Esiste il gene dell’intelligenza? Quello del linguaggio? E quello della creatività? Per quanto strano possa sembrare questo tipo di domande, c’è stato un periodo – alcuni decenni fa ormai, per fortuna – in cui l’idea che i nostri geni determinassero ciò che noi siamo era presente, occasionalmente tra gli addetti ai lavori e molto più spesso nei discorsi divulgativi. La genetica, in ogni caso, è una branca molto sviluppata e potente della biologia attuale. Oltre che essere fondamentale per la comprensione della vita in tutte le sue manifestazioni, la genetica è stata sempre ritenuta una risorsa importante anche nella ricerca medica. Basti pensare che Renato Dulbecco, già nel 1986, vedeva nel progetto di sequenziare il genoma umano un “punto di svolta” per la ricerca contro il cancro. I dibattiti attuali sono pieni di discorsi che hanno a che fare con i geni, dagli OGM (organismi geneticamente modificati) alle terapie geniche, per non parlare dei discorsi sui … virus, al centro dell’attenzione negli ultimi anni …
Ebbene, l’origine di questi sviluppi si deve trovare nell’Abbazia Agostiniana di San Tommaso di Brünn (oggi a Brno in Repubblica Ceca), dove il frate naturalista Gregor J. Mendel (Hynčice, 20 luglio 1822 – Brno, 6 gennaio 1884) svolse i suoi esperimenti sull’ibridazione delle piante di piselli (Pisum sativum). Egli ibridò migliaia di piante per otto anni consecutivi, osservando poi accuratamente il passaggio di alcune caratteristiche dei semi di queste piante di generazione in generazione. Si tratta dei famosi piselli gialli e rugosi o verdi e lisci di cui abbiamo probabilmente tutti sentito parlare sui banchi di scuola. I risultati degli studi di Mendel furono poi resi pubblici l’8 febbraio del 1865 in una conferenza intitolata “Esperimenti sull’ibridazione delle piante” che tenne presso la Società di Storia Naturale di Brünn, che lo stesso Mendel aveva contribuito a fondare quattro anni prima.
In alto le linee pure, dominante e recessiva, e gli ibridi dominanti ottenuti dal loro incrocio. In basso la distribuzione di fenotipi e genotipi della terza generazione.
Con il suo paziente lavoro sperimentale, Mendel riuscì a produrre delle cosiddette “linee pure” – vale a dire delle linee di piante in cui alcuni caratteri rimanevano costanti per molte generazioni (cioè per diverse annate consecutive). Così il frate naturalista aveva a disposizione, ad esempio, linee pure di piante di pisello dal seme giallo e linee pure di piante di pisello dal seme verde. Quindi, Mendel incrociò piante dal seme giallo con piante dal seme verde. Le piante generate da questo incrocio mostravano tutte semi del colore giallo. Questo permise a Mendel di formulare la sua prima legge, la legge della dominanza dei caratteri. Secondo questa legge, incroci ottenuti da linee pure per un carattere mostreranno soltanto il carattere dominante. Nel nostro esempio, il carattere giallo del seme sarà quello dominante, mentre quello verde, che non si mostra nella prima generazione di incroci, sarà quello recessivo. Questi termini furono introdotti dallo stesso Mendel. A questo punto, proseguendo il suo paziente lavoro di ricerca, Mendel incrociò tra loro le piante ottenute dall’incrocio delle due linee pure e notò che, in questa successiva generazione il carattere recessivo, scomparso nella prima generazione ottenuta dall’incrocio delle linee pure, ricompariva. Più esattamente, Mendel noto che il carattere recessivo ricompariva con una precisa proporzione: “3:1” – vale a dire, di tutte le piante ottenute dall’incrocio di piante a loro volte ottenute dall’incrocio di linee pure, un quarto tornava a mostrare il carattere recessivo e tre quarti continuavano a mostrare il carattere dominante. Altri risultati, che sarebbe complicato illustrare dettagliatamente qui, suggeriranno anche a Mendel che in questa terza generazione, al di là dei caratteri esibiti dalle piante secondo la proporzione 3:1, i determinanti (“anlage”, nella terminologia originale di Mendel) si distribuivano secondo questa proporzione: “1GG:2Gv:1vv” – vale a dire, una quarto delle piante aveva entrambi i determinanti per il carattere dominante (G, giallo), la metà aveva un determinante dominante (G) e un determinante recessivo (v, verde) e quindi mostrava il carattere dominante ma conteneva anche quello recessivo, e un quarto aveva entrambi i determinati recessivi (v) e quindi mostrava il carattere recessivo. Mendel giunse a questo risultato analizzando generazioni ancora successive di incroci e studiando le proporzioni con cui i caratteri si mostravano (fenotipicamente). Questo risultato portò Mendel alla sua seconda legge, la legge della segregazione dei caratteri, secondo la quale i determinanti presenti nella generazione parentale si separano discretamente nel produrre i gameti, e si ricombinano poi proprio secondo la proporzione 1:2:1. Vale anche la pena di menzionare la terza legge di Mendel, la legge dell’assortimento indipendente: durante la formazione dei gameti, i determinanti per un certo carattere (ad esempio, il colore giallo o verde) si distribuiscono indipendentemente dai determinanti per un altro carattere (per esempio, la superficie liscia o rugosa del seme).
Ora, questi risultati portarono Mendel a ritenere che i determinanti fossero degli elementi materiali presenti nei gameti delle piante e che venissero trasmessi in quanto unità materiali discrete: “Questo sviluppo segue una legge costante, basata sulla composizione materiale e sulla distribuzione degli elementi che si incontrano nella cellula in un’unione vitale” – come si legge nelle osservazioni conclusive del resoconto letto da Mendel nel febbraio del 1865 davanti alla Società di Storia Naturale di Brünn. In fondo, questa è la radice della distinzione tra fenotipo (i caratteri mostrati dall’organismo) e genotipo (i caratteri codificati nei geni, siano essi alleli dominanti – che quindi si manifestano fenotipicamente – o alleli recessivi – che quindi possono essere portati dai gameti pur quando non si manifestano).
Questi elementi – i “determinanti” – diventeranno poi, nei primi anni del ‘900 i “geni” – e, in sostanza, proprio per questa ragione, Mendel è oggi considerato il padre della genetica. Sua, infatti, fu l’intuizione che i "determinanti" dei caratteri venissero trasmessi di generazione in generazione tramite particelle materiali discrete, le quali, proprio in quanto tali, potevano essere trasmesse attraverso le generazioni anche quando i loro effetti (i caratteri ad essi associati) non si esibivano in una particolare generazione. Il lavoro di Mendel – forse a motivo della sua novità o della veste matematica che gli fu data – non ebbe particolari conseguenze nel mondo scientifico per oltre un trentennio. Fu solo nell’anno 1900 che al resoconto mendeliano del 1865 fu riconosciuto il primato nella formulazione delle leggi della genetica ad opera del botanico di Tübingen Carl Correns nel contesto di una discussione con un altro importante botanico olandese, Hugo de Vries. Nel 1901 il resoconto di Mendel fu tradotto in inglese da William Bateson, esimio genetista britannico che sei anni dopo, nel 1906, usò per primo il termine “genetica”, proprio in una conferenza sull’ibridazione delle piante.
La ricerca di Mendel colpisce sia per il rigore delle sue indagini sperimentali, sia per l’applicazione di metodi matematici all’analisi dei risultati ottenuti nel corso degli anni su migliaia e migliaia di esemplari. Insomma, un’applicazione, in ambito biologico, delle “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni” di galileiana memoria.
Colpisce forse ancor di più per la perspicacia nelle conclusioni a cui arriva. Un grande filosofo appena successivo a Mendel, Charles S. Peirce (1839-1914) mise l’accento sull’abduzione come processo al contempo inferenziale e intuitivo grazie al quale si formano ipotesi esplicative, e tramite il quale soltanto l’ingegno umano è in grado di introdurre una qualche idea nuova. Secondo Peirce, inoltre, è tramite l’abduzione che si può inferire l’esistenza di un fatto completamente differente da alcunché di osservato. In sostanza, si tratta dello slancio creativo forse più importante che uno scienziato può mettere in atto: la formulazione di entità teoriche. Bene, Mendel fece esattamente questo: concluse l’esistenza dei suoi “determinanti” come spiegazione per il comportamento manifesto dei caratteri delle piante di piselli nel corso delle generazioni senza poter avere alcuna evidenza diretta di tali elementi materiali presenti nei gameti. Soltanto con gli sviluppi della biologia molecolare a metà del XX secolo si ebbe evidenza dell’effettiva esistenza di questi elementi materiali, poi “cristallizzati” nella nozione di “gene” come porzione codificante di un filamento di DNA all’interno di un cromosoma.
Un’altra considerazione merita di essere esplicitata. Quale fu la domanda di ricerca che animò i pazienti studi di Mendel? In sostanza, questa domanda era di indole evoluzionista – o quantomeno, considerava la sfida che gli sviluppi della biologia ottocentesca aveva già offerto, dapprima con l’opera di Lamarck e poi con quella di Darwin. L’interesse che aveva indotto Mendel a intraprendere il suo programma di ricerca sperimentale era se le specie sono stabili o si trasformano col tempo. I suoi risultati mostravano come la variabilità biologica non fosse sregolata e capricciosa ma fosse accompagnata da una sostanziale tendenza alla stabilità delle specie – elemento centrale poi colto, negli sviluppi successivi, con la nozione di “ereditarietà”. Questa domanda, probabilmente, gli fu suscitata dai suoi professori all’Università di Vienna (dove studiò a partire dal 1851), alcuni dei quali avevano già abbracciato una concezione evolutiva della vita, mentre altri la osteggiavano – questa tensione fu certamente di grande stimolo per il giovane Mendel.
Il lettore, a questo punto, potrebbe domandarsi quali furono i rapporti tra Mendel e Darwin, che pubblicò l’Origine delle specie poco dopo che Mendel iniziò i suoi esperimenti presso il Monastero di Brünn. Non vi fu, a quanto è dato sapere, alcun contatto o scambio diretto fra i due. Probabilmente, Darwin non ebbe mai modo di conoscere i lavori di Mendel. Mendel, al contrario, ebbe le versioni tedesche di due opere di Darwin (L’origine delle specie e La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico), le lesse e le appuntò. Il tema delle influenze darwiniane sui lavori di Mendel e ancor più quello delle posizioni di Mendel circa la teoria evolutiva darwiniana esulano dal presente contesto. Probabilmente, la lettura dei lavori di Darwin da parte di Mendel fu successiva all’inizio delle sue sperimentazioni sui piselli, ma quasi certamente fu precedente al 1865 – così da poter ritenere (in realtà, si potrebbe quasi mostrare a giudicare dal lavoro di D.J. Fairbanks “Mendel and Darwin: untangling a persistent dilemma”, Heredity 124/2020: 263-273) che pur se quelle letture non hanno motivato la ricerca di Mendel, hanno probabilmente influenzato l’interpretazione dei risultati sperimentali.
Certo è che “l’intreccio” della teoria di Darwin sulla selezione naturale e gli studi di Mendel all’origine della genetica sono le due colonne portanti di quella imponente costruzione teorica elaborata nei decenni centrali del XX secolo, nota come “sintesi neodarwiniana”, che ha dischiuso scenari immensi nella nostra comprensione del fenomeno della vita e della sua evoluzione.
Non è privo di fascino pensare che le radici di uno degli sviluppi più importanti e ricchi di conseguenze a tutti i livelli (scientifici, tecnologici, medici, antropologici, etici e interdisciplinari) affondino in un monastero agostiniano. Eppure, questa non è soltanto una curiosa coincidenza. L’ingresso di Mendel nel monastero di Brünn è parte essenziale del suo lavoro di ricerca. In primo luogo, la vita religiosa diede a Mendel la possibilità pratica di “coltivare” i suoi interessi naturalistici – oltre che migliaia di piante di piselli. In secondo luogo, il monastero di Brünn – e in particolare l’abate che accolse Mendel in monastero, Cyrill Napp (1792 1867) – incoraggiava la ricerca scientifica considerando lo studio come la forma più alta di orazione. Sembra addirittura che il monastero di Brünn, proprio a motivo dell’importanza attribuita alla studio della natura e delle scienze fu indagato per “secolarismo” proprio ai tempi di Napp e Mendel. Sia come sia, il debito nei confronti di Mendel è certamente verso il suo genio, la sua perspicacia e la sua perseveranza, ma anche verso il suo essere un frate agostiniano del monastero di Brünn.