Alcune terzine della Commedia di Dante Alighieri sono entrate nel linguaggio comune. Sembrano quasi dei proverbi o delle massime che sentiamo ripetere: forse non quando ascoltiamo annunci pubblicitari, ma sì in un ambiente scolastico, o in altri luoghi familiarizzati con le opere di letteratura. Se te ne cito qui una, per avviare la nostra conversazione, la riconoscerai: «Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza». Sono le parole con cui Ulisse, in viaggio sul Mediterraneo, una volta giunto alle colonne d’Ercole (stretto di Gibilterra) incita i suoi a non aver paura ad attraversare anche questa soglia, ritenuta nel mondo antico uno dei limiti paradigmatici della conoscenza umana. La terzina completa premette un altro verso e suona così: «Considerate la vostra semenza / Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza» (Inferno, XXVI, 118-120).
Ulisse siamo noi. Lo è stato Homo sapiens, perché il suo desiderio di conoscere lo ha portato a migrare in diverse ondate fuori dall’Africa centrale, dove aveva iniziato la sua storia biologica, per raggiungere in poche migliaia di anni (a quei tempi non andavamo in aereo…) tutti gli altri continenti. Gli studiosi convergono sul fatto che non lo abbia fatto per cibo o per cercare migliori partner per riprodursi. Aveva semplicemente voglia di vedere cosa ci fosse dall’altra parte del fiume. Ulisse siamo noi quando non ci accontentiamo di quel che sappiamo e abbiamo appreso da altri, ma vogliamo sperimentare, vedere, capire, conoscere appunto. Abbiamo dapprima voluto conoscere dove si trovava la nostra città o il nostro paese, vedere su una cartina geografica il luogo che l’Italia occupava sul nostro pianeta, e poi, con il passare del tempo, quello del nostro pianeta in mezzo al cielo, dove finisce questo cielo, se finisce da qualche parte. Vogliamo sapere cosa c’è oltre il sole, oltre la nostra galassia e l’ammasso della Vergine di cui la Via Lattea fa parte: vogliamo capire perché siamo finiti qui e cosa ci facciamo. Questa è la “nostra semenza” direbbe Dante.
Ma è proprio solo la nostra? Non fanno così anche gli altri animali? Cosa ci differenzia da loro? Anche le formiche sul prato del giardino di fronte a casa mia cercano di sapere dove trovare cibo, dove incontrare i frammenti di materia organica da portarsi in fondo ai cunicoli del loro formicaio. I piccoli pappagalli sui rami dell’albero di fronte alla mia finestra (abito in periferia, poco fuori il centro di Roma) cercano di capire quali rami sono più adatti per costruirci un nido: li saggiano, provano la costruzione in luoghi diversi, prima di scegliere quelli giusti. Ma sono tutti uguali questi nidi; come sono uguali i formicai e le dighe dei castori sui fiumi. Da circa 20 milioni di anni, cioè da quando è comparsa la specie castor canadiensis, le dighe di questi roditori semiacquatici hanno medesima forma e medesime dimensioni. Noi, Homo sapiens, in poche decine di migliaia di anni abbiamo conosciuto il modo di passare dalle prime abitazioni scavate nelle grotte a progettare città sul pianeta Marte. Ancora non ci siamo arrivati, ma i progetti esistono già: li ho visti sul tavolo di lavoro di un professore del Politecnico di Torino, con il quale conversiamo di queste cose. A differenza degli animali, il conoscere dell’uomo è creativo: creiamo sempre qualcosa di nuovo, progettiamo cose che non esistevano, ci inventiamo sempre il modo di superare tutte le colonne di Ercole che incontriamo, per conoscere cosa c’è “la fuori”.
Non sei stupito di fronte alla capacità dell’essere umano di conoscere la realtà? Io devo confessarti di sì. Siamo capaci di contare quanti sono i quarks che compongono un protone nel nucleo di un atomo e quanti sono i legami sinaptici che collegano i neuroni del nostro cervello. Possiamo dire come era fatto l’universo 13 miliardi di anni fa e quanti geni appartenenti all’uomo di Neanderthal sono finiti nel DNA di Homo sapiens. Conosciamo come far giungere da terra le istruzioni per far muovere un rover sulla superficie di Marte e puntare la sua telecamera, e come riparare chirurgicamente il distacco della retina nell’occhio interno di qualcuno che ha subito un trauma. Sì, stupore. Per quello che sappiamo fare, per aver capito come è fatta la realtà. Stupiti di conoscere le leggi della natura, i rapporti matematici che le presiedono, i valori delle costanti che ne regolano l’azione. Newton, Planck, Boltzmann, Schroedinger, Einstein, sono oggi nomi di costanti fisiche e di leggi scientifiche perché furono nomi di uomini che si fecero domande, vollero conoscere di più, provarono a capire com'era fatto il mondo che avevano attorno.
A me pare che la conoscenza della natura sia parte di un dialogo, come quando si parla con un’altra persona. Conoscere è dire di sì alla realtà. È ascoltarla. Ogni esperimento è porle una domanda, i risultati sono le risposte che essa ci fornisce. La realtà non la inventiamo, la scopriamo, o magari la riceviamo, da qualcuno, forse da Qualcuno. Conoscere è sempre entrare in relazione con qualcuno: natura, altre persone, noi stessi. Conosciamo una persona quando cominciamo a frequentarla. Non si può conoscere in solitudine. Conosciamo grazie a chi ci ha preceduto nella storia e nell’esperienza. Grazie a testimoni. Siamo parte di una tradizione, di una scuola. Chi non vuole legarsi a nulla o a nessuno, chi non vuole imparare da chi ci ha preceduto, deve rassegnarsi all’ignoranza.
La conoscenza non è un bene di consumo: quando la impieghiamo non diminuisce né si esaurisce, ma si moltiplica senza togliere nulla a chi la comunica. Conoscere è un bene. Per questo, comunicare conoscenza è un servizio. La divulgazione scientifica è un servizio. Insegnare storia o letteratura, spiegare una formula di fisica o una poesia di Leopardi è un servizio. Trasmettere nelle aule di un liceo il contenuto di un manuale di biologia, di un manuale di scienza delle costruzioni o di anatomia umana nelle aule universitarie, è un servizio. Sotto certi aspetti è anche un diritto, il diritto di conoscere come stanno le cose, di conoscere la verità delle cose, anche la verità su noi stessi. Saper comunicare conoscenza è stato (e continua ad essere) uno degli atteggiamenti che ha favorito la “nostra semenza”, Homo sapiens, rendendolo soggetto di una evoluzione "culturale" che ha influito anche sulla sua evoluzione biologica. Abbiamo saputo condividere conoscenza, trasmetterla, farla fruttare. Chi chiude le porte del proprio laboratorio, o quelle della propria vita, non comunicando agli altri le proprie esperienze, non condividendo i suoi sentimenti, è destinato a retrocedere e prima o poi a fermarsi.
La conoscenza si costruisce facendo attenzione ai molti dettagli che la edificano, la cui comprensione richiede pazienza e sacrifici, ma i dettagli non ci soddisfano. Ci entusiasmano le domande grandi, le big questions. Sono quelle a cui – forse ti è già capitato – nella vita ti diranno di non fare caso, di non perderci dietro del tempo, perché, ti diranno, è necessario concentrarti sui dettagli. Devi specializzarti, imparare a fare bene una cosa, saper andare al concreto. Altrimenti non troverai mai un buon lavoro, non avrai successo nella vita. Le risposte alle grandi domande non le conosce nessuno… sono troppo in là, ben oltre la riva del fiume, ben oltre la cima più alta. Provo invece a suggerirti il contrario. Appassionati proprio ad esse, a quelle domande che, nella vita, nessuno ti incoraggerà a fare, se non lo vuoi proprio tu. Noi vogliamo conoscere il tutto e non solo la parte, vogliamo capire l’origine e non solo l’inizio. Come Ulisse, non dimenticarlo. Il nostro desiderio è desiderio di infinito. Una parola che non era ancora venuta fuori nella nostra conversazione. Sì, siamo fatti per l’infinito: non ci accontentiamo mai, ed è bene che sia così. Una volta Albert Einstein si lasciò sfuggire un commento: “Non sono interessato a come è fatto questo atomo o questa riga dello spettro di idrogeno, sono interessato a sapere come è fatto l’Universo, voglio conoscere i pensieri di Dio”. Anche questa parola non era ancora emersa, finora, ma non l’ho tirata fuori io.
La prima volta in cui mi accorsi che il desiderio di conoscere poteva essere, insospettatamente, desiderio di Dio, fu leggendo un autore medievale, Tommaso d’Aquino. Tutti gli esseri umani, affermava Tommaso, hanno il desiderio naturale di conoscere la verità; tutti hanno il desiderio naturale di vedere Dio. Lo hanno per natura, perché lo portano inciso nella loro “semenza”. Un cercatore di senso potrebbe tener presente questo pensiero e farlo proprio. Potrà aiutarlo nella sua ricerca. Magari gli indicherà la direzione che molti altri cercatori, prima di te e di me, hanno seguito per raggiungere la meta del loro consocere.