Il fine del filosofare

«Libere in questo senso sono le scienze particolari solo se vengono coltivate con spirito filosofico, perché così partecipano alla libertà della filosofia». Riconducendosi alla originaria presenza universitaria della Arti liberali come attività non orientate all'utile e al produrre, ma alla riflessioone e al giudizio delle idee, Pieper spiega in questo brano il significato del termine "filosofare" e pone nel fondamento della disciplina filosofica i concetti di libertà e di teoresi.

La filosofia non è sapere di funzionario, ma, come ha detto John Henry Newman [Cfr. The idea of a University, Discourse V, 5], sapere di gentleman, non sapere «utile», ma sapere «libero». Questa libertà significa che il sapere filosofico riceve la sua legittimità, non dal suo uso e dalle sue possibilità d'impiego, non dalla sua funzione sociale, o dalla sua convertibilità in «utilità comune». Esattamente in questo senso è stata intesa la «libertà delle artes liberales, delle arti libere, in contrapposizione alle artes serviles, le arti subordinate al servizio, che, come dice Tommaso «sono ordinate al raggiungimento dell’utilità mediante l'attività» [Cfr. Commento alla Metafisica, I, 3]. Ma già da allora la filosofia è stata considerata come la più libera delle arti libere (la «Facoltà di Arti», così nominata nel Medioevo a motivo delle artes liberales, è oggi identica alla facoltà di filosofia).

Perciò è lo stesso se io dico che l'atto filosofico oltrepassa il mondo del lavoro, o se io dico che il sapere filosofico è inutile, o ancora se dico che la filosofia è un’«arte libera». Questa libertà può anche essere partecipata dalle scienze particolari, ma solo nella misura in cui vengano coltivate con spirito filosofico. Su ciò si fonda storicamente e concretamente il significato autentico della libertà accademica (perché «accademico» significa «filosofico» oppure non significa nulla); si può avanzare pretese alla libertà accademica, solo se il momento accademico è realizzato nel senso di «filosofico». E così è veramente dal punto di vista storico-fattuale: la libertà accademica viene perduta nella misura in cui va perso il carattere filosofico dello studio accademico, o, per meglio esprimerci, nella misura in cui la totale pretesa del mondo del lavoro toglie spazio all'università. In ciò affondano le radici metafisiche della perdita di libertà: la cosiddetta «politicizzazione» ne è solo conseguenza e sintomo. Certamente torna opportuno a questo punto sottolineare che questa è anche frutto della filosofia, e proprio della filosofia moderna. E bisogna spendere sull'argomento qualche parola. E innanzitutto sul tema «libertà» della filosofia, in contrapposizione alle scienze particolari; libertà che è da intendersi come assenza di soggezione a scopi. «Libere» in questo senso sono come si è detto le scienze particolari solo se vengono coltivate con spirito filosofico, perché così partecipano alla libertà della filosofia. «Il sapere è libero in un significato particolare», afferma Newman «se e fino a quando è sapere filosofico [Cfr. The idea of a University, Discourse V, 3]. Considerate in se stesse le scienze particolari sono essenzialmente subordinate a scopi», esse sono dirette «al conseguimento di fini utili mediante l'attività» (come Tommaso dice delle arti servili [Cfr. Commento alla Metafisica, I, 3]).

Esprimiamoci ancor più concretamente! Una direzione politica di stato può ben dire: noi ora impieghiamo, per portare a compimento un piano quinquennale, fisici che sono stati di vantaggio a certi paesi stranieri; oppure: impieghiamo medici che mettano a punto un più efficace rimedio farmaceutico contro l'influenza.

Si può certamente parlare così e così disporre senza andare contro l’essenza di queste scienze particolari. Ma se si dice: «Noi impieghiamo ora filosofi che…», non c’è altra conseguenza che questa: «per difendere, sviluppare, fondare questa ideologia».

Parlare così significa distruggere la filosofia! Sarebbe proprio come se si dicesse: «Noi impieghiamo poeti che...», cosa? Sarebbe proprio come se si dicesse: «che usino la parola come arma da battaglia per determinati ideali richiesti dai fini dello stato...». E di nuovo parlare in questo modo significa distruggere la poesia. Nello stesso istante la poesia cesserebbe di essere poesia e la filosofia di essere filosofia.

Non è che non ci sia alcun rapporto fra l'attuazione del bene comune e la filosofia in un popolo; c'è, ma questa relazione non può essere costituita e regolata dall'amministratore del bene comune; ciò che ha il suo senso e il suo fine in se stesso, ciò che è fine a se stesso, non può essere fatto scopo per un altro fine, così come non si può amare una persona «affinché» e «per...»!

Questa non-disponibilità, questa libertà del filosofare è ora e mi pare di altissima e attuale importanza segnalarlo, molto intimamente connessa, direi identica al carattere teoretico del filosofare. Filosofare è la forma più pura del «theorèin», dello speculari, del puro riguardare accogliente rivolto alla realtà, in cui le cose si impongono e l’anima è ricettiva. Dovunque qualcosa viene considerata dal nostro sguardo in maniera filosofica, là noi interroghiamo in modo «puramente teoretico», in un modo che è imperturbato da ogni movente pratico, da ogni alterazione del volere, e pertanto elevato al di sopra di ogni attitudine a servire a scopi.

Ma la realizzazione della theoria in questo senso è nuovamente condizionata da un presupposto. Si deve presupporre un determinato comportamento nel mondo, un comportamento che sembra sfuggire ad ogni presa di posizione, ad agni fondazione cosciente. Infatti nel suo senso più autentico «teoretica» (cioè puramente riguardante e ricettivo, senza la minima traccia di voler modificare le cose, ma al contrario nella volontà costante di voler rendere dipendente il sì e il no del volere della realtà vera che viene ad esprimersi nella conoscenza essenziale), «teoretico» in questo senso forte e genuino, viene ad essere l’umano riguardare, solo quando l’ente, il mondo è per esso qualcosa di diverso e di più del solo ambito, del materiale grezzo per l’attività umana. In senso genuino può guardare teoreticamente alla realtà solo colui per il quale il mondo è creazione di uno spirito assoluto, qualcosa di veramente venerabile. Solo questo è il terreno su cui si espande la «teoresi pura» che appartiene all'essenza della filosofia. Ed è questa un legame ultimativo e profondissimo grazie al quale la libertà del filosofare, e perciò il filosofare stesso diviene possibile! Non c'è pertanto da meravigliarsi che la caduta di un tale legame di questo vincolo (in forza del quale il mondo è visto come creazione e non come mero materiale), abbia generato la perdita del genuino carattere teoretico, e con esso la libertà e l’indipendenza della filosofia. A ciò del resto conduce direttamente una via da F. Bacone, che ha affermato: sapere e potere sono una cosa sola, e: il significato di ogni sapere è di servire al benessere umano con nuove invenzioni e scoperte [Cfr. Novum Organum, I,3; I, 81] a Descartes, che ancor più polemicamente nel «Discorso sul metodo» afferma essere sua intenzione sostituire all’antica filosofia «teoretica» una filosofia «pratica», con la quale possiamo «renderci signori e padroni della natura» [Cfr. Discours de la Méthode, 6], e infine alla ben nota formulazione di Karl Marx, che fino ad ora la filosofia ha considerato come suo compito interpretare il mondo, mentre adesso quel che importa è modificarlo.

È questa la strada su cui procede storicamente l’autodistruzione della filosofia, attraverso la distruzione del carattere teoretico, distruzione che ha alla base a sua volta una visione del mondo considerato sempre di più come mero materiale per l’attività umana. Se il mondo non appare più come una creazione, non c’è più posto per una genuina theoria. Con la theoria cade anche la libertà di filosofare, e al suo posto subentra l’irregimentazione, il meramente «pratico», la subordinazione a una legittimazione in quanto funzione sociale; subentra il carattere di «lavoro» della filosofia, della ormai solo più cosiddetta filosofia. Al contrario, la nostra tesi, che può soltanto ricevere una più decisa accentuazione, suona così: appartiene all’essenza dell’atto del filosofare il poter oltrepassare il mondo del lavoro. Questa tesi in cui la libertà e il carattere teoretico del filosofare appaiono come costituenti esclusive e necessarie della filosofia, questa tesi non nega affatto il mondo del lavoro (essa al contrario lo presuppone espressamente come necessario), ma essa dice piuttosto: la vera filosofia poggia sulla fede che l’autentica e propria ricchezza dell’uomo non consiste nell’appagamento dei bisogni, e nemmeno nel «divenire padroni e signori della natura», ma che noi siamo capaci di vedere che cosa è la totalità di ciò che è. Questa è, come dice la filosofia antica, l’estrema perfezione alla quale noi possiamo pervenire: che nella nostra anima si imprima l’ordine della totalità delle cose che sono [Cfr. Tommaso d'Aquino, Quaestiones disputatae de veritate, 2,2 ], un pensiero che la tradizione cristiana ha ripreso nel concetto della visio beatifica: «Che cosa non vedono coloro che vedono colui che tutto vede?». [Cfr. Gregorio Magno, cit. da Tommaso d'Aquino, Quaestiones disputatae, de veritate, 2, 2]

 

Josef Pieper, Che cosa significa filosofare, a cura di Franco Bosio, Edizioni scolastiche Patron, Bologna 1971, pp. 45-50