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L'uomo, la tecnica e Dio

Edoardo Benvenuto
1994

L'uomo, la tecnica e Dio

Come è noto, mentre sul tema «scienza-fede» esiste una salda tradizione e la letteratura al riguardo è così copiosa, seppur di varia qualità, da configurare un genere letterario di sicuro successo, di gran lunga meno sviluppata è la considerazione del rapporto tra l'annunzio della fede e l'universo delle tecniche che pur hanno determinato, specialmente nel nostro secolo una vera svolta epocale: abbattendo millenari vincoli di spazio e di tempo, scardinando tradizioni secolari, ammutolendo e infrangendo idoli già possenti, sconvolgendo le forme della produzione dei beni di consumo e quindi anche la mappa delle gerarchie sociali e politiche, promuovendo nuovi modelli di vita e nuovi valori, mutando il sogno in attesa, il desiderio in istanza, il superfluo in bisogno, la meraviglia in consuetudine, la speranza in progetto. 

Una prova indiretta ma significativa della scarsa attenzione sino ad ora riservata alla peculiarità della tecnica, nella dimensione teoretica che pur le è propria, e nella sua dilagante incidenza sulla cultura contemporanea, ci è data dal fatto che, di solito, il problema dello sviluppo tecnologico sollecita il dibattito in teologia, solo per i suoi aspetti più inquietanti, per i casi limite o le prospezioni anticipative che riescono a fomentare i più foschi presentimenti di pericolo supremo, di catastrofe in agguato. Questa tendenza a riguardare la tecnica con sospetto, o addirittura sgomento, ha vecchie radici. In un bel libro pubblicato nel 1868, l'Abbé Moigno, ottimo scienziato ed allievo del grande matematico A. Cauchy, scrisse pagine di un'apertura davvero straordinaria per quei tempi così grevi, esortando i credenti a sottomettere la loro fede alla più severa critica in dialogo con la scienza: «notre croyance s'en trouvera épurée, comme le grain qui a été passé au tamis». Ma non appena il suo discorso passò alle conquiste della tecnica (il vapore e il telegrafo), ecco che il tono mutò di colpo: con questi suoi nuovi strumenti - ragionava il nostro Abbé - l'uomo è diventato un gigante. Ma dei giganti parlano le Scritture e le tradizioni di tutti i popoli, narrandoci l'abominio del loro folle amore per «les filles de la terre, c'est - à - dire les créatures matérielles». Quando il genio umano concentra tutta la sua attività sulla materia, animandola «del suo soffio di vita divina», egli diviene simile a Dio creatore: e proprio a questo punto comincia la tragedia. «La matière devenue reine, énerve et subjugue son roi. Asservi, abruti par les sens, I'esprit a perdu tout son élan. La science s'éteint, I'industrie meurt et la barbarie recommence».
Oso affermare che, a distanza di più d'un secolo, questa fosca visione del Moigno rischia d'essere ancor condivisa da una larga maggioranza di spiriti religiosi, teologi e pastori che, pur essendo disposti ad accogliere la positività della ricerca scientifica «pura», si affrettano invece a manifestare ogni sorta di perplessità e sfiducia, se non di allarmata denunzia, sulle applicazioni tecniche della scienza. 

In realtà, la loro sollecitudine si posa per lo più su quel gruzzolo di problemi spinosi, quasi alla soglia del paradosso o dell'«esperimento mentale», che potrebbero aprire voragini sul piano morale, ad esempio, in tema di ingegneria genetica, di trapianti, di terapie esasperate ecc.
Siffatta migrazione degli interessi sui casi di eccezione e di frontiera è senz'altro legittima ed anzi doverosa. Essa però può essere d'ostacolo ad una corretta e matura ricezione delle domande reali che provengono dalla società tecnologica, per quel che è, e non per qualche suo ipotetico sbocco in presunta nuova barbarie. Secondo l'analisi suggestiva, benché talvolta discutibile per la sua esuberanza, recentemente svolta da G. Baget Bozzo ne Le metamorfosi della modernità, la civiltà della tecnica in cui viviamo rappresenterebbe l'inedita figura attuale della cristianità: «Il sentimento del "nuovo mondo" è la spinta reale che conduce innanzi: come se nuovi tempi, nuove frontiere, nuovi spazi si aprissero indefinitamente all'uomo. Da dove nasce questo sentimento unico, se non dalle radici ebraiche e cristiane dell'Occidente? L'idea di trascendere costantemente il limite è la figura temporale e storica della cristianità che esce dalla egemonia ecclesiastica. È nato un uomo nuovo, ed è questi che conduce avanti il cammino di tutti gli uomini».
In questa ottica, che chiaramente capovolge l'immagine tenebrosa proposta dall'Abbé Moigno, riconoscendo nella potenza della tecnica la traccia del progetto antropologico cristiano, e non l’empietà dei mitici giganti, muta il giudizio sul contrasto sinora ravvisabile tra la cultura religiosa tradizionale e codesta nuova «cristianità» ormai affrancata dalla custodia ecclesiale. «Esiste oggi un rigetto della tecnica – scrive Baget Bozzo – ma esso è il frutto del sacro pagano che è rimasto sempre presente nella cristianità». 

In tal senso allora si spiegherebbe perché la Chiesa odierna sembri vivere una strana schizofrenia, per la quale, da un lato, essa si lascia volentieri coinvolgere dalla civiltà tecnologica, usandone gli strumenti e seguendone le tacite imposizioni (politica dell'immagine, occupazione dei mass-media, presenza nei processi decisionali di una società complessa e secolarizzata ecc.), ma dall'altro essa seguita a reperire il proprio lessico, i principi regolatori del proprio giudizio, e fors'anche il modello concettuale della propria struttura visibile, in un ideal-tipo di società ancora retta da leggi semplici e perenni, ancora avvezza a scorgere nella natura incontaminata dagli artifici della tecnica, la misura e la norma della condizione umana, dai cui limiti non è lecito evadere; ancora disposta a pensare l'uomo con categorie cosmologiche e il cosmo con categorie antropologiche; il che fu da sempre il sostegno della sacralità e della figura mitico-religiosa. 
L'ipotesi interpretativa qui richiamata è senza dubbio stimolante, ma richiede adeguati approfondimenti e puntuali verifiche. Forse, l'ambito più proprio della sua validità non sta tanto nella ricezione ecclesiale dello sviluppo tecnologico contemporaneo, quanto invece in quel cospicuo movimento di pensiero (prevalentemente tedesco) che ebbe inizio nei primi decenni del nostro secolo, con personaggi come Klages, Chamberlain, Spengler ecc., contro la Zivilisation promossa dalla tecnica e a favore della Kultur custode dei sacri vincoli «della terra e del sangue». Quel movimento si compì con Heidegger, ultima grande voce della filosofia occidentale, il cui pensiero su «La questione della tecnica» è ancor improntato alla denuncia del «supremo pericolo» insito nella furia produttivistica e alienatrice della civiltà tecnologica, e alla ricerca dell'unica possibile salvazione in un ritorno all'arte, alla poesia e al raccogliersi del «pensiero meditante» dinanzi all'arcana sacralità di «cielo e terra, divini e mortali». 

Ma anche da quest'ultima voce, che pur ricorre tuttora nel dibattito filosofico, occorre prender distanza critica. Fra l'altro, l'esplosione delle tecnologie «fini» connesse alla telematica, all'informatica, all'intelligenza artificiale ecc. realizzatasi a partire dagli anni'60, ha sconvolto l'immagine, la logica interna e l'impatto socio-culturale della tecnica oggi dominante, rispetto alla diagnosi heideggeriana che si riferiva piuttosto ai processi di estrazione-produzione-impiego delle risorse. Inoltre, i più recenti sviluppi della ricerca storica ed epistemologica hanno consentito di attenuare, se non di dissolvere, vecchie e forzose contrapposizioni tra scienza e tecnica, tra teoria e prassi, tra sapere e potere. Ed ancora: i nuovi progetti «trasversali» – spesso incentrati su idee-guida o su categorie linguistiche di proteiforme declinazione – che nel momento attuale attraggono scienziati, ingegneri e cultori di scienze umane su inedite congiunzioni, su sorprendenti analogie, su spiazzanti convergenze, obbligano a riconsiderar daccapo il ruolo della tecnica: non più collocabile sul versante delle applicazioni, o restringibile ad una hegeliana «scienza dei mezzi», ma costituente il tessuto connettivo e talvolta il presupposto fondazionale della «trasversalità». Infine: i problemi di annunzio, di comunicazione e di «inculturazione» della fede, posti dall'universo delle tecnologie post-industriali, debbono aprire ad una riflessione vigile e serena a livello teologico e pastorale. Valida o meno che sia l'ipotesi che tale universo rappresenti la figura di una nuova «cristianità», certo è che la risoluzione dell'apparente conflitto tra «tecnica e Dio» deve essere ricercata al centro della situazione presente e non al margine o contro di essa.

    

L'uomo, la tecnica e Dio, a cura di M. Baldini, E. Benvenuto, K. Neufeld, Dehoniane, Bologna 1994, pp. 26-30.