Sembra essere ancora diffusa una certa sordità al discorso profondamente filosofico, considerato al di fuori dei propri circoli come vuota o insensata chiacchiera. D’altro canto, gran parte della riflessione filosofica accademica attuale sembra essersi rinchiusa in un narcisistico, quanto sofisticato, tecnicismo, che rischia di spegnere la meraviglia originaria. Occorre ritornare a sentire il mistero e lo stupore radicale nei confronti della realtà in cui esistiamo e viviamo, nei confronti di un mondo e di un universo che non è per nulla “compreso” dalle metodologie proprie della scienza moderna e da una particolare visione (filosofica) delle scienze. Si avverte il bisogno di iniziare una sorta di decostruzione e ricostruzione di un certo sistema di conoscenze attribuito alle scienze moderne, per ritornare a sentire in profondità dimensioni della realtà che abbiamo escluso dal nostro pensare. L’invadenza di una particolare concezione filosoficamente ingenua della metodologia conoscitiva delle scienze moderne ha per certi aspetti oscurato il pensare. Sì, vi è una forma di oscurantismo delle scienze moderne che conduce a non vedere più la realtà nella sua verità profonda.
La nostra mente rischia di non riuscire più a guardare oltre le spiegazioni dei fenomeni offerti dalle scienze moderne e di non trovare più nulla di sorprendente, inaudito e sconcertante. Non ci riferiamo a quello stupore che è il motore della ricerca anche delle scienze moderne, come, ad esempio, ciò che ha condotto alle sorprese e alle meraviglie messe in luce dalla relatività generale o dalla fisica quantistica, ma a quello stupore radicale, metafisico, dinanzi al mondo, all’universo, alla vita e all’essere umano, al nostro essere coscienti di esistere. Non si tratta di rifiutare o negare il valore conoscitivo delle scienze, tutt’altro. Le conoscenze scientifiche ci offrono acquisizioni ancor più interessanti e sconvolgenti per far scattare la molla dello stupore metafisico. Si pensi, tra l’altro, al fatto che l’essere umano come stadio evolutivo attuale dell’universo, può essere oggi concepito come l’universo che prende coscienza di se stesso. Ma, appunto, bisogna guardare oltre a quella metodologia di indagine, per giungere allo stupore metafisico ed avviare in tal modo un sensato discorso propriamente filosofico.
La filosofia occidentale, viene spesso ribadito, inizia con la meraviglia e lo stupore radicale. Ma non inizia così soltanto ventisei secoli fa, inizia e deve iniziare così ancora oggi. Non si può avviare una tale riflessione al di fuori di questo orizzonte estatico dinanzi all’universo, alla vita, alla coscienza. In tal senso, il vero discorso filosofico è quello metafisico. Rinunciare a ciò significa sottrarre l’essere umano al suo stupore autentico dinanzi al tutto e, quindi, sottrarlo a se stesso, producendo le forme attuali di alienazione esistenziale, che non danno ragione e neppure ragioni per vivere sensatamente ed autenticamente l’intervallo spazio-temporale in cui si attua l’esistenza umana.
L’ostacolo che si frappone al sentire metafisico non concerne dunque le scienze, ma quel particolare modo di intenderle che possiamo ritrovare nel cosiddetto positivismo o nello scientismo, costruzioni di pensiero che non riescono più a guardare al di là della punta del proprio naso, ovvero del metodo delle scienze moderne. Se chiedi ad uno scientista il perché esiste l’universo, potrebbe rispondere dicendoti: “perché dalle fluttuazioni quantistiche del vuoto si sono create spontaneamente particelle”; o se chiedi il perché della vita nell’universo potrebbe dirti: “perché le mutazioni genetiche hanno permesso una configurazione tale da condurre il processo evolutivo verso la nascita dell’essere umano”. Ritengono così di aver compreso il perché di quelle domande, mentre hanno soltanto offerto una spiegazione del come le cose sono avvenute in passato.
Teilhard de Chardin in uno dei suoi pensieri raccolti nell’Hymne de l’Univers, oltre settanta anni fa, scriveva: «Come il biologo materialista s’illude di sopprimere l’anima col decomporre i meccanismi fisiochimici della cellula vivente, così certi naturalisti si sono immaginati d’aver resa inutile la Causa Prima scoprendo un po’ meglio la struttura generale della sua opera. È ora di lasciar definitivamente da parte un problema impostato così male». E continua ricordando che le acquisizioni scientifiche dell’evoluzione cosmica e biologica ci offrono «un’anatomia della vita, e per nulla una ragione ultima di quella». Lo scientista può affermare che «“Qualche cosa si è organizzato, qualche cosa si è sviluppato”. Ma non è in grado di distinguere le condizioni finali di tale crescita. Decidere se il moto evolutivo sia intelligibile in sé o se esiga dalla parte d’un primo Motore una creazione progressiva e continua è un problema che riguarda la metafisica» (Inno dell’Universo, Queriniana, Brescia 1992, 56-57).
Perfino un eminente scienziato come Stephen Hawking si è spinto talmente oltre da ritenere di poter provare dall’interno della metodologia scientifica che l’Universo si sia autogenerato, perdendo di vista che tale affermazione si pone nettamente al di là di ogni dire scientifico e incorre in una contraddizione insuperabile. Come si potrebbe infatti generare se stessi se già non si esistesse? A ragione, il teologo svizzero Hans Küng ricorda che «qui non si tratta di un Dio tappabuchi (God of the Gaps): qui non si tratta di una “lacuna”, bensì dell’inizio assoluto. Qui l’uomo cozza contro il segreto originariodella realtà» (L’inizio di tutte le cose, RCS Libri, Milano 2006, 98-99).
Si tenta invece ancor oggi, bypassando gli sviluppi epistemologici del secolo scorso, di offrire un’immagine di scienza che accumula costantemente conoscenze sull’universo riducendo sempre più il mistero e lo stupore dinanzi ad esso, mentre la ricerca scientifica autentica più che ridurre, incrementa gli interrogativi sulla realtà che infinitamente sorpassa ogni conoscenza umana. In tal modo, non trovando più nulla al di là del metodo scientifico, perché il resto si sottrae allo sguardo, si ritiene superata ogni altra forma di riflessione sulla realtà, mentre incautamente o inconsciamente si continua a ricercarla. Inutile è ritenuta la metafisica ed ancora più inutile la teologia e la religione se si vuole capire qualcosa sulla vita umana e sull’universo.
La visione filosofica positivista e scientista, che ha ritenuto e, purtroppo, ancora ritiene di poter giungere ad una parola definitiva sul tutto, ha cercato di annullare le grandi domande, bollandole dogmaticamente come insensate. Del resto, i grandi scienziati iniziatori della metodologia di ricerca delle scienze moderne, ritenevano fondamentali il pensiero filosofico e teologico per vivere umanamente. Anzi, essi stessi erano filosofi e teologi, oltre che scienziati. Galilei riteneva che la natura «procede dal Verbo divino» e ne osserva fedelmente le leggi (cf. Lettera a Madama Cristina di Lorena). Cartesio percepiva Dio come autore e garante di idee chiare e distinte, e sperimentava il «massimo piacere» della contemplazione di Dio (cf. Meditazioni metafisiche, III). Pascal riconosceva che l’esperienza concreta di Dio è infinitamente superiore ad ogni costruzione ed idea filosofica (cf. Memoriale). Newton sosteneva il valore di ascoltare profondamente ed autenticamente le Scritture (cf. Trattato sull’Apocalisse), riconoscendo nel mondo la presenza di un Agente intelligente (cf. Lettera a Richard Bentley del 10 dicembre 1692). Leibniz scorgeva un’armonia prestabilita nel mondo opera di una provvidenza divina che oltrepassava ogni visibile imperfezione (cf. Teodicea). Sono solo alcuni esempi di primissimi scienziati moderni che ci mostrano una visione della scienza per nulla scientista, ma in grado di restare aperta ad interrogativi fondamentali e rilevanti per la vita umana, che necessitano altri approcci e altre forme di conoscenza e di sapere per essere realmente compresi ed affrontati.
Dovremmo ritornare ad alzare lo sguardo per fissare la realtà senza paura di lasciarci interrogare da essa, ritornando ad ascoltare quelle domande che la riflessione filosofica autentica non ha mai abbandonato proprio perché si tratta non di questioni insensate, ma degli interrogativi più sensati ed esistenzialmente coinvolgenti che possano esserci, senza intercettare i quali la vita rischia di svolgersi illusoriamente ed inconsapevolmente, ovvero al di sotto del livello umano raggiunto dall’evoluzione cosmica e biologica: il livello appunto del sentire cosciente e dell’autoconsapevolezza.
Occorre ritornare a far risuonare in noi la domanda più radicale: Perché l’essere anziché il nulla? O, in altri termini,Da dove viene tutto ciò che diviene? Una domanda che non può evidentemente essere affrontata dall’interno delle metodologie delle scienze moderne, dove la realtà è previamente accolta nella sua datità e contingenza. Tuttavia, «un’autentica filosofia della contingenzanon può fermarsi a constatare che tutto ciò che esiste […] è contingente. Si deve chiedere come mai e perché il contingente che, per principio, è ciò che esiste, ma potrebbe non esistere, essendo di per sé indifferente all’essere, esiste anziché no» (N. Colafati, Introduzione alla filosofia dell’essere, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, 98).
Dovremmo ritornare a riconoscere perlomeno in tale interrogativo la «meraviglia delle meraviglie», come sosteneva Martin Heidegger nella prolusione accademica del 1929 all’Università di Friburgo: «Solo l’uomo fra tutti gli essenti può conoscere, chiamato dalla voce dell’essere, la meraviglia delle meraviglie: che qualcosa è» (Che cos’è la metafisica?, Pironti, Napoli 1982, 49). Riportando in auge la domanda metafisica fondamentale, si risolleva dall’oblio non un pensare astratto, ma l’intero essere umano, ricollocandolo nel luogo suo proprio: sempre oltre se stesso, proteso costantemente su un orizzonte insuperabile, per riassaporare la sua connaturale ec-centricità e auto-trascendenza, continuando sempre e nuovamente a sfiorare il mistero o, addirittura, a percepire una Ulteriorità benevolente e benedicente.