Elaine Howard Ecklund dirige alla Rice University (Texas) un gruppo di ricerca in sociologia della religione particolarmente attivo nello studio dei rapporti fra credenza e non credenza, esaminati nel contesto della cultura scientifica. Fra le opere precedenti a Varieties of Atheism in Science (2021) vanno ricordate Science vs. Religion. What scientists really think (2010) e Secularity and Science. What Scientists around the World really think about Religion (2019). Il volume, è importante dirlo subito, è fedele ad una prospettiva sociologica: agli autori non interessa offrire analisi teoretiche del rapporto fra fede e ragione, quanto indicare la situazione sul campo, spiegando quali caratteri presenta l’ateismo, o meglio le diverse forme di ateismo, professato dagli uomini di scienza, anche allo scopo di chiarire alcuni equivoci. Occorre ricordare che, negli Stati Uniti, quest’ultima posizione rappresenta solo il 30% degli scienziati, mentre il 50% di essi dichiara di possedere un’appartenenza religiosa confessionale e il restante 20% afferma di seguire una vita spirituale e/o di credere in Dio senza però appartenere ad alcuna tradizione religiosa. La base di dati impiegata nel presente lavoro comprende circa 1300 scienziati, fisici e biologi, operanti negli Stati Uniti e nel Regno Unito, scienziati che, appunto, si auto-qualificano atei. Finalità del lavoro è stata quella di studiare i motivi dell’ateismo e la sua genesi nella storia personale dei ricercatori, ma anche le forme che tale ateismo assume, nonché i suoi rapporti nei confronti del pensiero religioso: rispetto, indifferenza, attrazione, avversione…
I principali risultati ai quali il gruppo della Ecklund perviene possono riepilogarsi come segue. L’ateismo degli scienziati non è indice di avversione e ostilità verso il pensiero religioso. La forma di avversione combattiva ed esplicita nei confronti della religione, il cosiddetto “nuovo ateismo” teorizzato da R. Dawkins, S. Harris, C. Hitchens, D. Dennett, rappresenta un’esigua minoranza; prendere atto di questo risultato empirico viene considerato dagli Autori di grande importanza per correggere la percezione dell’opinione pubblica nei confronti della scienza. Ecklund e collaboratori trovano che gli studi scientifici universitari o la ricerca sul campo (exposure to science) non sembrano essere le cause dell’ateismo degli scienziati. Queste cause vanno cercate piuttosto nell’educazione adolescenziale e scolastica, nell’esempio familiare e nell’influenza giocata dai social media, dalle amicizie, ecc. L’età in cui si muta pensiero dalla credenza alla non credenza (per coloro che manifestano questo mutamento) si colloca in media sui 14-16 anni. Circa il 45% degli scienziati che si dichiarano atei afferma che il contatto con le scienze ha rafforzato (ma non ha determinato) le decisioni prese in età adolescenziale. Nel 55% dei casi, l’incontro con le scienze in età adulta non ha avuto influenza, né è stato determinante, sulla propria non credenza. In particolare, il 53% degli scienziati atei dichiara che all’età di 16 anni essi non possedevano alcuna appartenenza confessionale religiosa, e dunque gli studi scientifici universitari non hanno determinato in loro alcuna transizione fra credenza e non credenza. Risulta, inoltre, che gli scienziati che si riconoscono atei hanno spesso un impegno sociale, seguono e coltivano principi etici, meditano o pregano (il 22% in US e 9% in UK affermano di dedicarsi con regolarità alla meditazione, sebbene manifestativa anche solo di interiorità), posseggono insomma anch’essi forme di vita “spirituale”.
In merito ai rapporti con il pensiero religioso, vengono riconosciute tre principali forme di ateismo con le quali gli scienziati si identificano. Le vediamo in breve rassegna. “Ateismo moderno” (Modern Atheist Scientists): per il 67% degli intervistati la religione e le religioni storiche sono considerate forme psicologiche non cognitive, errate, inadeguate per la comprensione della realtà, basate su illusione, speranze infondate, ecc.; non si manifesta avversità, ma semplice giudizio di irrilevanza. “Ateismo religioso-culturale” (Culturally Religious Atheists): per il 27% degli intervistati il loro ateismo è compatibile con una visione della scienza come attività di valore morale, come servizio alla società e alla cultura; questo ateismo condivide con le persone religiose delle motivazioni culturali, educative, ecc.; ammette in sé una dimensione morale che mira al progresso e al benessere della società, per la quale ci si dichiara disposti anche a sacrifici personali. “Ateismo spirituale” (Spiritual Atheist Scientists): alla domanda “ti consideri una persona spirituale?” il 6% degli intervistati risponde affermativamente, dichiarando di possedere una propria vita spirituale, compatibile con il proprio ateismo nei riguardi di appartenenze confessionali; questa percentuale sale in ambiente US al 22% se la domanda posta è “sei interessato alla spiritualità?”; buona parte degli intervistati vede la ricerca scientifica e lo studio della natura come fonte di questa spiritualità. Nella categoria degli scienziati atei spirituali vi sono anche alcuni convinti dell’esistenza di una nuova vita dopo la morte. È interessante notare che gli Spiritual Atheist Scientists riconoscono due ragioni che hanno generato in loro una posizione “spirituale”: lo studio della natura come fonte di spiritualità e l’insufficienza del metodo scientifico a rispondere alle grandi domande esistenziali. La conoscenza scientifica è per loro un’attività spirituale, motivata da ragioni spirituali.
Occorre anche riportare che la maggior parte degli intervistati afferma che la vita può essere vissuta conferendole significato, e con un senso di missione, anche senza credere in Dio. La stessa conoscenza scientifica è grado di motivare una vita umana, orientandola a costruire il progresso dell’uomo e della società, senza necessità di credere in Dio. Anzi, ritengono che la fede in Dio sembrerebbe svalutare il significato del lavoro umano nella costruzione di tale progresso. Il non credente, affermano, sa che il progresso scientifico e umano dipende dalle proprie forze e non da Dio, motivando così il proprio impegno meglio di quanto potrebbe farlo affidarsi a Dio…
Il teologo o l’operatore pastorale che esamina questi dati non può non trarre anch’egli alcune conclusioni. La nuova evangelizzazione occorre sappia intercettare la spiritualità degli atei (scienziati e non) e valorizzare il senso di stupore in essi suscitato dalla natura, esplorandone i collegamenti con la rivelazione di Dio nel creato. Esistono però due gravi insufficienze di cui prendere atto. In primo luogo gli uomini di scienza atei non posseggono un’immagine corretta di Dio (Dio è criticabile perché ritenuto oggetto delle scienze empiriche, giudicato non esistente perché non definibile, ecc.); in secondo luogo, gli scienziati atei non posseggono una visione adeguata del rapporto fra attività umana nel mondo e progetto divino sulla storia, fra causalità creaturale e causalità di Dio. Non è superfluo che la teologia e l’azione pastorale, ma anche la catechesi, si chiedano quali siano le cause che hanno determinato queste due insufficienze.
Gli Autori menzionano infine 4 ragioni per le quali i credenti, persone religiose, dovrebbero conoscere più da vicino gli uomini di scienza che si auto-qualificano come atei: a) la maggioranza di loro non sono ostili alla religione; b) il motivo principale per cui la maggioranza di loro sono atei non è la pratica del lavoro scientifico; c) non tutti loro sono scientisti o riduzionisti; d) molti di essi non sono diversi dai credenti condividendo sentimenti esistenziali assai simili.