Il saggio del fisico-chimico ed epistemologo ungherese Michael Polanyi offre una concisa e attraente panoramica storica sul rapporto fra fede e ragione, a partire dalle prime riflessioni già sorte nel mondo greco. Da queste premesse egli approfondisce il dibattito, commentando il significato dei conflitti occorsi in epoca moderna ad opera del razionalismo, per giungere poi alla proposta di una visione del rapporto fede-ragione improntata sul modello di una epistemologia personalista, modello secondo il quale, in accordo con la sua nota visione, il metodo della ricerca scientifica presuppone una conoscenza personale.
La malattia mi ha dato la possibilità di approfondire il tema sul quale mi è stato richiesto di scrivere un intervento. Durante la mia degenza in ospedale ho avuto tra le mani — per gentilezza dell'autore — un libro che mi ha rivelato, credo, una nuova e forse migliore idea riguardo alla situazione che oggi affrontiamo in conseguenza della rivoluzione scientifica. L'autore è Josef Pieper, professore di antropologia filosofica all'Università di Münster, ed il suo libro, che mi ha tanto colpito si intitola Scholasticism [Scholastik. Gestalten und Problemen der mittelalterlichen Philosophie, Kösel, München 1960].
Grazie a questo libro ho potuto apprendere che il conflitto tra fede e ragione, evocato oggi dalle scienze naturali, non è altro che una variazione moderna di un problema che, sin dalla nascita del pensiero filosofico avvenuta 2500 anni fa, ha occupato i pensieri degli uomini in forme diverse.
Noterete che datando la nascita della filosofia al secolo a.C., ho localizzato questo evento in Grecia più precisamente, nella Ionia e nelle isole greche. So che questo assunto potrebbe essere contestato, ma non argomenterò a suo favore. Sarà sufficiente notare che in base alla mia teoria, l'apprensione che abbiamo in Europa in merito alla relazione tra fede e ragione è il lascito di una particolare famiglia intellettuale. La scienza moderna ha recentemente diffuso a livello planetario questa preoccupazione, benché essa non sia mai stata presente nel pensiero cinese o in quello induista. Essa si è originata in quella parte dell'umanità culturalmente localizzata in Europa, destandone la preoccupazione per due millenni e mezzo.
1. Razionalismo greco, medievale e moderno
Ma anche accettando questa delimitazione, la semplificazione che ho proposto potrebbe sembrare eccessiva. Alle nostre spalle abbiamo tre periodi consecutivi di razionalismo: quello greco, quello medievale e quello moderno. Il razionalismo greco è sorto da un substrato di pensiero mitico che potremmo definire brevemente come un'interpretazione prevalente di tutte le cose come fossero persone. I miti ed i rituali hanno espresso la maggioranza dei pensieri umani nei termini Io-Tu, e non hanno lasciato nulla di importante da dire nei termini Io-Esso. Il pensiero speculativo greco è stato volto a liberare le menti da questa struttura personale, circoscrivendo una vasta area di pensiero oggettivo ed estendendo le relazioni Io-Esso fino a formulare una nuova interpretazione filosofica delle cose. Nel razionalismo greco la ragione è stata adoperata per erodere e sostituire le credenze tradizionali, sostenute acriticamente o tacitamente considerate valide.
Il messaggio cristiano è esploso in questo contesto come un affronto al razionalismo. Esso ha restaurato la relazione Io-Tu ponendola nuovamente al centro di ogni cosa. Ha proclamato che un uomo, condannato a morte pochi anni prima in una remota provincia del mondo, era il Figlio del Dio Onnipotente che governa l'universo e che tramite la Sua morte sono stati rimessi i peccati all'umanità. Il dovere del cristiano era, dunque, quello di credere a questo evento e di accettare tutte le sue implicazioni. La fede, la fede che deride la ragione, la fede che sprezzantemente si dichiara follia agli occhi del razionalismo greco, è ciò a cui san Paolo esorta nei suoi discorsi.
Il quadro è familiare. Ma potreste domandare dove si possano ritrovare le tracce del nuovo razionalismo cristiano, quello medievale, volto a riconciliare fede e ragione. Esso è emerso più tardi, allorché il messaggio cristiano si è diffuso tra l'intelligentsia di formazione culturale e filosofica greca. È stato elaborato da sant'Agostino in termini che sono rimasti canonici negli anni seguenti. La ragione è stata dichiarata ancella della fede: essa accompagna la fede fino al punto in cui si innesta la Rivelazione, punto oltre il quale la fede apre nuove vie alla ragione. Ciò che il professor Pieper mi ha mostrato per la prima volta è che l'intero movimento della filosofia scolastica, da Boezio a Ockham, non è altro che una variazione su questo tema.
Ockham ha condotto la scolastica alla sua fine, dichiarando che la fede e la ragione sono incompatibili e che dovrebbero essere tenute strettamente separate. In tal modo egli ha aperto la porta al razionalismo moderno che, basandosi proprio su tale divisione, ha aggiunto che solo la ragione può dar luogo ad una vera conoscenza. Inoltre, con John Locke, la fede è stata considerata non più come un potere superiore che rivela una conoscenza che si trova oltre il campo dell'osservazione e della ragione, ma come una mera accettazione personale non passibile di dimostrabilità. Le posizioni reciproche dei due livelli agostiniani sono state così invertite. In un certo senso questo ha ricondotto al razionalismo greco, come auspicato da molti suoi sostenitori. Essi speravano che la nuova visione secolare del mondo potesse pacificare il conflitto religioso e riportare i benefici di un'antica e spassionata indifferenza religiosa. Ad ogni modo, il razionalismo post-cristiano ha imboccato presto strade mai percorse prima dall'uomo, e oggi ci troviamo alla malinconica fine di questo viaggio.
2. Verso una restaurazione dell'armonia perduta tra fede e scienza
Ma il mio proposito non è denunciare il razionalismo moderno. Le arti, gli splendori intellettuali e gli obiettivi morali dei trecento anni passati non hanno rivali nella storia dell'umanità. Gli stessi fallimenti e disastri che ci circondano testimoniano questa grandezza. Solo un'impresa gigantesca avrebbe potuto precipitarci nelle assurdità che la visione del mondo scientifica oggi diffonde, appassionando milioni di uomini con un nuovo ed acre fanatismo scettico.
Darò per scontati questo quadro e questa mancanza, e volgerò il mio sforzo a tracciare una nuova linea di pensiero lungo la quale, credo, sia possibile recuperare una parte del terreno che abbiamo frettolosamente abbandonato lungo la marcia della scienza moderna. Penso infatti che questa linea di pensiero, se perseguita sistematicamente, potrebbe forse ripristinare l'equilibrio tra credenza e ragione, seguendo percorsi fondamentalmente simili a quelli tracciati da sant'Agostino all'alba del razionalismo cristiano.
Proverò a mostrare che cosa intendo dire parlando di persona e poi espanderò il quadro per mezzo di un'analisi della natura della scoperta. La scienza moderna e la sua filosofia non possono analizzare la persona senza ridurla a una macchina. Questo deriva dall'assumere che tutti i processi mentali debbano essere spiegati in termini di neurologia, che a sua volta deve essere rappresentata con diagrammi riguardanti processi fisici e chimici. Il danno operato dalla visione scientifica moderna è in effetti molto più esteso: essa tende a sostituire ovunque il personale Io-Tu con l'impersonale Io-Esso.
Ogni tentativo di ripristinare una visione più sana e autentica della persona umana deve attingere alle stesse radici della concezione della conoscenza, ed io partirò da questo, fornendo un esempio che illustra alcune caratteristiche essenziali della conoscenza, trascurate dalla concezione moderna della conoscenza scientifica positiva.
3. Le due forme di conoscenza
Pochi anni fa un distinto psichiatra ha mostrato ai suoi studenti un paziente affetto da un lieve spasmo. In seguito la classe ha discusso se lo spasmo fosse un attacco epilettico o isterico. La risposta è stata infine decretata dallo psichiatra: «Signori — egli ha detto —, avete visto uno spasmo epilettico. Non posso dirvi come riconoscerlo: lo imparerete facendo esperienza». Lo psichiatra sapeva come riconoscere l'attacco, ma non era affatto certo di come lo riconoscesse. In altre parole, egli ha riconosciuto l'attacco prestando attenzione alla sua complessa presentazione, e ha fatto ciò basandosi su una moltitudine di indizi che non poteva specificare in maniera chiara. Sicché la sua conoscenza del malore differiva completamente dalla conoscenza che egli aveva di questi indizi o sintomi. Egli ha riconosciuto l'attacco prestando attenzione a esso: non ha prestato attenzione ai sintomi in se stessi, ma solo in quanto indizi. Potremmo dire che egli abbia riconosciuto gli indizi solo in quanto si è basato su di essi per prestare attenzione alla fisiognomica patologica alla quale contribuivano. Mentre è sempre possibile identificare una cosa cui si presti attenzione — infatti è la stessa attenzione che la identifica —, non sempre è possibile identificare i particolari sui quali si basa l'attenzione rivolta ad essa. È per questo che alle volte non è possibile specificare tali indizi.
Questo fatto può essere ampiamente generalizzato. Esistono diversi domini di conoscenza — dei quali parlerò tra poco — che esemplificano in vari modi il fatto che non siamo capaci di specificare di quali particolari siamo consapevoli mentre prestiamo attenzione al tutto che essi costituiscono. Dunque, possiamo affermare che ci sono due tipi di conoscenza, sempre presenti in ogni atto di conoscenza volto a entità complesse. Vi è (1) un sapere ottenuto prestando attenzione a qualcosa, che si realizza quando volgiamo la nostra attenzione all'entità in questione, e (2) un sapere ottenuto sulla base della consapevolezza che abbiamo di certe cose, che si realizza quando ci basiamo sulla nostra consapevolezza dei molti particolari di un ente nell'atto di prestare attenzione ad esso.
Possiamo andare oltre. Evidentemente ogni tentativo di identificare i particolari di un'entità implica uno slittamento di attenzione dall'entità ai particolari. Dobbiamo rilassare l'attenzione che prestiamo al tutto per scoprirne i particolari — dei quali siamo anzitutto consapevoli solo in quanto parti del tutto. Sicché, una volta identificati, ed una volta che su di essi sia effettivamente volta la nostra attenzione, non potremo più basarci sulla nostra consapevolezza di essi in quanto particolari di un tutto, e quindi inevitabilmente perderemo la vista del tutto.
Questo fatto è stato abbondantemente confermato da mezzo secolo di psicologia della Gestalt. Possiamo metterla così: è impossibile essere consapevoli di un particolare in quanto parte di un tutto, e contemporaneamente focalizzare l'attenzione sul particolare in se stesso. O ancora, dal momento che non è possibile essere contemporaneamente consapevoli di qualcosa in modo sussidiario ed in modo focale, necessariamente tendiamo a perdere di vista un'entità nel suo complesso se prestiamo attenzione focalmente ai suoi particolari. Ma possiamo aggiungere che questa perdita non è detto che sia definitiva. Possiamo analizzare in sequenza i sintomi, di una malattia e concentrare l'attenzione sui suoi diversi particolari, per poi tornare al suo aspetto generale, di venendo ancora una volta sussidiariamente consapevoli di questi particolari quali parti del quadro complessivo della malattia. Difatti, l'oscillazione tra dettagli e integrazione è la strada maestra per approfondire la nostra conoscenza di una qualsiasi entità complessa.
4. Conoscere e comprendere
Nel dire ciò ho utilizzato una parola chiave. Ho parlato di comprensione. Comprendere-intendere: questa facoltà cognitiva è messa da parte dalla teoria positivista della conoscenza che riduce l'esistenza di entità complesse al complesso dei loro particolari. A questa facoltà a mio parere compete un atto di conoscenza fondamentale. Infatti la comprensione non può mai essere assente da nessun processo conoscitivo poiché essa fondamentalmente sancisce ogni atto del genere. Ciò che non si può comprendere non può essere conosciuto.
Per timore che questa analisi possa apparire troppo astratta, esaminerò in maniera concisa alcune forme di conoscenza alle quali essa si applica in modo sorprendente. Fin qui ho usato come esempio principale il processo della diagnostica medica. Un processo molto simile è quello dell'identificazione della specie alla quale una data pianta, o un dato animale, appartengono. Un esperto che può identificare fino a 800.000 specie di insetti deve basarsi su un vasto numero di indizi che non può identificare in se stessi. Ecco perché la zoologia e la botanica non possono essere apprese dalle pagine stampate, non più di quanto lo si possa fare con la medicina. Ed ecco perché sono necessarie tante ore di insegnamento pratico e laboratoriale anche in molte altre branche delle scienze naturali. Ovunque ciò avvenga viene trasmessa una conoscenza dell'aspetto complessivo delle cose, una conoscenza che dobbiamo acquisire tramite la consapevolezza di una moltitudine di indizi che non possono essere esaustivamente identificati.
Dobbiamo apprendere a identificare la fisionomia di cose complesse sulla base di indizi che non possiamo identificare distintamente, ossia ciascuno in sé. Ma difficilmente si possono effettuare diagnosi simili senza esaminare l'oggetto in questione, e la stessa sperimentazione deve essere appresa assieme alla fisionomia degli oggetti sperimentati. Dobbiamo imparare ad essere assieme abili esaminatori ed esperti conoscitori. In effetti, questi sono due processi di comprensione differenti ma inseparabili. La conoscenza esperta si basa su una comprensione degli indizi, mentre l'abile esame si basa sulla combinazione di abilità atte a seguire le tracce di tali indizi.
5. Abilità e strumenti
Ciò rivela in senso generale la struttura delle abilità. Un'azione fisica è detta abile precisamente perché non possiamo identificare gli atti muscolari che la compongono. L'abilità dell'artigiano consiste nel controllare congiuntamente questi atti avendo in vista il compimento complessivo. Questo vale anche per la maestria performativa dello sportivo e del musicista. Né l'uno né l'altro possono dire molto, anzi di fatto saprebbero dire molto poco, riguardo le diverse abilità muscolari che combinano per realizzare la loro arte.
Le abilità, in genere, richiedono strumenti — mezzi di un qualche tipo —, che sono evidentemente simili particolari di un'entità complessa. Infatti sono strumenti o mezzi in virtù del fatto che ci basiamo su di loro pe realizzare ciò che ci occupa. In questo caso possiamo certamente identificare ciò su cui ci basiamo, sebbene non sappiamo precisamente come effettivamente lo adoperiamo. Ad ogni modo, resta sorprendentemente vero che non possiamo dirigere la nostra attenzione allo strumento su cui ci basiamo mentre lo utilizziamo per una azione che richiede abilità. Gli occhi devono restare sulla palla, poiché se ci si distrae guardando la racchetta inevitabilmente il colpo verrà fallito. Ogni azione che richiede abilità viene paralizzata se ci si concentra focalmente sui suoi strumenti.
Lo stesso riguardo al linguaggio. Ascoltare i suoni delle parole, dimenticandone il contesto ed il significato — l'entità complessa che esse veicolano —, significa diventare istantaneamente ottusi. Questo riporta all'intera moltitudine di suoni, simboli e gesti attraverso i quali si realizzano le comunicazioni e l'intelligenza umane. superando di gran lunga quelle degli animali. È un'altra area cruciale del fare e conoscere abile, nella quale incontriamo entità complesse di cui possiamo occuparci solo basandoci sussidiariamente sui nostri atti — atti ai quali non prestiamo attenzione e che non ne devono essere oggetto in se stessi.
6. Percezione
Possiamo infine aggiungere che, in profondità, nelle forme più primitive di conoscenza, ossia quelle della percezione sensoriale, incontriamo il paradigma della struttura che ho postulato ad ogni livello e per ogni tipo di conoscenza. È la percezione sensoriale, ed in particolare il modo in cui noi vediamo le cose, che ha fornito agli psicologi della Gestalt il materiale per le loro scoperte fondamentali, che qui sto espandendo in una nuova teoria della conoscenza. Essi hanno mostrato che la nostra visione è un atto di comprensione sottilmente basato su indizi desunti da tutto il campo della visione e dall'interno del nostro corpo, forniti dai muscoli che controllano il movimento degli occhi e la postura del corpo. Tutti questi indizi lavorano solo se concentriamo la nostra attenzione sugli oggetti che percepiamo. Molti di questi indizi non possono essere conosciuti affatto, altri possono essere rintracciati solo da un'accurata analisi scientifica; ma tutti servono allo scopo di manifestare la cosa che si trova dinanzi a noi solo se non proviamo a osservarli o a prestare in qualche modo attenzione a essi stessi. Se vogliamo vedere qualcosa, allora essi devono essere trascurati, lasciati a svolgere il ruolo di particolari non specificabili dello spettacolo percepito dai nostri occhi.
Ciò conclude la lista. Abbiamo prospettato l'arte della diagnosi e della sperimentazione degli oggetti da diagnosticare, come essa si insegna nelle università abbiamo prospettato la pratica generale delle abilità e l'uso abile degli strumenti in particolare, che porta ad adoperare le parole e gli altri segni tramite i quali si sviluppa l'intelligenza umana; ed infine abbiamo prospettato l'atto della percezione, la manifestazione più primitiva dell'intelligenza animale ed umana. In ciascuno di questi casi abbiamo riconosciuto gli elementi tipici della comprensione. Voglio ora mostrare come questo panorama conoscitivo suggerisca una nuova concezione della conoscenza che comprende ugualmente il modello, Io-Esso e quello Io-Tu e che stabilisce contemporaneamente una nuova armonia tra fede e ragione.
7. Conoscenza e comprensione
Evidentemente il nuovo elemento che ho introdotto nella concezione della conoscenza è rappresentato da quel genere di conoscenza dei particolari che è conseguibile attendendo a qualcos'altro che li ricomprende. Ora, abbiamo un'ovvia esperienza di alcune cose che conosciamo quasi esclusivamente solo basandoci su di esse. Il nostro corpo è una collezione di cose del genere: difficilmente osserviamo il nostro corpo quando osserviamo un oggetto esterno eppure ci basiamo continuamente su di esso in quanto strumento per osservare gli oggetti esterni e per manipolarli in base ai nostri propositi. Quindi possiamo considerare il conoscere qualcosa attendendo a qualcos'altro come il tipo di conoscenza che abbiamo del nostro corpo, vivendo in esso. Questo genere di conoscenza non è un esempio della relazione Io-Esso, ma è piuttosto un modo di esistere, una maniera di essere. Potremmo chiamarlo relazione Io-Me stesso o Io-Me.
Siamo nati ovviamente per vivere nel nostro corpo e la nostra esistenza sì basa su esso, ma occorre un processo di apprendimento per utilizzarlo in maniera più abile. Per esempio, la facoltà di vedere cose tramite la nostra vista non è innata: essa deve essere acquisita per mezzo di un processo di apprendimento.
Possiamo dire, dunque, che quando conosciamo qualcosa — un indizio, un particolare, o un tutto, uno strumento, una parola o un elemento che contribuisce alla percezione — imparando a fidarci di esso, facciamo ciò nello stesso modo in cui impariamo a fidarci del nostro corpo per esercitare un controllo intellettuale o pratico sugli oggetti che ci circondano. Così qualsiasi estensione dell'area coperta dalla nostra fiducia — estensione tramite la quale arricchiamo la nostra conoscenza sussidiaria delle cose — estende il tipo di conoscenza che di solito abbiamo del nostro corpo: in effetti si tratta di un'estensione della nostra esistenza corporea volta ad includere cose che si trovano fuori di essa. Acquisire una nuova conoscenza sussidiaria è allargare e modificare il nostro essere intellettuale assimilando le cose nelle quali impariamo ad aver fiducia. Alternativamente, possiamo descrivere il processo come un atto tramite il quale ci riversiamo in queste cose.
Questi modi di acquisizione di conoscenza possono sembrare strani, ma in realtà abbiamo a che fare con un tipo di conoscenza che, sebbene ci risulti sufficientemente familiare, sembra non sia mai stata tematizzata dagli studiosi o dai teorici della conoscenza. Evidentemente, tutti i processi di acquisizione della conoscenza riconosciuti fino ad ora, basati sull'esperienza o sulla deduzione, si applicano solo alle cose cui attendiamo e non anche alle cose su cui ci basiamo. Continuerò, quindi, nella mia spiegazione del modo in cui tale conoscenza è acquisita e compresa, per quanto di primo acchito possa suonare sorprendente.
8. La conoscenza tramite incorporazione
Quando ci fidiamo delle cose che conosciamo attendendo a qualcos'altro, si potrebbe dire che le assimiliamo al nostro corpo. In questo senso, la conoscenza sussidiaria è ottenuta per incorporazione [indwelling]. Sicché noi comprendiamo i particolari di un tutto nei termini del tutto in virtù del trovarci [dwelling] in essi; cogliamo il significato complessivo dei particolari incorporandoli.
Tutti gli esempi precedenti di comprensione illustrano queste conclusioni. Diagnosticare una malattia è cogliere il significato complessivo dei suoi sintomi. Molti di essi non sono specificabili, ma li conosciamo basandoci su di essi come sintomi. Questo "incorporare i particolari [indwelling]" è più evidente quando si riferisce a un'abile sperimentazione di un oggetto o ad ogni altro atto di esperta manipolazione: qui letteralmente ci basiamo sugli innumerevoli atti muscolari che contribuiscono alla realizzazione del nostro fine, e tale fine costituisce il loro significato complessivo. Ma tutto ciò è evidente soprattutto nel nostro uso del linguaggio. L'intelligenza umana che supera quella animale vive solo grazie al cogliere il significato e padroneggiare l'uso del linguaggio. La vita della mente non si riduce a quella del nostro corpo naturale: la persona viene alla luce solo quando le nostre labbra formano parole e i nostri occhi leggono caratteri alfabetici. La differenza intellettuale tra un pigmeo nudo dell'Africa centrale e un membro dell'Accademia di Francia è basata sul corredo culturale per il quale Parigi supera la giungla africana. La superiorità dell'accademico francese è basata e risiede nel suo uso intelligente di questo corredo superiore.
9. Prevedere l'ignoto
Questo ci porta sulla soglia stessa della nostra comprensione del modo in cui conosciamo una persona. Ma consideriamo prima, brevemente, il modo in cui è ottenuta la comprensione, così come esso è illustrato nei suddetti esempi. Molto spesso comprendiamo le cose in un lampo. Ma è molto istruttivo pensare al modo in cui, dalla confusa incomprensione di uno stato di cose, procediamo con fatica fino al suo reale significato. Il successo di tali sforzi dimostra la capacità dell'uomo di conoscere la presenza di una realtà nascosta accessibile alla sua conoscenza. La previsione di una realtà sconosciuta è ciò che realmente motiva e guida la scoperta, in ogni campo del cimento intellettuale. Le forme esplicite di ragionamento, sia esso deduttivo o induttivo, sono in se stesse importanti. Ma esse possono operare solo in quanto strumenti intellettuali di un potere creativo consistente nella capacità umana di anticipare il significato nascosto delle cose.
La fiducia nella coerenza nascosta di uno stato di cose confuso è guidata da un ausilio esterno — come quando a uno studente viene insegnato come identificare una malattia o una specifica fattispecie biologica. Quando lo psichiatra, nell'esempio che ho menzionato, ha detto ai suoi studenti che solo con la pratica avrebbero appreso a riconoscere l'aspetto caratteristico di un attacco epilettico, egli intendeva dire che essi avrebbero imparato a fare ciò accettando la sua diagnosi di tali casi e provando a comprendere su cosa egli si fosse basato. Tutto l'insegnamento pratico, l'insegnamento della comprensione in tutti i sensi del termine è basato to sull'autorità. Lo studente deve aver fiducia nel fatto che il suo maestro comprenda ciò che sta cercando di insegnare e nel fatto che egli, a sua volta, possa comprendere con successo il significato delle cose che il maestro spiega.
Platone ha argomentato che il compito di risolvere un problema è logicamente assurdo e quindi impossibile. Infatti, se già conosciamo la soluzione, non ha senso ricercarla, mentre, se non la sappiamo, non possiamo fare nulla per trovarla in quanto non sapremmo cosa cercare. Il compito di risolvere un problema è in effetti autocontraddittorio, a meno che ammettiamo di poter possedere veri indizi di ciò che ignoriamo. L'argomento di Platone prova dunque che ogni avanzamento nella conoscenza è mosso e guidato dal nostro potere fondamentale di cogliere la presenza di una nascosta entità complessa, che sottostà ai presagi ancora incomprensibili che notiamo orientando l'attenzione verso l'entità. La nostra fiducia in questi poteri può emergere dal profondo della nostra mente indagatrice, oppure può essere guidata dalla nostra fiducia nel giudizio dei maestri. Ciononostante, si tratta sempre dello stesso potere dinamico, e le sue dinamiche sono simili alle dinamiche della fede. Tillich ha scritto che «ciò che si comprende con un atto di fede non può essere compreso da altro se non da un atto di fede. E lo stesso vale qui. Non c'è altro modo di avvicinarsi a un significato nascosto se non quello di affidarci ai presagi della presenza ancora invisibile. Questi presagi sono la sola via per estendere la nostra sovranità intellettuale sull'ambiente che ci circonda.
10. Una concezione dinamica della conoscenza
Tillich ha affermato che la sua concezione dinamica della fede «è il risultato di un'analisi concettuale dell'aspetto oggettivo e soggettivo della fede». Questo è esattamente quello che affermo in merito alla mia concezione dinamica della conoscenza. Essa deriva, in ultima istanza, dalla comprensione dei due tipi di conoscenza che si combinano nell'intendimento di un'entità complessa, allorché ci affidiamo alla consapevolezza dei particolari per comprendere tale entità. La nostra consapevolezza dei particolari costituisce l'elemento personale della conoscenza, mentre la nostra conoscenza dell'entità ne costituisce l'elemento oggettivo.
La forza dinamica tramite la quale si realizza la comprensione è solo ridotta, e mai perduta, se conserviamo la conoscenza acquisita per suo impulso. Essa resiste in quanto risiede nella conoscenza e in quanto sviluppa i nostri pensieri entro la propria struttura. La conoscenza viva è una sorgente perpetua di nuove ipotesi, una miniera inesauribile di implicazioni ancora nascoste. La morte di Max von Laue avvenuta poco tempo fa dovrebbe ricordarci che la sua scoperta della diffrazione dei raggi X attraverso i cristalli è stata universalmente acclamata come una grandiosa conferma della speculazione di Boyle in merito alla struttura dei cristalli, che a sua volta è stata uno sviluppo di idee la cui origine è rintracciabile nelle opere di Lucrezio ed Epicuro. E la teoria di Dalton è stata a sua volta meravigliosamente confermata dagli esperimenti di J.J. Thompson ben ottanta anni dopo. Conservare la conoscenza significa impegnarsi verso implicazioni indeterminate: infatti la conoscenza umana non è che un presagio della realtà: non potremo mai dire quale realtà si manifesterà in futuro. Essa è esterna a noi, è oggettiva e, per questo criterio, le sue manifestazioni future sfuggono completamente al nostro controllo intellettuale.
Sicché, tutta la nostra vera conoscenza è un rischio, proprio come tutta la vera fede è un salto nell'ignoto. La conoscenza include la sua incertezza come parte integrante, proprio come, secondo Tillich, tutta la fede necessariamente include il proprio dubbio.
La tradizionale divisione tra fede e ragione, o tra fede e scienza (divisione che Tillich riafferma), riflette la tesi in base alla quale la ragione e la scienza procedono tramite le regole esplicite della deduzione logica e della generalizzazione induttiva. Ma sostengo che queste operazioni sono in se stesse impotenti, e potrei anche aggiungere che, in se stesse, non possono essere rigorosamente definite. Sapere è comprendere e i processi logici espliciti sono effettivi solo in quanto strumenti di un impegno dinamico tramite il quale estendiamo la nostra conoscenza e la sosteniamo. Una volta che ciò è compreso, il contrasto tra fede e ragione si dissolve e al suo posto emerge una stretta somiglianza di strutture.
Certamente la conversione religiosa impegna la nostra intera persona e cambia il nostro intero essere in un modo che l'espansione della conoscenza naturale non fa. Ma allorché la dinamica della conoscenza è riconosciuta come il principio conoscitivo dominante, la differenza appare solo come una differenza di grado. Infatti — come abbiamo visto — ogni estensione della comprensione coinvolge l'espansione di noi stessi collocandoci in un nuovo ambito, assimilandone la struttura, e facendoci avere in esso la stessa fiducia che nutriamo per il nostro corpo. L'intera vita intellettuale dell'uomo vien all'esistenza proprio in questa maniera, tramite l'assorbimento del linguaggio e dell'eredità culturale in cui essa si sviluppa. La meravigliosa attività della mente dei bambini è animata da un autentico fuoco di fiducia che percepisce e che coglie i significati nascosti del linguaggio e degli altri comportamenti degli adulti. La struttura dinamica dei progressi intellettuali dei bambini fa da controparte ai più alti livelli dell'impresa creativa, ed entrambe queste strutture assomigliano strettamente a quella dell'autotrasformazione implicata in una conversione religiosa.
11. Dall'osservazione oggettiva alla conoscenza personale
Ma una più profonda divisione tra ragione e fede può essere ritrovata nell'impulso verso l'oggettività che tende a rompere l'asse Io-Tu, proprio della visione del mondo religiosa, e a stabilire ovunque, al suo posto le relazioni Io-Esso. La visione del mondo positivista non ha forse esercitato la sua influenza sulle analisi puramente secolari della mente umana così come delle vicende umane passate o presenti, in favore di una concezione meccanica dell'uomo che lo rappresenta o come un fascio di appetiti, o come un giocattolo meccanico, o come un prodotto passivo delle circostanze sociali?
Lo ha fatto, ma questo è dovuto secondo me all'ossessiva limitazione della conoscenza ai risultati delle inferenze esplicite. Le persone possono essere colte solo come entità complesse, basandoci sulla nostra consapevolezza di innumerevoli particolari molti dei quali non specificabili esplicitamente. Questo è lo stesso processo tramite il quale diagnostichiamo una malattia sfuggente, o leggiamo una pagina stampata. Proprio come assimiliamo i sintomi della malattia prestando attenzione focale alla malattia in se stessa, e proprio come assimiliamo il testo stampato prestando attenzione al suo significato, allo stesso modo assimiliamo le manifestazioni della mente di un altro uomo prestando attenzione precisamente alla sua mente come un tutto. In questo senso possiamo dire di conoscere la sua mente immedesimandoci nelle sue manifestazioni. Questa è la struttura dell'empatia (che preferirei chiamare convivialità): solo tramite essa si può accedere alla conoscenza delle altre menti e di qualunque altro essere vivente.
Il comportamentismo ha provato a sostituire la conoscenza conviviale con le osservazioni Io-Esso dei particolari tramite cui la mente di un individuo si manifesta, e ha cercato di correlare questi particolari in un processo di inferenza esplicita. Ma dal momento che la maggior parte dei particolari in questione non possono essere affatto osservati in se stessi, la relazione non può essere esplicitamente stabilita e l'impresa finisce col sostituire il suo oggetto originale con un grottesco simulacro, facendo svanire la stessa mente. Il genere di conoscenza che rivendico qui, e che chiamo conoscenza personale, si proietta oltre queste assurdità dell'attuale approccio scientifico e riconcilia il processo della conoscenza con l'atto di rivolgersi a un'altra persona. In questo modo si stabilisce una continua ascesa dalla nostra conoscenza meno personale, quella riguardante la materia inanimata, alla nostra conoscenza conviviale riguardante gli esseri viventi, e, di là da questi, le persone. Credo che ciò costituisca la vera transizione dalle scienze agli studi umanistici; e anche dalla nostra conoscenza delle leggi di natura alla nostra conoscenza della persona divina.
12. La concezione scientifica dell'uomo e la concezione cristiana dell'uomo
Ma la persona che possiamo conoscere in questa maniera non aleggia forse in maniera vaga al di sopra della sua sostanza corporea, fuori dalla quale non potrebbe affatto esistere? La risposta a questa domanda rivelerà una sorprendente affinità tra la mia concezione della persona ed una delle dottrine centrali del Cristianesimo.
Ho detto che la mente di una persona è un'entità complessa che non è riducibile ai suoi costituenti particolari: ma ciò non equivale a dire che essa può esistere separatamente da, o senza tali particolari. Il significato di una pagina stampata non può essere specificato da un'analisi chimica del suo inchiostro e del foglio, ma, d'altra parte, tale significato non può essere trasmesso senza l'uso d'inchiostro e di fogli. Sebbene le leggi della fisica e della chimica si applichino alle particelle del corpo, esse non determinano le manifestazioni della mente: la loro funzione è di offrire alla mente l'opportunità, senza dubbio limitata e precaria, di vivere e di manifestarsi. I nostri organi di senso, il nostro cervello, l'intera e infinita complessità del nostro organismo, offrono alla mente gli strumenti per l'esercizio della sua intelligenza e del suo giudizio e, contemporaneamente, restringono il dominio di tale impresa, deviandola tramite illusioni, ostacolandola con la malattia e terminandola con la morte.
La conoscenza di enti complessi è pertanto costituita da una serie di livelli ascendenti di esistenza, e la relazione che ho appena delineato si realizza ovunque tra vari livelli di questa gerarchia. L'esistenza di un principio superiore è sempre radicata nei livelli inferiori governati da princìpi meno complessi. Entro questi livelli più bassi, ed in virtù di essi, il principio più elevato opera liberamente ma non incondizionatamente, in quanto il suo campo è ristretto e ogni sua azione è compromessa dai princìpi inferiori sui quali si deve basare per esercitare i propri poteri. Dal momento che i crescenti livelli di esistenza sono stati determinati da successive fasi evolutive, ciascun nuovo livello ottiene poteri più alti ma inevitabilmente legati a nuove possibilità di corruzione. La nostra origine primeva e inanimata era imperitura, non essendo soggetta né a fallimento né a sofferenza. Da essa sono emersi livelli di esistenza biotica soggetti a malformazioni e malattie, e poi, a livelli più alti, a illusione, errore, affezione nevrotica — per infine produrre nell'uomo, in aggiunta a tutte queste tendenze. una radicata propensione a fare il male. Questa è la condizione necessaria di un essere moralmente responsabile, innestato in un'animalità solo tramite la quale può esercitare i propri poteri.
Questo è lo stato inevitabile dell'uomo, che la teologia ha chiamato «natura umana decaduta». La nostra visione della redenzione è il rovescio di questa condizione. È la visione di un uomo liberato da questa schiavitù. Quest'uomo è il Dio incarnato: Egli ha sofferto ed è morto come un uomo e tramite questo stesso atto si è dimostrato divinamente libero dal male. Questo è un evento — che lo si consideri storico o mitico — che ha frantumato la struttura del razionalismo greco e ha innalzato, una volta per sempre, la speranza e gli obblighi dell'uomo ben al di là dell'orizzonte della filosofia greca.
13. La conoscenza naturale e sovrannaturale
Ho menzionato la divinità e la possibilità di conoscere Dio. Questi temi vanno oltre i miei obbiettivi. Ma la mia concezione della conoscenza apre la strada a essi. La conoscenza, in quanto forza dinamica di comprensione, scopre ad ogni passo un nuovo significato nascosto. Rivela un universo di entità complesse che rappresentano il significato dei loro particolari, in sé largamente non specificatili. Un universo visto come una gerarchia ascendente di significati ed eccellenze è molto differente da un universo inteso come una casuale distribuzione di atomi, visione quest'ultima cui dà adito un esame dell'universo attraverso i modi espliciti dell'inferenza. Necessariamente, la visione di tale gerarchia si estende fino a intravedere il significato dell'universo in quanto tale. La conoscenza naturale si estende continuamente nella conoscenza sovrannaturale. Lo stesso atto della scoperta scientifica offre un paradigma di questa transizione. Essa è l'appassionata ricerca di un significato nascosto, guidata da un intenso presentimento personale di tale realtà nascosta. Gli intrinseci rischi di tale impresa appartengono alla sua essenza: la scoperta è un avanzamento di conoscenza che non può essere raggiunto da nessuna applicazione di modi espliciti di inferenza, per quanto diligenti possano essere. Ciononostante lo scopritore deve lavorare giorno e notte. Sebbene nessun lavoro possa portare, in se stesso, a una scoperta, nessuna scoperta può esser fatta senza un intenso, assorbente lavoro pieno di dedizione. Qui abbiamo un'esemplificazione paradigmatica della concezione paolina: fede, opere e grazia. Lo scopritore opera avendo fede che il lavoro preparerà la sua mente a ricevere una verità da sorgenti che sfuggono al suo controllo. A mio parere la concezione paolina è la sola concezione adeguata della scoperta scientifica.
Questo è, per sommi capi, il mio programma per ripensare alla concezione della conoscenza e per restaurare in tal modo l'armonia tra fede e ragione. Pochi degli indizi che mi guidano sono stati disponibili agli esponenti della scolastica. I modi di ragionamento in cui confidavano erano inadeguati: la loro conoscenza della natura era povera e spesso spuria. Inoltre la fede di cui volevano provare la razionalità è stata modellata in formule troppo rigide e dettagliate, prospettando problemi intrattabili, e qualche volta persino assurdi, per la ragione. Tuttavia, nonostante il fallimento della loro impresa, essa ha lasciato grandi monumenti dietro di sé. Credo che oggi siamo in una posizione infinitamente migliore per rinnovare il loro impegno di base. L'attuale bisogno non potrebbe essere più pressante: non dovremmo quindi risparmiare nessuno sforzo per procedere in questa impresa.
M. Polanyi, Fede e Ragione, a cura di Carlo Vinti, Morcelliana, Brescia 2012, 151-176, pubblicato per la prima volta in «The Journal of Religion» 41 (1961), pp. 237-247.