La scienza

Quest'opera rappresenta l'eredità culturale e spirituale lasciata ai figli da Pavel Florenskij che presentiva la sua tragica fine. Scritti nel periodo più fecondo della maturità questi ricordi costituiscono un materiale di particolare rilievo perché rappresentano le origini delle intuizioni fondamentali alla base delle opere future. I ricordi autobiografici si trasformano in un'avventurosa scoperta dei misteri dell'esistenza e in un vivace affresco di relazioni affettive. In questo brano, il primo di una lunga serie, l'autore si sofferma a parlare della scienza, in particolare, del suo primo accostarsi alla materia e di come, in questa, abbia saputo scorgere il mistero

   

I. Più o meno quando frequentavo la sesta classe del ginnasio, o forse un po' prima, il mio rapporto scientifico col mondo era completamente formato, se non canonizzato. Ma, lo ripeto, sotto di esso tenevo per me, quasi inesprimibile a parole, la fiaba che sgorgava dal paradiso infantile nascosto nel profondo del mio cuore. Quella fiaba indorava le vette dell'esperienza scientifica e faceva battere il cuore alla vista di alcuni fenomeni della natura o anche solo al loro pensiero. Quella fiaba guidava i miei pensieri e i miei interessi e, in sostanza, era l'oggetto autentico dei miei turbamenti. Verbalmente, però, io non ne avevo conoscenza, o meglio non ne volevo avere. Alla domanda riguardo a ciò cui tendessi avrei risposto: «A conoscere le leggi della natura», e in effetti tutte le mie forze, la mia attenzione e il mio tempo erano consacrati al sapere esatto. La fisica, in parte la geologia e l'astronomia, e anche la matematica, erano ciò a cui mi dedicavo con una protervia e una passione che si rafforzavano vicendevolmente. Tuttavia una tale risposta, per quanto sincera, sarebbe stata falsa, sebbene fossi il primo a non rendermene conto. In effetti non erano le leggi della natura a interessarmi, bensì le loro eccezioni. Le leggi erano solo lo sfondo che accentuava le eccezioni. Io volevo conoscere i ferrei statuti della materia. Tenevo a mente tutte le costanti e le analogie che le scienze naturali mi offrivano quali leggi. E nutrivo anche una certa fiducia nei loro confronti, cioè credevo che fossero effettivamente immutabili. Altrimenti non vi avrei trovato alcun interesse. Comunque non le rigettavo in modo superficiale: sin dall'infanzia alla base della mia forma mentis c'era la fiducia nella testimonianza altrui e la mancata inclinazione a sospettare gli altri di errori e menzogne. E quanta più ferrea mi pareva la tale o la tal altra legge, con tanto maggiore e rispettoso timore la affrontavo, con il segreto sentimento che quella legge apparentemente razionale altra non fosse che la rivelazione di altre forze. Di quella sensazione non era conscio nemmeno in prima persona, ma era ciò che mi spingeva alla lotta interiore. Con trepidazione cercavo i casi nei quali la legge in questione risultava inapplicabile e, quando saltavano fuori eccezioni che non le si sottomettevano, il mio cuore per poco non si fermava per l'eccitazione: era entrato in contatto con il mistero. Difficile formulare con esattezza il mio gusto per le eccezioni. Non aveva nulla in comune con il desiderio di confutare la legge in quanta tale, di sostituirla con un'altra, nuova, ampliata; non aveva nulla a che fare con la conoscenza razionale della natura. Al contrario, era appagato dalle leggi esistenti e mi premuravo di confermarle; le infiltrazioni logiche e metodologiche nei concetti e nei presupposti scientifici mi parevano più che altro cavilli, argute sottigliezze del pensiero che nulla apportavano alla scienza. Concetti, presupposti e leggi: razionalmente erano loro a essere fondati; ciò non di meno la natura ribaltava qualunque legge, per quanta affidabile essa fosse: quello era l'irrazionale.

La legge è l'autentico recinto della natura; ma anche il muro più spesso ha crepe sottilissime attraverso le quali si infiltra il mistero. Io ero interessato a che quel recinto razionale venisse consolidato, ma solo perché era convinto che quanto si sarebbe insinuato attraverso di esso sarebbe stato sicuramente irrazionale. Per ciò facevo di tutto per conoscere quelle leggi. Nella loro totalità erano loro a rappresentare la mia comprensione scientifica del mondo. Il mistero lo tenevo dentro di me, mentre per me e per gli altri si enunciavano le leggi.

   

Pavel Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori, Milano 2003, pp. 242-243.