In questo saggio, pubblicato originariamente nel 1959, il chimico-fisico ed epistemologo ungherese Michael Polanyi risponde all’omonimo saggio di P.C. Snow lamentando che lo iato esistente fra materie scientifiche e umanistiche è, in ultima analisi, frutto della scarsa responsabilità intellettuale di chi rappresenta le singole discipline. In particolare, la scienza, al fine di una sua migliore affermazione e credibilità sociale, è chiamata a riconoscere l’incompletezza del razionalismo scientifico di fronte alle vere domande morali dell’uomo.
Sir Charles Snow si lamenta dello iato esistente fra la scienza ed il resto della nostra cultura. Sono d'accordo. Ma vedo il problema in una prospettiva differente. Non sono d'accordo sulla considerazione che l'influenza della scienza sul resto dei nostri pensieri sia troppo debole. Al contrario, le pretese avanzate oggi sulla mente umana in nome della scienza sono enormi. Freud e Marx — c'è poco della cultura moderna che non sia influenzato dagli insegnamenti di uno di loro o di ambedue, ed ambedue derivavano la loro autorità dal parlare in nome della scienza. Tuttavia questi insegnamenti non sono che due correnti di un più vasto flusso che discende dai romantici e dagli utilitaristi, a loro volta derivanti dai filosofi dell'illuminismo, che furono ispirati dalle scoperte di Newton.
In realtà il pensiero greco fu razionalista prima della nascita della scienza, ed un rivolo di questo razionalismo ha continuato a scorrere attraverso tutti i secoli successivi. Ma è stato l'impatto della scienza del XVII secolo che ha evocato il razionalismo moderno e lo ha dotato di poteri soverchianti. «Un giorno, scrive Paul Hazard, i francesi, quasi come un sol uomo, pensavano come Bossuet. Il giorno dopo, pensavano come Voltaire» [1].
Questa è un'esagerazione, ma il quadro è drammaticamente vero. Potremmo aggiungere che proprio come i tre secoli successivi alla vocazione degli apostoli bastarono a stabilire il cristianesimo come religione di stato dell'impero romano, così i tre secoli successivi alla fondazione della Royal Society bastarono alla scienza per stabilirla come la suprema autorità intellettuale dell'epoca postcristiana. «È contrario alla religione!» - tale obiezione regnava sovrana nel XVII secolo. «Non è scientifico!» è il suo equivalente nel XX secolo.
Se tuttavia concordo che vi sia uno iato, pericoloso, fra la scienza e il resto della nostra cultura, non sono lacune come l'ignoranza della termodinamica mostrata dai letterati, menzionata da Charles Snow, che ho in mente. Anche scienziati maturi conoscono poco più che i nomi della maggior parte delle branche della scienza. Ciò è inerente alla divisione del lavoro su cui è basato il progresso della scienza moderna, e che è altrettanto indispensabile al progresso di tutta la nostra cultura moderna. L'ampiezza della nostra eredità culturale supera diecimila volte la portata di qualsiasi cervello umano, e quindi dobbiamo avere diecimila specialisti per trasmetterla. Fare a meno della specializzazione della conoscenza sarebbe produrre una razza di vincitori di quiz e distruggere la nostra cultura in favore di un dilettantismo universale.
Il nostro compito non è sopprimere la specializzazione della conoscenza ma realizzare l'armonia e la verità nell'intero dominio della conoscenza.
Ciò è dove vedo il problema, dove un disturbo profondamente innestato fra la scienza e tutto il resto della cultura appare risiedere. Credo che questo disturbo fosse originariamente inerente all'impatto liberatore della scienza moderna sul pensiero medievale e che solo in seguito si sia rivelato patologico.
La scienza si ribellava all'autorità. Rigettava la deduzione a partire dalle cause prime a favore di generalizzazioni empiriche. Il suo ideale estremo era una teoria meccanicistica dell'universo, sebbene, nei riguardi dell'uomo, essa mirasse solo ad una spiegazione naturalistica delle sue responsabilità morali e sociali.
Reso libero da questi principi, il genio scientifico ha esteso il controllo intellettuale dell'uomo sulla natura ben oltre i precedenti orizzonti. E, secolarizzando le passioni morali dell'uomo, il razionalismo scientifico ha evocato un movimento di riforma che ha migliorato quasi ogni relazione umana, privata e pubblica. Gli ideali razionalistici del benessere e di cittadini educati e responsabili hanno creato una attiva solidarietà fra milioni di individui sommersi ed isolati. In breve, il razionalismo scientifico è stato la principale guida verso tutto il progresso intellettuale, morale e sociale di cui il XIX secolo andava orgoglioso — così come verso il grande progresso realizzato dopo di allora.
Sarebbe tuttavia facile mostrare che i principi del razionalismo scientifico sono strettamente parlando insensati. Nessuna mente umana può funzionare senza accettare autorità, costume e tradizione: deve basarsi su di essi anche solo per usare il linguaggio. L'induzione empirica, applicata in senso stretto, non può fornire alcuna conoscenza, e la spiegazione meccanicistica dell'universo è un ideale senza senso. Non a causa del molto invocato principio di indeterminazione, che è irrilevante, ma perché la predizione di tutte le posizioni atomiche nell'universo non darebbe risposta ad alcun quesito interessante per qualcuno. E quanto alla spiegazione naturalistica della morale, essa deve ignorare, e quindi, per implicazione, negare, l'esistenza stessa della responsabilità umana. Anche ciò è assurdo.
Il razionalismo scientifico servì l'uomo finché era in movimento verso la realizzazione dei suoi falsi ideali, essendo ancora a grande distanza da essa. Ma ciò non poteva durare. Alla fine il potenziale di verità dei suoi assurdi ideali era destinato ad esaurirsi e la sua cruda assurdità a rivelarsi.
Questo è ciò che è avvenuto nel XX secolo. L'oscurantismo scientifico ha pervaso la nostra cultura ed ora distorce perfino la scienza imponendo ad essa falsi ideali di esattezza. Ogni volta che parlano di organi e delle loro funzioni nell'organismo, i biologi sono assillati dal fantasma della «teleologia». Essi tentano di esorcizzare tale concezione affermando che alla fine tutti essi saranno ridotti alla fisica e alla chimica. Il fatto che tale suggerimento sia privo di senso non li preoccupa. I neurologi fanno lo stesso asserendo che tutti i processi mentali saranno spiegati anch'essi dalla fisica e dalla chimica. Si elimina la difficoltà di trattare la coscienza dichiarando:
«L'esistenza di qualcosa chiamato coscienza è un' ipotesi venerabile: non un dato, non è direttamente osservabile…» (Hebb). «Sebbene non possiamo fare a meno del concetto di coscienza, effettivamente non c'è una cosa simile» (Kubie). «Il soggetto conoscente come entità è un postulato non necessario» (Lashley) [2].
L'assurdità manifesta di una simile posizione è accettata da queste illustri persone come onere della loro vocazione scientifica. I neurologi, come tutti noi, conoscono la differenza fra coscienza e non coscienza; quando la negano, intendono che, poiché essa elude una spiegazione in termini scientifici, la sua esistenza mette in pericolo la scienza e deve essere negata nell'interesse della scienza. In effetti, qualsiasi neurologo che mettesse seriamente in discussione questo settarismo sarebbe considerato nocivo alla scienza.
L'ombra di queste assurdità si proietta in profondità sulla teoria corrente della evoluzione per selezione naturale. Il selezionista deve assumere, e difatto assume di solito, che la coscienza è utile poiché altrimenti sarebbe stata soppressa dalla selezione naturale; ma poiché tutti i processi corporei devono essere spiegati dalla fisica e dalla chimica, egli non può ammettere che la coscienza possa mettere in movimento un corpo vivente, il che significa che egli assume che essa sia strettamente inefficace [Quando sollecitai una riunione dell'American Association for the Advancement of Science (tenuta a New York nel natale del 1956) a riconoscere l'assurdità di considerare gli esseri umani come automi insensibili, l'illustre neurologo R. W. Gerard mi rispose appassionatamente: «Una cosa sappiamo, le idee non muovono i muscoli!». Non credevo alle mie orecchie].
Ho cercato nella letteratura una risposta a questa decisiva auto-contraddizione, ma invano. Gli scienziati non si diffondono su questa questione se essi vogliono essere presi sul serio come scienziati.
Esempi di tale doppio discorso e doppio pensiero potrebbero essere moltiplicati considerando l'intera estensione delle scienze biologiche. Ma io non penso che questa negazione della vera natura delle cose per amore degli standard scientifici abbia finora causato troppi danni alla scienza in sé; per lo più essa rimane sulla carta. In ogni caso, io sono in primo luogo interessato in questa nota all'effetto dei principi scientifici correnti sulla nostra cultura in senso lato, dove il misconoscimento della verità in favore di ideali scientifici consolidati ha arrecato confusione e portato alla fine a risultati inquietanti.
Questo processo si è sviluppato lungo diverse linee. Considerate, ancora una volta, Freud e Marx. I loro pensieri hanno trasformato l'eredità del XVIII secolo in modi paralleli. L'illuminismo credeva che la responsabilità morale dell'uomo fosse saldamente fondata nella natura. Rousseau confidava nell'uomo naturale non corrotto dalla società; stabilì i diritti intrinseci delle grandi passioni, della creatività spontanea e dell'individualità unica.
Una versione più sobria, più meccanicistica del naturalismo fu sviluppata da Helvetius e Bentham; essa riduceva l'uomo ad un fascio di appetiti che si autoalimentavano secondo una formula matematica.
Come la nobile selvaggità di Rousseau, la libido di Freud è frenata dalla società. Ma a questa non sono attribuiti tratti nobili; al contrario, la moralità è imposta alla libido dall'esterno, e questa repressione è di fatto condannata poiché procura malattia. Il bene e il male sono sostituiti dalla salute e dalla malattia.
Il movimento parallelo da Bentham a Marx è determinato dalla negazione di interessi comuni fra differenti classi sociali. La giustizia quindi non è più realizzata dal trionfo dell'utile sul pregiudizio, ma dal trionfo di una classe sull'altra; il bene è ciò che contribuisce alla vittoria del proletariato, ed il male è il contrario. Il naturalismo è così trasformato da un comando morale in una dottrina di scetticismo morale.
Tuttavia non è questo scetticismo in sé che è distintivo della mente moderna. Infatti lo scetticismo morale, ed il conseguente edonismo, libertinismo, machiavellismo, ecc., sono stati correnti prima d'ora, e sono operanti ora quasi quanto lo erano in passato. Il passo decisivo nella formazione della mente moderna ha luogo nel movimento successivo, quando lo scetticismo morale si combina con l'indignazione morale . È la fusione di questi due — logicamente incompatibili — atteggiamenti che produce il nichilismo moderno.
Per il rivoluzionario moderno tipico il grado di male che egli è preparato a commettere o a condonare in nome dell'umanità è la misura della sua forza morale. Egli mette in opera la sua moralità immanente con la sua immoralità manifesta . Ma una tale inversione morale non è mai assoluta; ad un certo punto gli uomini rifuggiranno dai richiami dell'inversione e cercheranno di ristabilire la verità e gli ideali umani nel loro diritto. Questo è quando sentiamo dire del dio che ha fallito.
Tuttavia coloro che rifuggono da una moralità invertita verso una retta sentiranno ancora che la loro inversione è stata segno di una più intensa passione per la giustizia sociale. Ed in un certo senso essi hanno ragione.
Le persone insensibili sono rimaste immuni all'inversione morale semplicemente perché avevano poco zelo sociale che cerca manifestazioni attive.
Nella nostra epoca è perciò impossibile parlare semplicemente degli uomini come nobili o ignobili. Quando Snow scrive che «la marmellata domani» spesso tira fuori la parte più nobile e morale dell'uomo, ci si deve chiedere quale moralità egli intende, l'«immanente» o la «manifesta». Azioni che sono gloriose in base ad uno di questi standard, sono estremamente repellenti in base all'altro.
Questo conflitto di standard ha diviso le masse umane, spaccato famiglie, e rovinato amicizie in tutto il mondo, come nessun conflitto prima d'ora.
«Se mai nella storia c'è stato un tempo, scrive Tillich, in cui obiettivi umani sostenuti da una quantità infinita di buona volontà hanno accumulato catastrofe su catastrofe sopra l'umanità, questo è stato il XX secolo» [3].
Ed un disastro ancora maggiore ci minaccia per la confusione continua degli standard morali. Infatti, a dispetto del progresso recente, non c'è ancora abbastanza terreno comune fra le grandi potenze rivoluzionarie, da un lato, e quelle tradizionali, dall'altro, per assicurare la sopravvivenza dell'uomo armato di bombe atomiche.
In verità, l'esaurimento del razionalismo scientifico che ha corrotto la vita pubblica del nostro secolo ha aperto ampie possibilità di scoperta nelle arti. La linea della narrativa moderna a partire da Dostoievsky ha intrapreso ad esplorare i limiti del nichilismo, alla ricerca di un residuo di autentica realtà morale. Mentre questa ricerca ha portato talvolta ad una disperazione insensata, il movimento ha, nel suo insieme, rafforzato il tono morale del nostro secolo e ha chiarito la base per ristabilire i fondamenti della morale.
Una ricerca parallela ha esplorato il caos creato dal rigetto di tutte le forme esistenti. Anche questo ha portato talvolta a vacuità (contro il dadaismo), ma il largo movimento è stato ricco di scoperte. Ha prodotto un mondo di armonie corrispondenti a sensibilità insospettate. Basti ricordare il magico dominio del surrealismo cui un'assurdità voluta di contenuto narrativo ha aperto la strada.
Questo movimento era in effetti il culmine di un movimento di emancipazione precedente, meno radicale. A partire dall'impressionismo degli anni '60, il secolo scorso ha conseguito il risultato di spingersi oltre una generale caduta nel realismo e nel sentimentalismo, verso il vigore di una nuova cultura primitiva. Tale ringiovanimento non è, credo, mai stato raggiunto prima senza l'intermezzo di una lunga epoca oscura.
Recentemente, ha avuto luogo un cambiamento profondo nella mentalità europea ed americana. A partire dal 1950 circa ha preso piede un declino generale dello zelo sociale. Nell'occidente questo cambiamento di atteggiamento ha ridotto le aspirazioni utopiche a progetti più concreti di miglioramento mentre nella Russia e negli stati satelliti esso ha causato un allontanamento dalle forme più mostruose di inversione morale. In Polonia la ribellione degli intellettuali comunisti andò molto oltre ciò, e nell'abortita rivoluzione ungherese esso si sarebbe realizzato completamente. In questi due paesi l'uomo moralmente invertito si rimise violentemente in piedi. Nessun movimento simile ha mai avuto luogo nella storia precedente.
Il movimento intellettuale corrispondente, condannato come «revisionismo» dal governo sovietico, ha la sua contropartita in occidente in una tendenza a reinterpretare gli autori che hanno stimolato l'esplorazione nichilista in senso puramente idealistico. Così, nel suo libro largamente letto, The Sane Society , Erich Fromm è indotto da una discussione di Freud e Marx a concludere che la persona mentalmente sana è la persona che vive con amore, ragione e fede, che rispetta la vita, la sua e quella dei suoi simili – una condizione che si dice produrre un socialismo umanistico comunitario [4].
Ma sebbene ancora senza una dottrina chiara, il revisionismo dell'occidente è forte come quello dell'impero sovietico e persegue linee parallele. Proprio come i ribelli comunisti si rivolsero al nazionalismo popolare, così fece anche il popolo francese andando verso De Gaulle; e dovunque, l'allontanamento da un razionalismo nichilistico fu sostenuto dalla religione – anche se i razionalisti umanitari del tipo del XVIII secolo sostenevano questo allontanamento nella loro maniera del tutto differente.
Questo è, credo, il contesto in cui la relazione della scienza con il resto della nostra cultura deve essere riconsiderato oggi. La scienza resta la sola autorità intellettuale non contestata, eppure essa può sanzionare le esigenze del nazionalismo, della religione o dell'etica naturale tanto poco quanto poteva prima. In effetti, i suoi criteri di obiettività devono negare realtà a qualsiasi esigenza morale. Nessuna analisi chimica o esame microscopico può provare che un uomo che arreca falsa testimonianza è immorale. Né la logica del razionalismo scientifico, che già una volta si è sviluppata fra di noi fino alle sue estreme sinistre conclusioni, può essere di nuovo sospesa dall'inerzia dell'abitudine. Non possiamo recuperare uno stato di innocenza precedente.
No, un revisionismo umanistico può essere assicurato solo rivedendo le pretese della scienza stessa. Il primo compito consiste nell'emancipare le scienze biologiche, inclusa la psicologia, dal flagello del fiscalismo; le assurdità ora imposte alle scienze della vita devono essere eliminate. Il compito è difficile, poiché mette in questione un ideale di obiettività impersonale del quale soltanto ci sentiamo sicuri di fidarci. Tuttavia questo ideale assurdo deve essere scartato. E se una volta ci riusciremo, troveremo che la scienza non minaccia più l'esistenza responsabile dell'uomo e che noi possiamo riavviare la grande opera dell'illuminismo senza il pericolo delle trappole che hanno irretito in modo così disastroso il suo progresso nel secolo presente.
[1] Paul Hazard, The European Mind, 1680-1715, trad. di J. L. May, Hollis & Carter, London 1963, (da: P. Hazard, La crise de la conscience européenne, 1680-1715, Boivin & C.ie, Paris 1935-1940, vol. I., p. I)
[2] Queste citazioni sono prese dalla recensione di Sir Russel Brain («Brain», 78 (1955), pp. 669-70) di Brain Mechanism and Consciousness: a symposium, a cura di J.F. Delafresnaye, Blackwell Scientific Publications, Oxford 1954. I punti di vista espressi dai tre famosi neurologi non sono criticati da Sir Russel in questa recensione.
[3] Paul Tillich, Il dilemma del nostro tempo, «The Cambridge Review», n. 4, settembre 1955.
[4] Erich Fromm, The Sane Society, Rinehart, New York e Clarke, Irwin e Co., Toronto 1955, p. 275.
Michael Polanyi, Conoscere e essere, Armando, Roma 1988, tr. it. di Arcangelo Rossi, pp. 71-78.