In una lettera indirizzata al cristiano Cosenzio, Agostino si estende a spiegare quale debba essere il ruolo della ragione nell’intelligenza della Rivelazione, nel riconoscimento dei miracoli e nella conoscenza delle realtà divine in genere, specificando quando l’una debba precedere o seguire l’altra. Ne emerge un compendio sul rapporto fra fede e ragione, che trova ancora oggi la sua attualità.
Agostino disposto a dare le spiegazioni richieste
1. 1. Ti ho pregato di recarti qui da noi poiché, leggendo i tuoi libri, mi sono compiaciuto assai del tuo ingegno. Giudico perciò preferibile che tu legga piuttosto in nostra compagnia anziché lontano da noi certi nostri opuscoli che penso ti siano necessari. In tal modo avresti agio di rivolgerci domande a voce sui punti che non hai ben compresi: scambiandoci le idee in mutui colloqui avresti modo di conoscere e correggere quanto il Signore concederebbe non solo a noi di spiegarti ma pure a te di capire quel che si dovrebbe correggere nei tuoi libri. Hai infatti la capacità di spiegare i tuoi concetti e inoltre sei tanto retto e umile da meritare di renderti conto della verità. Io sono ancora dello stesso avviso che non deve dispiacere nemmeno a te: ti ripeto - come ti esortavo qualche tempo fa - di fare dei segni ai passi in cui provi maggiore difficoltà, e di portarmeli per rivolgermi domande su ciascuno di essi. Ti prego di fare quanto finora non hai fatto. Avresti ragione di vergognarti e non osare di farlo, se tu l'avessi voluto fare almeno una volta e mi avessi trovato riluttante. T'avevo detto la stessa cosa fin da quando mi avevi fatto sapere ch'eri angustiato a causa delle copiose mende che incontravi nelle copie dei miei scritti; t'avevo invitato a servirti dei nostri manoscritti che avresti potuto trovare più corretti degli altri.
Fede e ragione nell'intelligenza della rivelazione
1. 2. Mi chiedi di discutere con circospezione e prudenza la questione della Trinità, cioè della Unità della natura divina e della distinzione delle Persone. Vorresti che la chiarezza del mio insegnamento e, come tu dici, del mio ingegno, dissipasse la nebbia della vostra mente in modo che quanto ora non siete in grado di immaginare, una volta che fosse spiegato dalla luce della mia intelligenza, possiate vederlo in certo modo con gli occhi. Guarda però innanzitutto se codesta tua richiesta è conforme alla tua convinzione dichiarata precedentemente. Di fatto al principio della medesima lettera, in cui mi fai tale richiesta, dichiari d'avere l'intima convinzione che la verità deve raggiungersi più con la fede che con la ragione. Ecco le tue stesse parole: '' Se la dottrina della santa Chiesa potesse comprendersi con la ragione e non col sentimento religioso della fede, nessuno, all'infuori dei filosofi e dei professori, arriverebbe al possesso della felicità. Siccome però — soggiungi — a Dio, che ha scelto le cose deboli per confondere le forti, è piaciuto di salvare i credenti mediante la stoltezza della predicazione [ 1Cor 1,27], quando si tratta dei problemi teologici non si deve andare in cerca tanto di argomentazioni razionali quanto piuttosto seguire l'autorità dei santi ". Considera perciò se in armonia con queste tue parole, soprattutto su tale argomento su cui si fonda principalmente la nostra fede, tu non debba seguire piuttosto l'autorità dei santi, anziché domandare a me una spiegazione razionale per comprenderlo. E anche allorché proverò di farti entrare in qualche modo nella comprensione di tale mistero (il che non mi sarà affatto possibile, se Dio non illuminerà la mia mente), con la mia esposizione non farò altro che dartene la spiegazione razionale nei limiti del possibile. Se dunque esigi ragionevolmente da me o da qualsiasi altro maestro tale spiegazione razionale per comprendere le verità della fede che tu credi, correggi la tua convinzione; non si tratta di rigettare la fede, ma di percepire con la luce della ragione le verità che già credi con la ferma fede.
Nelle verità religiose la fede precede il ragionamento
1. 3. Lontano da noi il pensiero che Dio abbia in odio la facoltà della ragione, in virtù della quale ci ha creati superiori agli altri esseri animati. Lontano da noi il credere che la fede ci impedisca di trovare o cercare la spiegazione razionale di quanto crediamo, dal momento che non potremmo neppure credere, se non avessimo un'anima razionale. Quando perciò si tratta di verità concernenti la dottrina della salvezza, che non possiamo ancora comprendere con la ragione (ma lo potremo un giorno), alla ragione deve precedere la fede; essa purifica la mente e la rende capace di percepire e sostenere la luce della suprema ragione divina: anche ciò è un'esigenza della ragione! Ecco perché proprio con coerenza razionale il profeta afferma: Se non credete, non comprenderete [ Is 7,9]. In questa frase il profeta distingue senza dubbio le due facoltà, consigliandoci anzitutto a credere per poter poi comprendere ciò che crediamo. È quindi un precetto ragionevole che la fede preceda la ragione. Se infatti questo precetto non fosse conforme alla ragione, sarebbe irragionevole, il che non può essere assolutamente. Se dunque è conforme alla ragione che, quando si tratta di supreme verità, le quali non possono conoscersi, la fede preceda la ragione, qualunque sia il ragionamento che ci convince di ciò, anch'esso deve senza dubbio condurre alla fede.
Come render ragione della nostra fede
1. 4. Ecco perché l'apostolo Pietro ci ammonisce che dobbiamo esser pronti a rispondere a chi ci chiede conto della nostra fede e della nostra speranza [cfr. 1Pt 3,15]. Orbene, se un infedele mi chiede ragione della mia fede e mi avvedo che prima di crederla non arriva a comprenderla, gli do questa ragione per fargli capire, se possibile, che procede a rovescio col chiedere, prima d'aver la fede, la ragione di verità che non può capire senza la fede stessa. Se invece mi chiede ragione della fede un cristiano, si deve innanzitutto esaminarne la capacità per dargli la spiegazione ad essa confacente; in tal modo avrà della propria fede una spiegazione adeguata alla propria intelligenza, ossia maggiore o minore a seconda della stessa intelligenza, purché non si allontani dal sentiero della fede finché non arrivi alla piena e perfetta conoscenza della verità. Per questo motivo l'Apostolo afferma: E se in qualche cosa la pensate diversamente, anche su ciò Dio vi illuminerà. Però, al punto in cui siamo arrivati, continuiamo a procedere sulla stessa via [ Fil 3,15-16]. Se dunque siamo già fedeli, siamo già arrivati a percorrere la via della fede; se non l'abbandoneremo, non solo arriveremo a comprendere le realtà spirituali e immutabili in modo tanto eccellente, come in questa vita a pochi è concesso d'arrivare, ma giungeremo senza dubbio al vertice della contemplazione, che l'Apostolo chiama vedere faccia a faccia [ 1Cor 13,12]. Tant'è vero ciò, che persone anche d'infimo livello intellettuale, camminando con esemplare perseveranza nella via della fede, arrivano alla contemplazione della felicità; altri invece pur avendo una certa conoscenza della natura invisibile, immutabile e spirituale, si rifiutano di camminare per la via che conduce alla dimora dell'ineffabile felicità. E perché? Essi giudicano stolta una tale via, cioè Cristo crocifisso, e così non possono penetrare nel santuario della stessa felicità, mentre la loro mente viene appena sfiorata da un lontano bagliore della sua luce.
Il miracolo e la fede
1. 5. Esistono poi delle realtà alle quali non prestiamo fede quando ne sentiamo parlare, ma poi, avutane la spiegazione razionale, veniamo a conoscere che sono vere, mentre prima non riuscivamo a crederle. Così tutti i miracoli operati da Dio non sono creduti dagli infedeli appunto perché non se ne vede la ragione. Tuttavia esistono realmente cose di cui non si potrebbe dar la ragione, che pure esiste! Che cosa, infatti, può esistere nell'universo che sia stato creato da Dio senza una ragione? D'altra parte è pur conveniente che di alcune opere strabilianti di lui la ragione sia alquanto recondita, affinché la loro conoscenza razionale non li svilisca presso gli animi insensibili e annoiati. Vi sono in realtà non pochi, i quali sono più trasportati ad ammirare le cose che a conoscerne le cause: per costoro anche i miracoli cessano d'essere cose meravigliose. È quindi necessario stimolare questi tali alla fede nelle cose invisibili con portenti visibili, affinché, purificati dalla carità, giungano a familiarizzarsi con la verità e cessino di provarne meraviglia. È quanto avviene nei teatri; la gente rimane incantata alla vista d'una funambolo o prova un gran piacere per la musica; nel primo stupisce la difficoltà degli esercizi, nella seconda avvince e diletta la soavità dei suoni.
La vera ragione conduce alla fede
1. 6. Ti ho voluto esprimere queste considerazioni per eccitare la tua fede ad amare l'intelligenza spirituale, alla quale conduce la vera ragione e alla quale la fede prepara l'animo. C'è purtroppo un argomentare della ragione, il quale ha fatto credere falsamente che nella Trinità, cioè in Dio, il Figlio non sarebbe eterno come il Padre e che lo Spirito Santo sarebbe dissimile e in qualche parte diverso e per ciò inferiore alle altre due persone. V'è parimenti un'argomentazione razionale che pretende dimostrare che il Padre e il Figlio sono della stessa natura, mentre lo Spirito Santo sarebbe di natura diversa. Queste argomentazioni devono essere categoricamente riprovate ed evitate, non perché asserzioni della ragione, ma perché false. È logico: se un'asserzione fosse rispondente a verità, non sarebbe certo erronea. Come non devi evitare qualunque ragionamento per il fatto che c'è pure un falso ragionamento, così non devi evitare qualsiasi spiegazione razionale per il fatto che se ne trova pure qualcuna falsa. Lo stesso potrei dire della sapienza; nemmeno essa deve evitarsi per il solo fatto che vi è pure una falsa sapienza, secondo il cui criterio sarebbe stoltezza il Cristo crocifisso, mentre è la Potenza e Sapienza di Dio [cfr. 1Cor 1,24]. Proprio mediante la stoltezza della predicazione parve bene a Dio salvare i credenti, poiché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini [cfr. 1Cor 1,21.25]. Di questa verità non poterono convincersi certi filosofi e professori, i quali seguirono non la via del vero ma del verosimile, ingannando in tal modo se stessi e gli altri. Alcuni d'essi invece poterono convincersene poiché non reputarono Cristo scandalo o stoltezza. Fra essi si trovano i Giudei e i Greci chiamati alla fede per i quali Cristo è la Potenza e Sapienza di Dio [cfr. 1Cor 1,24]. In questa via, cioè nella fede di Cristo crocifisso, alcuni poterono capire con la grazia di Dio ch'essa era la retta via. Pur avendo la nomea di filosofi e di dottori, confessarono con religiosa umiltà che nella via intrapresa erano stati preceduti da pescatori, a loro stessi superiori non solo per l'incrollabile fermezza nel credere, ma pure per l'inconcussa certezza dell'intelligenza. Avendo infatti appreso che le cose deboli del mondo sono state scelte per confondere le forti e le sapienti [cfr. 1Cor 1,27] e che la propria sapienza era ben fallace, e ben fragile la propria superiorità, presi da un salutare sentimento di confusione si fecero stolti e deboli, affinché mediante ciò che è stolto e debole da parte di Dio, ma che è più sapiente e più forte degli uomini, divenissero, tra le cose stolte e deboli scelte da Dio, davvero sapienti e realmente forti.
Impossibile concepire con la fantasia la Trinità
2. 7. La fede del credente rispetta solo la ragione fondata sull'indiscutibile verità. Per questo motivo non esitiamo a respingere quella specie d'idolatria che la debolezza dell'umano pensiero si sforza di stabilire nella nostra mente a forza d'essere abituati a immaginare cose sensibili. Per questo motivo non osiamo credere che la invisibile, incorporea e immutabile Trinità adorata da noi sia una specie di tre gigantesche masse viventi maestose e belle quanto si voglia ma circoscritte entro i loro rispettivi spazi, organicamente unite tra loro, pur rimanendo ciascuna nei limiti del proprio spazio. Non dobbiamo neppure immaginare che una delle tre Persone sia in mezzo alle altre due separandole l'una dall'altra in modo che ciascuna resti contigua al suo fianco oppure tutte e tre contigue come i lati di un triangolo senza che nessuna resti separata dalle altre. Non dobbiamo d'altronde immaginare nemmeno che di queste tre persone così auguste e maestose (limitate comunque in alto e in basso e da ogni parte, per quanto possa essere enorme la loro mole) esista una specie di quarta divinità, diversa da ciascuna delle tre, ma comune a tutte e tre come una specie di potenza divina, intera in tutte e tre e in ciascuna di esse, in virtù della quale unica divinità la Trinità possa dirsi un solo Dio. Non dobbiamo infine immaginare che queste tre persone siano solo in cielo, mentre la divinità sarebbe sempre presente in ogni luogo, né immaginare che in tal modo si possa dire con ragione che Dio è in cielo e in terra in virtù della divinità, che sarebbe ovunque e comune alle tre persone, mentre non si potrebbe dire con ragione che il Padre o il Figlio o lo Spirito Santo sia in terra, dal momento che la sede della Trinità sarebbe solo in cielo. Orbene, quando la vera ragione comincia a rigettare codesta immaginazione e falsa fantasia di pensiero carnale, aiutati e illuminati interiormente da Colui che ricusa assolutamente d'abitare insieme con tali false immagini della divinità (ossia idoli) nella nostra mente, ci affrettiamo subito a spezzare tali idoli e per così dire a cacciarli via dalla nostra fede non permettendo che vi resti neppure la polvere di tali rappresentazioni immaginarie.
Mutui rapporti tra fede e ragione
2. 8. Se le argomentazioni (che, ammonendoci all'esterno, mentre internamente siamo illuminati dalla stessa verità, ci fanno comprendere la falsità di quelle affermazioni) non fossero precedute nel nostro cuore dalla fede che ci rivesta di sentimenti religiosi, non ascolteremmo invano le verità in esse contenute? In questo processo conoscitivo la fede svolge la parte che l'è propria e in conseguenza la ragione trova qualche chiarimento dei problemi indagati. Pertanto alla falsa ragione è da preferire senza dubbio non solo la vera ragione con cui comprendiamo le verità che crediamo, ma anche la fede nelle verità che ancora non abbiamo comprese. Ad ogni modo è meglio credere ciò ch'è vero, per quanto non ben capito, che pensar di capire come vero ciò che al contrario è falso. La fede infatti ha i suoi occhi, con cui vede in certo modo ch'è vero ciò che ancora non vede chiaro e coi quali vede con assoluta certezza che ancora non vede chiaro ciò che crede. Orbene, chi mediante la vera ragione capisce ciò che prima riteneva certo solo per fede, è senz'altro da preferirsi a chi desidera ancora di capire ciò che crede. Qualora poi costui non sentisse nemmeno un tale desiderio e considerasse quale solo oggetto da credere le verità che ancora dovesse intendere, ignorerebbe a che giova la fede. Infatti la fede ispirata dal sentimento religioso non vuol restar separata dalla speranza e dalla carità. Il fedele quindi deve credere quel che ancora non vede in modo da sperare e amare di vedere in futuro.
Realtà visibili e invisibili in rapporto alla fede
2. 9. Orbene, le cose visibili già passate nel tempo sono esclusivamente oggetto della fede, in quanto non può sperarsi di poterle ormai più vedere. Tale è il fatto che Cristo, morto per i nostri peccati, una volta risuscitato, non muore più e la morte non avrà più dominio su di lui [cfr. Rm 6,9-10; 1Pt 3,18]. Le cose che invece ancora non esistono ma che avverranno, come la risurrezione dei nostri corpi spiritualizzati, sono credute in modo che si spera pure di vederle, pur non potendo al presente essere affatto mostrate. Finalmente le cose che non hanno né passato né avvenire, ma permangono eterne, sono in parte invisibili come la giustizia e la sapienza, in parte sono visibili come il corpo di Cristo ormai immortale. Le invisibili si vedono con l'intelletto, cioè in modo confacente alla loro natura e, quando si vedono, sono molto più certe di quelle percepite coi sensi del corpo: si dicono tuttavia invisibili poiché non possono vedersi con occhi materiali. Le cose visibili e permanenti, al contrario, qualora ci siano mostrate, possono esser viste pure con gli occhi mortali: così il Signore si mostrò ai suoi discepoli dopo la sua risurrezione [cfr. Mt 28; Mc 16 ; Lc24 ] e anche dopo la sua ascensione all'apostolo Paolo [cfr. At 9,3ss] e al diacono Stefano [cfr. At 7,55].
Le cose spirituali e invisibili
2. 10. Per tale motivo le cose invisibili ed eterne le crediamo in modo che, sebbene non ci vengano mostrate con evidenza, speriamo tuttavia di poterle vedere un giorno, senza sforzarci di comprenderle con la ragione o con l'intelletto, ma pensandole in modo da discernere più distintamente le visibili dalle invisibili. Quando ne immaginiamo col pensiero la natura o la forma, sappiamo bene solo che non ci sono note. In questo modo m'immagino Antiochia, che non conosco, ma non come m'immagino Cartagine che già conosco. Nel primo caso si tratta di un'immagine formata dalla fantasia, nel secondo invece d'un ricordo; eppure non ho alcun dubbio né dell'esistenza della prima, attestata da mille testimoni, né dell'altra riguardo alla quale credo ai miei occhi. Al contrario la giustizia, la sapienza e qualunque altra cosa della stessa specie, non ce le figuriamo in un modo e le contempliamo in un altro, ma le contempliamo e le comprendiamo invisibili con la semplice percezione della mente e della ragione, prive di qualunque forma e dimensione corporea, di lineamenti e di configurazione di membra, senza limiti di luogo circoscritto o di spazio infinito. C'è invece una luce mediante la quale discerniamo tutte queste realtà, mediante la quale ci appare chiaro ciò che crediamo senza conoscerlo, e ciò che conosciuto teniamo per certo, quali forme corporee ricordiamo, quali invece immaginiamo col pensiero, che cosa percepiamo coi sensi del corpo e che cosa invece l'animo immagina simile a un corpo, che cosa l'intelligenza contempla come certo e del tutto diverso da qualunque realtà corporea. Questa luce, dunque, mediante la quale discerniamo ogni cosa, non è come lo splendore del nostro sole o di qualunque altro corpo luminoso che si diffonde irradiandosi ovunque attraverso lo spazio per illuminare la nostra mente come uno splendore visibile. No; essa brilla in modo invisibile e ineffabile, ma purtuttavia in modo intelligibile; l'avvertiamo tanto certa quanto certe ci rende tutte le cose che contempliamo per mezzo di essa.
La Trinità vertice delle realtà invisibili
2. 11. Tre pertanto sono le specie delle realtà visibili: le corporee, come questo nostro cielo e la nostra terra e tutto ciò che in essi scorge e percepisce il nostro senso corporeo. Alla seconda specie appartengono le realtà simili alle corporee, come quelle che evochiamo o immaginiamo con la fantasia quando percepiamo corpi ancora presenti nella memoria o dimenticati; alla medesima specie appartengono pure le visioni, che vi s'insinuano quasi con le parti distribuite nello spazio; ad essa appartengono altresì i fantasmi veduti in sogno o in un rapimento fuor dei sensi. Alla terza specie, distinta dalle altre due, appartengono cose che non sono né corporee né hanno alcuna somiglianza con le corporee, com'è la sapienza, la quale si vede quando la intendiamo con la mente e con la cui luce giudichiamo tutte le cose. Orbene, a quale di queste tre specie di realtà dobbiamo credere appartenga la Trinità che noi vogliamo conoscere? O a qualcuna o a nessuna di esse: non c'è dubbio. Se appartiene a qualcuna di esse, deve appartenere senz'altro alla specie superiore alle altre due, cioè a quella cui appartiene la sapienza. Se poi questa è in noi quale dono di Dio ed è inferiore a quella suprema e immutabile che viene chiamata Sapienza di Dio, non si deve, a mio avviso, porre il donatore in un grado inferiore al suo dono. Inoltre se v'è in noi un raggio della somma Sapienza, raggio che chiamiamo sapienza umana, per quel poco che possiamo conoscere della somma Sapienza come di riflesso e in maniera enigmatica [cfr. 1Cor 13,12], dobbiamo distinguerla da tutti i corpi e da tutto ciò che ha somiglianza con essi.
La Trinità trascende l'intelletto umano
2. 12. Se poi dobbiamo credere che la Trinità non appartiene a nessuna delle suddette tre specie ed è assolutamente invisibile anche alla nostra mente, molto meno dobbiamo avere di essa l'idea di crederla simile alle realtà corporee o a rappresentazioni di esse. La Trinità è infatti superiore alle realtà corporee non per la forma o grandezza della mole ma per la sua natura diversissima e incomparabilmente superiore; è incomparabilmente diversa dai beni dell'anima nostra, come la sapienza, la giustizia, la carità, la castità e altri beni congeneri che non valutiamo certamente in base alla mole corporea né ce li raffiguriamo di forma corporea, ma, quando l'intendiamo come si deve, li vediamo alla luce della mente assolutamente privi di qualsiasi natura corporea o somiglianza di natura corporea. Quanto più dunque la Trinità non sarà incomparabilmente superiore a tutte le proprietà e dimensioni degli esseri corporei! La Trinità non è tuttavia un concetto del tutto alieno al nostro intelletto. Così ci attesta l'Apostolo quando dice: Fin dalla creazione ciò che di Dio è invisibile si lascia vedere dalla intelligenza attraverso le sue opere, come per esempio la sua eterna potenza e la sua divinità [ Rm 1,20] Ecco perché, avendo la Trinità creato l'anima e il corpo, è certamente superiore all'una e all'altro. Se però consideriamo l'anima, specialmente quella dell'uomo, dotata d'intelligenza e di ragione, creata ad immagine della stessa Trinità, vedremo che se l'anima non sarà sopraffatta dai nostri pensieri e dalle nostre idee, se mediante la mente e l'intelligenza potremo comprendere quel che è superiore ad essa, vale a dire la mente e l'intelligenza, non sarà forse assurdo pensare che potremo innalzarla fino ad intendere con l'aiuto di Dio il suo proprio creatore. Se invece l'anima soggiace alla propria impotenza e soccombe allo sforzo, finché è pellegrina lontano dal Signore, s'accontenti del religioso sentimento della fede fino a quando non si realizzerà nell'uomo la promessa di Dio, il quale, al dire dell'Apostolo, ha il potere di fare ben al di sopra di quanto possiamo chiedere o capire noi stessi [Ef 3,20].
La Trinità è la sola divinità del Padre, Figlio e Spirito Santo
3. 13. Stando così le cose, desidero che tu frattanto legga le molte cose da me scritte intorno alla presente questione e anche le molte altre che ho cominciato a trattare ma non posso spiegare, data la profondità di un problema così difficile. Per ora credi fermamente che Padre, Figlio e Spirito Santo sono la Trinità ma anche un sol Dio: non che sia comune ad essi una specie di quarta divinità, ma questa è la stessa ineffabile e inseparabile Trinità. Credi fermamente che il solo Padre ha generato il Figlio e che il solo Figlio è stato generato dal Padre e che lo Spirito Santo è lo Spirito del Padre e del Figlio. Quando poi pensi a questo mistero e ti si presenta alla mente qualcosa di simile alla natura corporea, rifiutala, allontanala, negala, rigettala, scacciala, fuggila. Del resto non è davvero un piccolo inizio nella conoscenza di Dio se, prima di poter conoscere che cosa egli sia, cominciamo a sapere che cosa egli non è. Cerca con tutta l'anima di comprendere per mezzo dell'intelligenza, poiché nemmeno le Sacre Scritture, che ci esortano a prestar fede a realtà tanto importanti prima di poterle comprendere, potrebbero esserti utili, se non fossero intese come si deve. Ti dico così poiché a tutti gli eretici, che ne ammettono l'autorità, sembra d'attenersi alle Scritture, mentre si attengono ai propri errori: e sono eretici, non perché disprezzano le Sacre Scritture, ma perché non le intendono.
In qual senso Dio è in cielo
3. 14. Tu però, o carissimo, prega con ardore e con fede, affinché Dio ti conceda l'intelligenza e ti possano così riuscire utili gl'insegnamenti impartiti esternamente da diligenti insegnanti e maestri, poiché non è nulla né chi pianta né chi innaffia, ma chi fa crescere, Dio [1Cor 3,7]. A lui perciò diciamo: Padre nostro che sei nei cielii [Mt 6,9], non perché sia lassù e non sia quaggiù, essendo tutto dovunque con la sua presenza incorporea, ma perché abita, per così dire, in coloro la cui pietà gli è gradita: ora tali persone vivono soprattutto nei cieli, dove noi pure quali esuli abbiamo la nostra cittadinanza [cfr. Fil 3,20], se la nostra bocca dice la verità quando esclama che abbiamo il nostro cuore rivolto lassù. Se infatti intendessimo in senso materiale l'espressione della sacra Scrittura: Il cielo è mia sede e la terra è sgabello dei miei piedi [Is 66,1], dovremmo credere che Dio stia contemporaneamente quaggiù e lassù senz'essere interamente lassù poiché i piedi poggerebbero quaggiù e senz'essere interamente quaggiù, poiché le parti superiori del suo corpo si troverebbero lassù! Ma da questa immaginazione materialistica può liberarci un'altra affermazione della sacra Scrittura che dice: Chi ha misurato con la spanna le dimensioni del cielo e ha racchiuso nel pugno la terra? [Is 40,12] Chi può infatti abitare in uno spazio lungo una spanna o poggiare i piedi sopra uno spazio che può stare in un pugno? Ma può darsi che l'ottusità dell'uomo carnale arrivi al punto di stimare piccola l'assurdità di attribuire a Dio membra umane se non se le immagina pure sì mostruose che un palmo sia più largo dei lombi e un pugno più largo delle due palme aperte poste una accanto all'altro! Dico ciò, perché tu comprenda quanto sarebbero assurde simili espressioni se intese materialmente e perché, messi in guardia da esse, pensiamo che cosa vogliano significare realtà ineffabilmente spirituali.
Cosa vuol dire la destra del Padre
3. 15. Pertanto anche se immaginiamo nel suo aspetto e con le membra umane il corpo del Signore dopo essere uscito dal sepolcro e sollevato sino al cielo, non dobbiamo però immaginarlo assiso materialmente alla destra del Padre come se il Padre stesse alla sinistra. È naturale: nella celeste beatitudine, che sorpassa l'umano intendimento, esiste solo la destra, termine usato per indicare la stessa beatitudine. Non si deve ugualmente fraintendere l'espressione rivolta da Cristo a Maria dopo la sua risurrezione: Non toccarmi, poiché non sono ancora asceso al Padre mio [Gv 20,17]; la intenderebbe a sproposito chi le attribuisse il senso che Cristo non volesse essere toccato da donne se non dopo la sua ascensione al cielo, mentre s'era fatto toccare da uomini prima, di salire al cielo. Maria raffigura la Chiesa. Quando perciò Cristo le rivolse quelle parole, volle solo farle capire che sarebbe salito al Padre quando lo avrebbe riconosciuto uguale allo stesso Padre. Con questa fede essa toccò Cristo in modo salvifico, mentre lo avrebbe toccato in modo eretico, se lo avesse creduto solo una persona umana com'era apparso ai sensi del corpo. In questo modo lo toccò l'eretico Fotino, il quale credeva che Cristo fosse solamente uomo.
Gli attributi e l'essenza della Trinità
3. 16. Quelle espressioni del Signore si potrebbero interpretare forse in un senso più appropriato e migliore; sarebbe comunque da respingere l'opinione secondo cui la sostanza del Padre sarebbe in cielo in quanto sarebbe una persona della Trinità, mentre la divinità sarebbe non solo in cielo ma dappertutto, come se il Padre fosse una cosa e un'altra cosa distinta la divinità che ha in comune con il Figlio e lo Spirito Santo. In quest'ipotesi la Trinità verrebbe ad essere per così dire circoscritta in uno spazio materiale come una sostanza corporea, mentre la divinità, unica nelle tre Persone e ovunque presente, sarebbe soltanto essa incorporea e tutta intera ovunque. È però assolutamente impossibile che nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo gli attributi siano una cosa del tutto diversa dalla sostanza. Ammesso pure che la divinità fosse un attributo delle Persone, neppure così concepita potrebbe trovarsi in altre parti oltre che nella propria sostanza. Se invece fosse una sostanza distinta da quelle delle Persone, sarebbe una sostanza diversa e crederlo sarebbe un gravissimo errore.
La Trinità è sostanza o essenza sussistente
3. 17. Ma se non comprendi bene quale differenza passa tra sostanza e attributi, puoi almeno comprendere più facilmente questa verità: la divinità della Trinità, che alcuni credono diversa dalla stessa Trinità, mentre in virtù di essa le tre Persone non vengono dette tre dèi ma un solo Dio, in quanto essa è unica e comune alle stesse Persone, o è sostanza oppure no. Se è sostanza ed è diversa dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, ossia pure dalla Trinità stessa, è senza dubbio un'altra sostanza; opinione, questa, respinta e rigettata dalla verità. Se invece la divinità non è una sostanza ed è Dio stesso, in quanto è tutta intera dovunque, essa non è la Trinità e per conseguenza Dio non è sostanza; ma chi mai dei Cattolici oserebbe affermare una simile cosa? Parimenti, se la divinità non è sostanza e la Trinità è, in virtù di essa, un solo Dio, perché unica nelle tre Persone, si sarebbe dovuto dire che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno non già un'unica sostanza, ma un'unica divinità, che però non sarebbe sostanza. Tu però sai che la fede cattolica sostiene ed ha sempre sostenuto che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, proprio per il fatto d'essere la Trinità , sono pure un solo Dio, poiché sussistono inseparabili in un'unica ed identica sostanza, o, se vogliamo parlare più esattamente, in un'unica essenza. In realtà alcuni nostri teologi, soprattutto Greci, insegnano che la Trinità , ossia Dio, è un'unica essenza piuttosto che un'unica sostanza, credendo o comprendendo che fra questi due termini v'è una certa differenza, sulla quale adesso è meglio non discutere. Anche se chiamassimo essenza anziché sostanza la divinità che si pensa diversa dalla stessa Trinità, ne deriverebbe ugualmente il medesimo errore; poiché se la divinità è diversa dalla Trinità sarà pure diversa l'essenza. Dio guardi i Cattolici dal dire una tale assurdità! Ci resta dunque solo di credere che la Trinità è un'unica sostanza in modo che la sua essenza non sia altro che la stessa Trinità. E per quanto durante la nostra vita possiamo avanzare nella conoscenza della Trinità, la vedremo sempre come riflessa in uno specchio e in maniera enigmatica [cfr. 1Cor13,12]. Quando però risorgeremo e, come ci è stato promesso, cominceremo ad avere il corpo spiritualizzato, la vedremo con la mente e anche col corpo in modo prodigioso, poiché la luce del corpo spiritualizzato è un dono ineffabile. Secondo la nostra capacità vedremo la Trinità non già come se occupasse un dato posto nello spazio o minore in una parte e maggiore in un'altra, poiché non è una sostanza corporea, ma è tutta intera dovunque.
La giustizia, vita dell'anima
4. 18. Nella tua lettera dici che ti sembra, o meglio “ti sembrava che nella giustizia considerata come sostanza, non vi fosse nulla di vivente e perciò non potevi ancora pensare Dio, natura vivente, come un essere simile alla giustizia, appunto perché - a quanto dici - la giustizia non vive in se stessa ma in noi, o meglio siamo noi che viviamo secondo la giustizia, mentre essa non vive affatto di vita propria”. A tale obiezione puoi rispondere da te stesso, ma devi considerare se possa giustamente affermarsi che non vive in se stessa la vita, in virtù della quale vive tutto ciò che giustamente diciamo che vive. Ti sembrerà - io penso - assurdo che mentre si vive in virtù della vita, questa non viva! Ora se vive soprattutto la vita, in virtù della quale vive ogni essere vivente, ricorda, ti scongiuro, quali sono le anime che la divina Scrittura chiama morte e senza dubbio troverai che sono le anime ingiuste, empie e infedeli. Proprio in virtù di tali anime vivono i corpi degli empi, di cui è stato detto dal Signore: I morti seppelliscano i loro morti [Mt 8,22]. Da questa espressione si comprende che anche le anime inique non sono prive d'una certa qual vita. I corpi insomma non potrebbero vivere in virtù di tali anime, se non perché animati da un principio vitale quale che sia, di cui le anime non possono affatto essere prive e per causa del quale sono dette giustamente immortali. Le anime però, una volta perduta la giustizia, sono chiamate morte non per altro se non perché, sebbene conservino sempre una certa qual vita naturale, sono prive della giustizia: questa è la vita più genuina e preziosa, la quintessenza per così dire della vita anche delle anime, sebbene queste godano d'una vita immortale quale si voglia, e per cui, unite ai corpi, mantengono in vita pure essi, che altrimenti non potrebbero vivere da se stessi. Se quindi le anime non possono non avere in se stesse una specie di vita, dal momento che in forza di esse vivono i corpi (i quali muoiono appena abbandonati da esse), quanto più deve credersi che viva di vita propria la giustizia, in virtù della quale vivono le anime che, perdendola, sono chiamate morte, sebbene non cessino di vivere di una loro propria vita per quanto debole si voglia.
La perfezione finale è partecipazione piena della giustizia divina
4. 19. D'altra parte la giustizia, vivendo di vita propria, è certamente Dio: essa vive immutabile. Orbene, come la vita perfetta in se stessa diviene pure nostra vita quando ne diventiamo comunque partecipi, così pure la giustizia, perfetta in se stessa, diventa anche nostra giustizia quando aderiamo ad essa vivendo secondo giustizia e siamo più o meno giusti a seconda che aderiamo più o meno ad essa. Ecco perché dell'Unigenito Figlio di Dio, pur essendo sapienza e giustizia del Padre sempre identica a se stessa, sta scritto che per volere di Dio è divenuto nostra sapienza e giustizia, santificazione e redenzione, affinché, come sta scritto [ Ger 9,23], chi si vanta, si vanti nel Signore [ 1Cor 1,30]. Questo veramente l'hai visto tu stesso quando hai soggiunto: ''Salvo che per caso non si affermi che la giustizia non è quella corrispondente al sentimento umano della giustizia ma quella che s'identifica con Dio". Senza dubbio la vera giustizia è il sommo Dio come il vero Dio è la somma giustizia. La nostra giustizia durante il nostro esilio terreno consiste proprio nell'aver fame e sete della vera giustizia [cfr. Mt 5,6]; saziarci di essa sarà la nostra piena giustizia nell'eternità. Non pensiamo quindi affatto che Dio sia simile alla nostra giustizia, ma pensiamo piuttosto che siamo tanto più simili a Dio quanto più saremo giusti partecipando della sua giustizia.
Giustizia increata e giustizia partecipata
4. 20. Sicuro: dobbiamo guardarci dal pensare Dio simile alla nostra giustizia, poiché la sua luce che illumina [cfr. Gv 1,9] è impareggiabilmente superiore a ciò che viene illuminato. Tanto più dunque dobbiamo guardarci dal credere ch'egli sia qualcosa d'inferiore e di più pallido della nostra giustizia! Cos'è mai in fondo la nostra giustizia o qualunque altra virtù, per la quale si vive rettamente e saggiamente, se non la bellezza dell'uomo interiore? E certamente è in virtù di questa bellezza e non di qualche rassomiglianza corporea che noi siamo stati creati a immagine di Dio! Ecco perché ci viene detto: Non vogliate conformarvi al secolo presente ma trasformatevi rinnovandovi nella vostra mente per discernere quale sia la volontà di Dio, che cosa sia bene, a lui gradito e perfetto [ Rm 12,2]. Se dunque diciamo o conosciamo o desideriamo bella la nostra mente non a modo d'una grandezza corporea con le membra disposte ciascuna al suo posto, come cioè i corpi che vediamo o immaginiamo, bensì a modo d'una facoltà spirituale com'è la giustizia; se in virtù di tale bellezza noi ci trasformiamo ad immagine di Dio, non dobbiamo immaginare come una grandezza corporea la bellezza di lui che ci formò e ci trasforma a sua immagine; dobbiamo invece crederlo tanto incomparabilmente più bello dell'anima dei giusti quanto è incomparabilmente più giusto. Basti aver richiamato queste considerazioni alla memoria della tua Dilezione; considerazioni forse più prolisse di quanto ti aspettavi riguardo alla normale lunghezza d'una lettera, ma brevi riguardo all'argomento particolarmente importante della questione. Esse saranno sufficienti non dico a istruirti, ma a metterti in grado, se leggerai o ascolterai attentamente altri teologi, di rettificare certe tue affermazioni meno ortodosse. Ciò ti riuscirà tanto meglio quanto maggiore sarà l'umiltà e la fede con cui lo farai.
Le Lettere, n. 120, tr. it. di L. Carrozzi, in “Opere di sant'Agostino”, vol. XXI, Città Nuova, Roma 1969, pp. 1189-1213.