Tu sei qui

Udienza Generale: Ridare le ali alla scienza

Papa Paolo VI
10 ottobre 1973

 

Oggi, Figli carissimi, noi vi parliamo con fatica; noi non possiamo, aprendo questo pacifico e familiare incontro, liberare il nostro animo dall’incubo delle notizie della guerra in atto nel Medio Oriente. Ancora la guerra! Sentiamo nel cuore la delusione d’una grande speranza, che di guerra, di vera guerra non si sarebbe più parlato; sentiamo lo sgomento e la compassione per quanti sono tragicamente impegnati nel conflitto e specialmente per coloro che ne sono le vittime; vogliamo ancora credere che esistano altre vie che non quelle della violenza, delle rovine e del sangue per dare alla giustizia i suoi diritti e alla pace la sua efficacia.

   

Non possiamo pertanto tralasciare, anche in un momento così estraneo e sereno come quello presente, d’esortarvi tutti a invocare con noi Iddio misericordioso affinché siano tosto sospese le operazioni micidiali della guerra, sia ristabilita, con l’aiuto d’una fraterna mediazione internazionale, la tregua delle armi, e sia aperto un nuovo dialogo per dare ordine e pace a Popoli ed a Luoghi, che non possono non essere cari e sacri per il mondo intero.

 

Noi siamo convinti che il mondo moderno ha bisogno d’imparare di nuovo a pregare. Cioè ad esprimere se stesso davanti a Dio: due misteri che s’incontrano: la coscienza dell’uomo e l’Essere infinito e ineffabile, Principio e Fine d’ogni cosa. Che questo sia il nostro consueto dialogo, quando preghiamo, è da tutti saputo, anche se spesso così malamente avvertito; la preghiera è l’attività caratteristica dell’uomo religioso, del credente, di colui che cerca e sente la sua comunione col Dio dell’universo, e che ha trovato in Cristo la via di espressione e di comunicazione tra il microbo, che siamo noi, e quel cielo sconfinato, ch’è la patria di Dio. Faremo bene a riprendere la riflessione sopra questa attività, che ha tanta parte nella nostra personalità cristiana, e a valerci del grande sforzo della riforma liturgica, promossa dal Concilio, per convalidare in noi le ragioni della preghiera e per adattare il nostro linguaggio spirituale alle forme rituali, teologiche, comunitarie, offerte oggi a noi dalla Chiesa.

   

Ma in questo momento la nostra prospettiva è diversa; avremo da ritornare non una, ma molte volte sulla preghiera del cristiano vivente della sua fede; ma noi ora pensiamo, come dicevamo, all’uomo moderno, cioè alla mentalità di colui che esce dalla esperienza della vita contemporanea, e che si ritiene autosufficiente, dispensato dal ricorso a Dio, alla sua Provvidenza, alla sua Presenza sopra e dentro di noi, alla sua Giustizia, fonte per noi di timore e di responsabilità, alla sua Paternità, che appena a considerarla c’invita a scioglierci in amore ed in gioia. Dispensato cioè dal rapporto religioso, e solo con se stesso e con la società e la natura, che lo circondano. L’idea di Dio è praticamente spenta in coloro che attingono la propria educazione dal secolarismo contemporaneo, sintesi di tutte le opinioni negatrici della Realtà trascendente e della Verità, in date forme, vivente e immanente dentro di noi. L’uomo-tipo, come dovrebbe essere, ed è il discepolo dell’ateismo, possiamo dire ufficiale, del nostro tempo, afferma di non aver bisogno di Dio; basta la scienza, con tutte le sue conquiste pratiche; la scienza, capace di conoscere e di spiegare ogni cosa, e di soddisfare ogni suo bisogno speculativo, pratico, sociale ed economico.

 

In un discorso, assai semplice e breve come questo, non possiamo certamente risolvere i problemi immensi derivanti da questa deificazione della scienza; diremo soltanto che noi pure, anzi vorremmo dire noi per primi, tributiamo alla scienza l’onore che le è dovuto, la promozione, apologia, di cui ancora possa eventualmente mancare. Viva la scienza, viva lo studio, che la cerca e la esalta. Ma pare a noi di poter affermare che da sola essa non basta; anzi diciamo che essa pure reclama quel rapporto superiore, al quale abbiamo ora dato il nome di preghiera.

 

Potremmo ricorrere all’esperienza della più giovane generazione, quella odierna: basta la scienza? con tutta la sua incalcolabile dovizia di applicazioni tecniche. La scienza, nel suo momento puro, di analisi, di ricerca, d’esperimento, di scoperta, non fa che allargare il campo della conoscenza; d’una conoscenza, che non spiega la sua profonda ragion d’essere, e che solleva, sempre più grave e più incombente, il volto del mistero, l’interrogativo implacabile del perché primo ed assoluto di ciò che conosciamo, e che si fa tormento accecante a chi preclude al pensiero il suo logico processo, il volo verso il Principio creatore, verso la Sapienza rivelata e nascosta, quasi come in un sacramento, nelle cose studiate. Bisogna a questo punto osservare un fatto capitale a riguardo del pensiero scientifico moderno: esso non è, praticamente, servito alla contemplazione, cioè alla scoperta, successiva a quella del suo studio specifico, delle note irradianti dalle cose conosciute, cioè l’ordine, la complessità, la legge, la grandezza, la potenza, la bellezza . . . . tutti riflessi messi in evidenza dall’osservazione scientifica, riflessi d’un Pensiero generante, sconfinato e immanente; ma una sollecitudine ha subito prevalso, quella di utilizzare a fini pratici, cioè ad applicazioni tecniche, le verità strappate alle cose. L’utilitarismo ha così dominato la scienza, e l’ha resa opaca e per alcuni versi pericolosa; senza voce allo spirito umano, se non quella, legittima ma insufficiente, del calcolo circa il suo impiego a profitto della vita temporale dell’uomo, il quale ha usufruito e goduto di tutti i ritrovati scientifici, resi disponibili da genialissimi strumenti tecnici, ma senza che la sua vera felicità aumentasse e la sete misteriosa di vita del suo cuore si placasse. Bisogna ridare alla scienza le sue ali; essa deve ancora sostenere l’itinerario spirituale dell’uomo; deve invitarlo alla poesia e alla pienezza della preghiera. «I cieli narrano la gloria di Dio, e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani» (Ps. 18, 2).

 

Questo nell’ordine naturale. Un’altra esperienza ben diversa ci conduce ad analoga conclusione; ed è quella del carattere ambiguo del progresso umano: l’uomo diventa davvero più buono e più civile procedendo nella storia con le sole sue forze? è davvero capace d’instaurare un umanesimo nel quale i valori supremi della persona umana sono per tutti garantiti e permanenti? o non avviene che la progressiva affermazione di tali valori, se lasciati senza una divina tutela, possono in certe circostanze storiche contraddire se stessi? la libertà, la giustizia, la pace resistono alla prova del tempo e al conflitto di contrastanti interessi? il diritto potrà sostituire la forza, e l’organizzazione della civiltà tradursi davvero in un bene comune? Circola, e proprio in questi giorni trepidi e dolorosi, vento di scetticismo circa la capacità degli uomini ad essere e conservarsi fratelli. L’autosufficienza dell’uomo a costruire una civiltà autentica e universale viene in triste contestazione. I principii non sono solidi e validi per tutti; e allora il regno della forza riappare necessario, e necessaria la guerra. E se anche alcuni principii fossero e rimanessero indiscutibili, possiamo dire che l’uomo, in generale almeno, ha la virtù di applicarli con disinteresse e sapienza? Non occorre, anche qui, il supplemento d’un aiuto superiore, d’una grazia divina? e quindi d’un’implorazione che ci vede, umili e grandi, raccolti in preghiera?

   

Noi così crediamo, e auspichiamo che l’umanità, tutta insieme, divenga capace di ripetere con Cristo la preghiera da lui insegnata: Padre nostro, che stai nei cieli! Dio voglia! con la nostra Benedizione Apostolica.