procedono in base a fondamenti che non adducono, o non possono addurre, o se lo potessero, non potrebbero tuttavia provare {213} che sono veri, in base a fondamenti latenti o antecedenti che assumono per dati.
{3.2 L’indimostrabilità dei primi principi}
18. Si osservi poi che per quanto completi e per quanto precisi possano essere i fondamenti che possiamo addurre, per quanto sistematico il nostro metodo, per quanto chiare e concrete le nostre prove, tuttavia quando il nostro argomento viene fatto risalire ai suoi elementi costitutivi alla fine ci dev'essere sempre qualcosa di presupposto che è impossibile provare, e senza il quale la nostra conclusione sarà tanto illogica quanto la fede è soggetta a sembrarlo agli uomini del mondo.
19. Si prenda il caso di una prova vera e propria, e del tipo più forte. Ora, qualunque possa essere, la sua cogenza dev’essere data per scontata; al punto che ad essere la sua prova è essa stessa, e la si può accettare solo per istinto o pregiudizio [Cf. Sermone X, n. 26]. Ad esempio, ci fidiamo dei nostri sensi, e questo benché spesso ci ingannino. A volte anche si contraddicono, eppure ne abbiamo fiducia. Ma anche che fossero sempre coerenti, mai imprecisi, tuttavia non per questo sarebbe provata la loro esattezza. Consideriamo che c'è una probabilità antecedente così forte che siano precisi, che siamo dispensati dalla prova. Diamo la cosa per scontata; oppure, se abbiamo ragioni, queste, o si trovano nella credenza nella stabilità della natura, o nella presenza protettrice e nell'uniformità della Provvidenza Divina, – le quali sono altri presupposti. Come, allora, i sensi possono ingannarci, e ci ingannano, e tuttavia abbiamo fiducia in essi per un segreto istinto, così non è questione di debolezza o di imprudenza se in base a un determinato presentimento della mente crediamo all'attendibilità della testimonianza offerta a favore di una Rivelazione.
20. Ancora: noi facciamo implicitamente affidamento nella nostra memoria, e {214} questo malgrado sia ovviamente instabile e infida. E ci fidiamo della memoria per la verità della maggior parte delle nostre opinioni; i fondamenti in base ai quali le sosteniamo non sono tutti presenti alla nostra mente in un determinato momento. Ci fidiamo della memoria per sapere che cosa sosteniamo e che cosa no. Si può dire che senza tale presupposto il mondo non potrebbe andare avanti: vero; e allo stesso modo la Chiesa non potrebbe andare avanti senza la fede. Accettare la testimonianza o prove non più forti della testimonianza , è l'unico metodo, per quanto possiamo vedere, con cui ci si può rivelare il mondo futuro.
21. Le stesse osservazioni valgono per il nostro presupposto della precisione delle nostre facoltà ragionative; alle quali crediamo implicitamente in certi casi, benché sappiamo che in altri ci hanno ingannato.
22. Se non fosse per questi istinti, si dovrebbe dubitare del fatto che l'esperienza che abbiamo dell'ingannabilità dei sensi, della memoria e della ragione, ci renderebbe molto perplessi quanto alla nostra fiducia pratica nei loro confronti nelle questioni di questo mondo. E così, per quanto riguarda le questioni dell’altro mondo, coloro che non possiedono quell'apprensione istintiva dell'onnipresenza di Dio e della Sua infaticabile e minuziosa Provvidenza che la santità e l'amore creano dentro di noi, non devono sorprendersi di scoprire che le prove del cristianesimo non assolvono un compito al quale non sono mai state destinate, – ossia quello di rendere accette se stesse come rendono accetta la Rivelazione. Niente, allora, di quello che dice la Scrittura sulla fede, per quanto sbalorditivo possa essere a prima vista, è incompatibile con la condizione in cui ci troviamo per natura rispetto all’acquisizione della conoscenza {215} in genere, –una condizione in cui dobbiamo presupporre qualcosa per dimostrare qualcos’altro, e non possiamo ottenere niente senza rischiare.
{3.3 La ragione, la fede e la legge della conoscenza}
23. Andiamo avanti. Si consideri poi che la legge che segue sembra sovraintendere al conseguimento della conoscenza da parte nostra: tanto più essa è desiderabile, per eccellenza, ambito o complessità, tanto maggiore e la sottigliezza delle prove in base alle quali viene accettata. Siamo costituiti in modo tale che, se insistiamo sull'essere tanto certi quanto più è possibile in ogni stadio del nostro percorso, dobbiamo accontentarci di strisciare per terra, senza mai poterci levare in volo. Se siamo destinati a grandi fini, siamo chiamati a grandi rischi; e, poiché non ci viene data certezza assoluta in niente, dobbiamo in tutte le cose scegliere fra il dubbio e l'inazione, e la convinzione che siamo sotto gli occhi di Colui che, per una qualche ragione, ci mette alla prova con prove di livello inferiore quando potrebbe darcene di più grandi. Ce le ha messe fra le mani Colui che ci ama; e ci invita ad esaminarle, con il nostro miglior giudizio, a rifiutare questo e accettare quello, ma pur sempre amandoLo a nostra volta; non con freddezza e criticamente, ma con il pensiero della Sua presenza, e pensando che forse con i difetti delle prove Egli mette alla prova il nostro amore verso la loro materia; e che forse è una legge della Sua Provvidenza parlare a voce tanto meno alta quanto più promette. Ad esempio, il tatto è il più certo e prudente dei nostri sensi, {216} ma è il più limitato, e raggiunge appena la lunghezza di un braccio. La vista, che ha un raggio molto più ampio, agisce solo se c'è luce. La ragione, che si estende al di là della regione dei sensi o del tempo presente, è tortuosa e indiretta nella trasmissione della conoscenza, che, anche quando è distinta, è rappresentata pallida e debole, come oggetti lontani all’orizzonte. E la fede con cui giungiamo a conoscere le cose divine, si fonda sulle prove della testimonianza, deboli in rapporto all’eccellenza della benedizione attestata. E come la ragione, con le sue grandiose conclusioni, è dichiaratamente uno strumento più alto dei sensi con le loro premesse sicure, così, nei contenuti, la fede si eleva al di sopra della ragione più di quanto non vi cada al di sotto per l'oscurità del procedere. Ed è, dico, conforme all'analogia il fatto che la verità divina si dovrebbe ottenere con un metodo così sottile e indiretto, un metodo meno concreto di altri, meno aperto all’analisi, riducibile solo parzialmente alle forme della ragione e al facile trastullo delle obiezioni e dei cavilli.
{3.4 Le ragioni del genio}
24. Si potrebbero fare molte altre osservazioni sulla speciale delicatezza e astrusità di tali processi ragionativi che accompagnano l'acquisizione di ogni conoscenza più elevata. Non è eccessivo dire che nessuna delle grandi conquiste della ragione mostrerebbe di guadagnarci, sarebbe apparentemente giustificata e protetta dalla critica, se fosse formulata nelle forme tecniche richieste dalla scienza dell’argomentazione. Le vittorie più notevoli del genio, notevoli sia per originalità sia per la fiducia con cui sono state perseguite, sono {217} state ottenute quasi con armi invisibili, per mezzo di un pensiero così misterioso e complesso che la massa degli uomini è costretta ad accettarle sulla parola, finché gli eventi o altre prove non le confermino. I metodi che penetranti intelligenze hanno inventato nella scienza matematica, finché non giungono alla verità, sono tali da sembrare sofismi. Qui, anche nella più severa delle discipline, e in procedimenti assolutamente dimostrativi, lo strumento della scoperta è così sottile che le espressioni e le formule tecniche si sostituiscono necessariamente a essa, per farsi strada nel labirinto, attenuando le sue difficoltà per la ragione alquanto rozza dei più. Oppure si consideri alquanto rara e immateriale (se posso usare questi termini) sia la prova metafisica: quanto difficile da comprendere, anche quando ci sia presentata da filosofi nella cui chiarezza mentale e buon senso abbiamo piena fiducia; e che vano sistema di parole senza idee tali uomini sembrano edificare, mentre forse saremmo tenuti a confessare che siamo noi troppo ottusi, non loro troppo fantasiosi; e che, qualunque sia il carattere delle loro indagini, manchiamo del vigore o della flessibilità mentale per giudicarle. Oppure tentiamo di accertare i passaggi della mente quando indicazioni superficiali delle cose presenti diventano informazioni per il futuro. Considerate la sagacia soprannaturale con cui un grande generale sa che cosa stanno facendo i suoi alleati e i suoi nemici, e quale sarà il {218} risultato finale della combinazione dei loro movimenti, e dove, – e poi ditemi se, qualora gli venga chiesto di esporre la questione in parole o sulla carta, tutte le sue più brillanti congetture non si potrebbero confutare, e tutte le ragioni da lui adducibili denunciate come illogiche. .
25. E, in modo analogo, la fede è un processo della ragione in cui molto dei fondamenti dell'inferenza non si può mostrare, molto si trova nel carattere della mente stessa, nella sua generale visione delle cose, nella sua valutazione del probabile e dell'improbabile, nelle sue impressioni della volontà di Dio e nelle sue anticipazioni derivate dai suoi stessi desideri innati, che al mondo sembreranno sempre irrazionali e disprezzabili; – finché, cioè, gli eventi non la confermino. L'atto mentale, ad esempio, con cui una persona non istruita crede nella salvezza proveniente dal Vangelo, in base alla parola del suo maestro, può essere analogo all’esercizio della sagacia di un grande statista o generale, in quanto la grazia soprannaturale fa per la ragione non coltivata ciò che il genio fa per loro.
{3.5 Le prove della Scrittura}
26. Ora una singolare conferma di questa concezione è il fatto che i ragionamenti degli uomini ispirati della Scrittura, anzi, di Dio stesso, siano di questa misteriosa natura; al punto che spiriti irrispettosi difficilmente esiterebbero a trattarli con lo stesso disprezzo che dimostrano nei confronti della fede dei cristiani ordinari. Molto tempo fa gli argomenti di San Paolo sono stati abbandonati anche da uomini che si professavano difensori del cristianesimo. Né si può dire con certezza che sia più comprensibile alle nostre deboli menti la linea di pensiero (se posso osare parlare in questo modo), in base alla quale procedono alcuni discorsi del nostro sempre Santo Salvatore. E qui {219} si noti poi che, supponendo che il tipo di ragionamento che chiamiamo fede abbia il carattere sottile che affermo e che gli esempi del ragionamento esplicito che si trova nella Scrittura siano di una sottigliezza analoga, si getta luce su un’altra notevole circostanza, che nessuno può negare, e che alcuni hanno trasformato in obiezione, – intendo, il carattere indiretto delle prove della Scrittura su cui si basano le dottrine cattoliche. Può essere che tale peculiarità del testo ispirato sia l'adatto corrispondente della fede; tale testo il contenuto adatto su cui la fede possa operare; cosicché la Scrittura come l'abbiamo, e non com'era il Pentateuco per gli Ebrei, può essere decisiva nel nostro essere sotto la fede e non sotto la legge.
{3.6 Le azioni morali}
27. Infine, si dovrebbe osservare che l'analogia che è stata presentata si estende alle azioni morali, alle loro proprietà e ai loro fini così come alle attività intellettuali. Più i fini sono grandi, più è straordinario il modo di ottenerli; e ancora, più questo è straordinario, maggiore è il merito dell’azione. Qui, invece di affidarmi alla Scrittura o ad un criterio religioso, mi si consenta di appellarmi al giudizio del mondo in materia. La gloria militare, ad esempio, il potere, la reputazione di grandezza d'animo, il distinguersi nella scienza sperimentale, sono tutte cose cercate e ottenute non senza rischio né avventure. Il coraggio non consiste nel calcolo, ma nel combattere contro possibilità. L'uomo politico il cui nome dura nel tempo, è colui che rischia misure che sembrano pericolose, e tuttavia vi riesce, e lo si può giustificare solo guardando indietro. La fermezza e la grandezza d'animo si dimostrano quando un sovrano {220} si basa sulla sua istintiva percezione di una verità che la massa deride, e che sembra fallire. Il fanatico religioso piega il cuore degli uomini ad un'obbedienza volontaria, se possiede l'acutezza di vedere e l'audacia di appellarsi a principi e sentimenti profondi sepolti dentro di loro, che essi non conoscono, che egli stesso realizza solo a tratti e a volte, e che persegue per l'intensità, non per la nitidezza della concezione che ne ha. E così in tutte le cose, i grandi obiettivi esigono un rischio, e il sacrificio è la condizione dell'onore. E ciò che è vero per il mondo, perché non dovrebbe essere vero anche per il regno di Dio? Dobbiamo “prendere il largo, e calare le reti per la pesca” [Gvv 21,6]; dobbiamo seminare le sementi al mattino, e non smettere di lavorare la sera, perché non sappiamo se cresceranno, se queste o quelle. "Chi bada al vento, non semina mai e chi osserva le nuvole, non miete” [Qo 11,4]. Chi fallisce nove volte riesce la decima, è un uomo più degno d'onore di chi nasconde il suo talento in un fazzoletto; e così, anche se i sentimenti che ci inducono a vedere Dio in tutte le cose, e a riconoscere le opere soprannaturali nella materia del mondo, a volte ci sviano, per quanto ci rendano fiduciosi nelle prove che non dovremmo ammettere, e parzialmente a ragione ci fanno incorrere nell'accusa di credulità, tuttavia una fede che apprende generosamente la verità eterna, benché a volte degeneri in superstizione, è molto meglio di quel tono freddo, scettico, critico, che non ha alcun senso interiore di una Provvidenza sovrana e onnipresente, né alcun desiderio di avvicinare il suo Dio, ma che se ne sta a casa aspettando {221} la terribile chiarezza della sua venuta visibile, che potrebbe cercare e trovare in giusta misura nella penombra del mondo presente.
{4. Conclusioni}
28. Per concludere: tale è la fede messa a confronto con la ragione; – che cosa sia in opposizione alla superstizione, come ne sia separata, e quali principi e leggi la trattengono dal cadervi, è una questione fra le più importanti, senza affrontare la quale ogni visione del tema della fede è naturalmente incompleta; ma non è compresa nei miei attuali propositi.
da J.H. Newman, Sermone XI: "La natura della fede in rapporto alla ragione", in Scritti Filosofici, tr. it. a cura di M. Marchetto, Bompiani, Milano 2005, pp. 281-413