“Solo noi che abbiamo tratto l’oggettività di un mondo nostro da ciò che la natura offre, che l’abbiamo edificato nell’ambiente naturale in modo da esserne protetti, possiamo guardare alla natura come a qualcosa di oggettivo. Senza un mondo frapposto tra gli uomini e la natura, esisterebbe movimento eterno, ma non oggettività”.
Con questo passo tratto da The Human Condition (1958) Hannah Arednt parla del cosmo tecnico, del mondo artificiale edificato da Homo Faber. In virtù della sua capacità di riplasmare la natura, di costruire una seconda natura, l’uomo può distaccarsi dal naturale per contemplarlo, per interrogarsi sulla sua condizione e sulla sua origine.
La tecnica appare dunque come un mezzo per la contemplazione, per fare sì che l’uomo si conosca sempre meglio. Plasmando il reale l’uomo approfondisce la sua condizione di essere sospeso tra la materia e lo spirito, conosce il suo potere di trasformazione e il suo limite intrinseco. Per quanto in grado di conoscere le leggi della natura e usarle per i suoi fini, l’uomo non può affrancarsi completamente dalla sua condizione, egli si ritrova nell’esistenza senza possibilità di agire sulla sua origine, su ciò che lo ha messo al mondo.
Il tema dell’origine è fondamentale perché si intreccia con quello della generazione.
Generare significa dare vita senza possedere, senza esercitare un potere su ciò che si genera. Chi genera contribuisce a fare nascere, senza essere il padrone di ciò che genera. L’evento della generazione oltrepassa la capacità di progettazione di chi genera, il generato si affranca dal generante come ente autonomo, capace di una sua spontaneità irriducibile al potere di controllo di colui che lo genera. Il generante appare così, più che un creatore, un collaboratore della creazione: egli non crea radicalmente l’essere ma partecipa ad un processo che ha il suo culmine nel prendere vita del generato. Il termine generazione è legato alla vita: l’essere vivente è caratterizzato da un principio interno di sviluppo, da una spontaneità autonoma che lo porta a tendere ad un fine che, attraverso nuova generazione, oltrepassa la sua esistenza individuale. La natura cerca sempre di perpetuare se stessa. La generazione non è solo un evento biologico ma investe tutto il regno delle azioni umane. Attraverso le azioni libere e responsabili l’uomo nasce a se stesso, si genera costantemente intessuto nelle relazioni con i suoi prossimi. Come il generato deve la vita ai generanti senza dipenderne, così l’uomo è allo stesso tempo padrone e succube delle sue azioni: agendo rivela sé a se stesso e agli altri, il suo agire lo plasma di conseguenza in un meccanismo di retroazione. Per questo Aristotele avvisava che per essere virtuosi occorre praticare con assiduità le virtù.
L’uomo è un essere che genera e che produce. In quanto Homo Faber egli costruisce strumenti, oggetti che sono al suo servizio e che moltiplicano il suo potere. In quanto generante si sottrae dal regno della produzione, per contribuire a far nascere non qualcosa ma qualcuno. La tecnica appartiene al mondo del produrre, non genera ma costruisce, non contribuisce a fare nascere ma progetta strumenti il cui fine si esaurisce nel loro utilizzo. Generare e produrre sembrano evidenziare due universi semantici opposti. Eppure la tecnica nel suo movimento interno appare tendere costantemente a realizzare la generazione. L’agire tecnico è pur sempre un’azione umana e come ogni azione dell’uomo è caratterizzata dal generare. L’avvento di un’intelligenza artificiale forte è l’ideale regolatore di una tecnica che si umanizza, dove lo strumento cessa di essere tale e diviene un “io” che si confronta con un “tu”. Che sia realmente possibile per Homo Faber realizzare questo è controverso, ma rimane il fatto che qualora lo realizzasse dovrebbe rivolgersi al suo strumento non più come ad uno oggetto, ma ad una persona.
La tecnica spesso ci spaventa perché i suoi risultati possono essere usati tanto per scopi magnifici che come strumenti di male. Dalla manipolazione dell’atomo possiamo produrre energia a benificio di tanti o bombe per la distruzione di molti altri. Ogni progresso tecnico ci appare ambivalente, potenzialmente corruttibile da un’interna possibilità di male, tanto da farci dubitare su cosa sia veramente progresso, se non un progredire materiale nella potenza degli oggetti che produciamo senza più avere chiaro per quale fine realmente produrli. La tecnica ogni qual volta si affranca dalla generazione cade in una dinamica idolatrica che riduce l’uomo schiavo dei suoi stessi strumenti. La tecnica in quanto agire tecnico è un’azione dell’uomo che ne rivela dunque la sua condizione ferita.
Qui ritorniamo alla contemplazione, che non è una negazione dell’agire ma il suo vertice. La contemplazione è un’azione infinitamente generativa, che non esaurisce mai l’oggetto del suo tendere. L’azione contemplativa è inesauribile e aperta, non termina nella realizzazione di alcun oggetto materiale o di pensiero. Per questo ogni altra forma di agire ne è subordinata. L’agire tecnico senza contemplazione perde di vista il fine e riduce l’uomo stesso in strumento. Grazie alla contemplazione la tecnica si illumina come una possibilità di risposta alla condizione umana ferita. Una risposta sempre parziale e ambigua, sempre a rischio di approfondire la ferita piuttosto che di rimarginarla. Perché la redenzione dell’azione umana non può riposare nell’invenzione di un artificio tecnico. Se immaginiamo una società futura, dove ogni male fisico e morale sia finalmente emendato e la morte sconfitta grazie ad un incredibile progresso tecnologico, questa società non avrà comunque risolto il problema dell’origine di ognuno di noi: se sono immortale cosa ne era prima di me e perché sono venuto al mondo? Non c’è alcun espediente che Homo Faber possa inventarsi per rispondere a questa domanda, essa insiste sul paradosso della generazione: perché mi scopro esistere all’interno di questa catena di generazioni? Perché io stesso sono l’inizio assoluto di un qualcuno che in nessun modo dipende da me per la sua esistenza? Lo stesso agire contemplativo non può rispondere a queste domande e ha bisogno di aprirsi ad una Rivelazione.
I Vangeli ci raccontano poco o nulla degli anni di vita di Gesù spesi prima di iniziare la sua predicazione. Eppure furono la maggior parte della sua vita, vissuti nel nascondimento e probabilmente dedicati, come figlio del carpentiere, a costruire e a riparare. Dio fatto carne e dedito all’agire tecnico nell’umiltà e nel silenzio: non è forse il paradigma per Homo Faber, che con la tecnica cerca di curare i mali dell’uomo, sapendo che il compimento sta nell’avvento di un Regno che non può realizzare con i suoi strumenti?