Amici scienziati, la religione non è irrazionale

Nel brano che presentiamo, John Polkinghorne ci mostra come nonostante le differenze, scienza e teologia perseguono la ricerca della verità e hanno vari elementi di parentela: entrambe si muovono all'interno di ciò che si potrebbe chiamare razionalità aperta. Infatti, scienza e religione riguardano entrambe l’incontro con la realtà, ma tale incontro avviene su piani differenti, che coinvolgono diversi livelli di esperienza. Le due visioni però si completano l’una con l’altra, piuttosto che essere in conflitto: combinandosi insieme forniscono una comprensione più estesa e profonda di quanto ciascuna, presa da sola, riuscirebbe a offrire. Polkinghorne smaschera alcuni luoghi comuni, frequenti nel dibattito fra scienze teologia, fra i quali, per esempio, l'idea che gli scienziati non abbiano mai certezze.

Due errori comuni

Si dice a volte che la scienza si occupa dei fatti e che la religione, invece, riguarda solamente le opinioni. Penso che alla base di un simile giudizio ci siano due spiacevoli errori. Il primo ruota intorno all’effettiva natura dell’indagine e della scoperta scientifica. Non ci sono “fatti” scientifici degni di interesse che non siano già stati sottoposti a interpretazione. Di conseguenza, nella nostra indagine scientifica della natura vi è una delicata circolarità, in quanto la teoria è chiamata a interpretare le osservazioni sperimentali e gli esperimenti sono chiamati a confermare o a falsificare le teorie. Il riconoscimento di questa circolarità introduce un certo grado di incertezza nell’impresa scientifica, ma l’enorme successo a livello esplicativo della scienza incoraggia fortemente la convinzione che tale circolarità sia virtuosa piuttosto che scorretta. Quegli scienziati che riflettono su simili questioni manterranno ben fermo il fatto di usare il termine “realismo” per descrivere i risultati da loro conseguiti, ma vorranno esprimere la sottigliezza del processo in questione aggiungendo l’aggettivo “critico” per riconoscere che viene impiegato un approccio in qualche modo indiretto.

La riduzione della religione a semplice opinione è il secondo errore. Ho un buon numero di amici scienziati che hanno fiducia e altri che sono diffidenti riguardo alla religione. Entrambi vedono che la scienza non risponde a tutte le nostre domande e riconoscono anche che la religione affronta molti di quei problemi che la scienza mette semplicemente da parte, come le questioni del valore e del significato. Tuttavia essi temono che la religione faccia questo in maniera inaccettabile. La loro immagine della fede religiosa è che essa richieda una sottomissione acritica alle asserzioni irrazionali stabilite da un’autorità indiscutibile. Vorrei provare a mostrare loro che ho delle motivazioni alla base delle mie convinzioni religiose, così come ho delle motivazioni alla base delle mie convinzioni scientifiche. Scienza e religione riguardano entrambe l’incontro con la realtà, ma tale incontro avviene su piani differenti, che coinvolgono diversi livelli di esperienza. La scienza esplora una dimensione impersonale della realtà, un regno nel quale l’esperienza può essere manipolata e replicata a piacimento da colui che va a investigare la realtà. La teologia, che è una riflessione di tipo intellettuale sulla religione, ha a che fare con due piani piuttosto diversi di realtà, quello dell’incontro interpersonale a livello umano, e quello dell’incontro trans-personale con la realtà sacra di Dio. In questi campi, il controllo empirico lascia il posto alla fede. Io credo che la Bibbia non sia un testo scritto sotto dettatura divina nel quale vengono esposte sotto forma di proposizioni logiche tutte le risposte che seguono alla disamina delle questioni della vita, ma sia piuttosto un “quaderno degli appunti” su cui lavorare, nel quale vengono registrati gli atti fondanti dell’auto-manifestazione di Dio nella storia, atti che sono in grado di mediare una ricchezza di esperienza spirituale verso coloro che si aprono alla volontà e alla presenza di Dio.

Scienza e teologia non riguardano solo differenti livelli di incontro con la realtà, ma si focalizzano anche nell’indirizzarsi verso diversi tipi di domande riguardo alla realtà. La ragione per cui scienza e religione sono amiche e non nemiche consiste nel fatto che entrambe sono impegnate nella grande ricerca della verità da parte dell’uomo, raggiungibile attraverso convinzioni fondate. Di conseguenza, si completano l’una con l’altra, piuttosto che essere in conflitto. Ciascuna è competente nel rivolgersi alle questioni che le sono proprie senza bisogno dell’assistenza dell’altra. Il continuo e necessario dialogo tra scienza e teologia nasce dal fatto che le loro rispettive intuizioni devono essere viste come consonanti le une con le altre, capaci, combinandosi insieme, di fornire una comprensione più estesa e profonda di quanto ciascuna, presa da sola, riuscirebbe a offrire.

 

In cosa credono gli scienziati 

Il quadro che ho delineato fin qui è quello di una vasta ricerca da parte dell’uomo di una comprensione vera che abbracci un ambito di ricerca che spazia dal coinvolgimento della scienza nella realtà impersonale all’incontro proprio della teologia con la realtà trans-personale del divino. Credo che le università esistano per esplorare questo ambito della razionalità e per testimoniare, in ultima analisi, l’unità della conoscenza. Un’università che non abbia spazio per la ricerca della verità dal punto di vista teologico manca di un importante elemento nel raggiungimento del suo scopo. È precisamente il carattere di ricerca della verità della teologia che confuta la rivendicazione di alcuni “nuovi atei”, secondo i quali la teologia non deve trovare posto nell’università moderna. Questo punto può essere rinforzato esplorando alcune relazioni di parentela che esistono tra i modi in cui scienza e teologia perseguono la comune ricerca della verità, nonostante le loro differenze.

La scienza trae le motivazioni alla base delle proprie affermazioni dai risultati degli esperimenti e l’indagine osservativa non ha quasi neanche bisogno di essere messa in discussione. Tuttavia il ruolo indispensabile dell’interpretazione teorica di ciò che avviene indica che una scoperta significativa raramente risulta da una ricerca di tipo baconiano dei fattori comuni presenti in una raccolta di fatti particolari. Una scoperta è un’attività molto più complessa. Si richiede spesso un esercizio di immaginazione creativa per discernere uno schema soggiacente alle cose in modo che risulti davvero illuminante. Albert Einstein disse una volta che la fisica teorica doveva essere «inventata liberamente». La teoria della relatività generale di Einstein si generò nello scontro circa le implicazioni dell’equivalenza tra massa gravitazionale e massa inerziale, ma quando alla fine egli concepì le equazioni che esprimevano tale principio, si trovò a doverne calcolare le conseguenze nella meccanica celeste. Quando trovò che queste equazioni prevedevano con successo un effetto noto nel moto del pianeta Mercurio che non si comprendeva sulla base della spiegazione di Newton, disse che quello era il giorno più felice della sua vita. Tuttavia, giungere a un’intuizione con alto potere esplicativo attraverso un singolo salto creativo dell’immaginazione scientifica, come fece Einstein nelle sue scoperte sulla relatività, è piuttosto raro. Più frequentemente una scoperta è il risultato di un processo che si snoda “passo dopo passo”, nel quale possiamo discernere tre fasi successive.

Il primo passo è quello che i fisici chiamano “fenomenologia”, cioè il riconoscimento di uno schema che suggerisce la possibile esistenza di un principio ordinatore soggiacente, senza svelare l’effettiva natura di tale principio. Nella lunga strada verso la scoperta della teoria dei quanti, un passo iniziale di questo tipo fu la scoperta da parte di Balmer di una formula numerica intrigante, ma inspiegata, che combaciava armoniosamente con le frequenze dello spettro dell’idrogeno. Il secondo passo da fare di solito consiste nella costruzione di modelli che cercano di riprodurre la fenomenologia di particolari sistemi senza pretendere di ottenere una coerenza totale o un’applicabilità universale. Un esempio nel caso della teoria dei quanti può essere quello del modello di Bohr per l’atomo di idrogeno. L’ultima tappa sarebbe stata raggiunta 13 anni dopo attraverso la formulazione fondamentale della meccanica quantistica scoperta da Erwin Schroedinger e Werner Heisenberg. La comprensione del fenomeno era stata infine raggiunta come caratterizzata da una vasta applicabilità e da una forte coerenza interna, meritandosi così il titolo onorifico di teoria dei quanti. Una teoria scientifica fondamentale come la meccanica quantistica è spesso convincente non solo per la sua capacità globale di spiegare fenomeni noti, ma anche per la sua abilità nel predirne di nuovi e di inaspettati fino a quel momento.

Si deve trarre dalla fisica un’ulteriore importante lezione prima di volgerci a considerare il percorso della scoperta nella teologia. A dispetto dei suoi numerosi successi, emerge che la fisica da sola non è in grado di stabilire tutte le questioni riguardanti la natura del mondo fisico stesso. La fisica quantistica è indiscutibilmente di carattere probabilistico. Non possiamo dire quando un particolare nucleo radioattivo decadrà, ma soltanto che vi è una certa probabilità che ciò accada nel tempo. Tuttavia, questo carattere probabilistico potrebbe sorgere per due ragioni piuttosto diverse. Una sarebbe semplicemente un’inevitabile ignoranza epistemica di tutti quei fattori che, se noti, sarebbero di fatto completamente sufficienti a determinare quando avverrà il decadimento. Una ragione alternativa, più radicale, sarebbe quella dell’esistenza di un’indeterminazione ontologica in natura. È chiaro così che la questione fondamentale della natura della causalità (deterministica e indeterministica?), imprigionata nella fisica, per essere risolta ha bisogno anche di una decisione di carattere metafisico.

 

Il percorso parallelo di fisica e teologia

C’è un certo grado di parentela tra il percorso che porta alla scoperta nella fisica e il percorso presente nella teologia. Utilizzerò la cristologia come esempio per il confronto. Quando si legge la testimonianza del Nuovo Testamento, si vede che i suoi autori lottano con il dilemma su come esprimere ciò che essi ritengono essere la loro esperienza di Cristo risorto e la trasformazione che egli ha portato nelle loro vite. Questo è ciò che si potrebbe chiamare la fenomenologia del credo cristiano degli inizi. Essa include i racconti delle apparizioni di Cristo risorto e del sepolcro vuoto. L’evidenza così presentata deve, naturalmente, essere attestata con scrupolosità intellettuale. Credo che ci siano buone ragioni per prendere molto seriamente questa testimonianza. Nella mia visione, la credibilità della dottrina cristiana poggia su questi fenomeni, così come la teoria dei quanti poggia su fenomeni quali la configurazione discreta dell’atomo e il dualismo onda-particella.

La strategia del ricorso a una convinzione ben fondata è un fattore che la scienza e la teologia hanno in comune nella loro ricerca della comprensione della verità. Ora vorrei puntare l’attenzione su altri due aspetti della ricerca della verità che entrambe hanno in comune. Il primo è lo schietto riconoscimento del fatto che in entrambi i casi il grado di successo che può essere raggiunto è caratterizzato, nella migliore delle ipotesi, da una intuizione affidabile piuttosto che da una prova indubitabile. In altre parole, entrambe offrono una comprensione illuminante sulla quale è totalmente ragionevole fare affidamento, entrambe senza essere in grado di rivendicare una conoscenza assoluta e certa che solo una persona irrimediabilmente sciocca potrebbe richiedere.

Le persone a volte dicono che gli scienziati dubitano di tutto. Allo stato attuale delle cose, questa sarebbe una strategia disastrosa da perseguire, poiché semplicemente porterebbe alla paralisi intellettuale. L’assunzione di una posizione teorica non è immutabile e deve essere aperta a correzioni sulla scorta del modo in cui le cose effettivamente vanno. Il processo che coinvolge questi cambiamenti a seconda delle circostanze è una questione sottile, che secondo me è stata colta meglio dal concetto di “programma di ricerca” di Imre Lakatos che non dalla intransigente nozione di “falsificazione” di Karl Popper. Nel programma di ricerca di Lakatos c’è un “nocciolo duro” di postulati base che definiscono il programma soggetto a revisione sotto la spinta di un’evidenza empirica consistente e fondata. Nel programma newtoniano della meccanica celeste, il “nocciolo duro” era costituito dall’idea di gravitazione universale in cui la forza di attrazione fra i corpi celesti è inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. Il nocciolo è protetto dall’esposizione ai singoli risultati empirici da una cintura di ipotesi ausiliarie che determinano come le idee contenute nel nocciolo devono essere applicate ai casi particolari. Allo scopo di salvare il programma, queste ipotesi sono suscettibili di aggiustamenti sotto la pressione dell’evidenza empirica. Nel programma newtoniano, le ipotesi ausiliarie includevano supposizioni sul numero e sulla natura dei pianeti. Quando si scoprì che Urano non si comportava come previsto, il programma newtoniano non venne abbandonato, ma fu introdotta un’ipotesi sull’esistenza di un nuovo pianeta situato al di là di Urano. La successiva scoperta di Nettuno rappresentò un successo meraviglioso per il programma.

A volte nella scienza c’è bisogno di una revisione radicale, che è il motivo per cui il suo successo non può essere acclamato come verità assoluta, ma piuttosto come raggiungimento più modesto di una verosimiglianza, come la stesura di mappe della realtà naturale che sono affidabili in base a una scala data, ma che possono avere bisogno di modifiche se si cambia la scala e nuovi aspetti del paesaggio vengono alla luce. Le vecchie visioni non vengono completamente abbandonate, ma devono essere modificate ed estese in modo da rendere giustizia al fatto che il contesto di riferimento si amplia. Ecco perché le conquiste della scienza devono essere descritte in termini di raggiungimento di un realismo critico.

Michael Polanyi ha rivolto la propria attenzione a un altro importante aspetto del carattere della scienza. L’argomento di un suo libro è la conoscenza personale [Personal Knowledge, 1958] poiché egli era conscio del fatto che il progresso della scienza dipende dall’esercizio di sottintese capacità di giudizio che sono troppo raffinate per essere ridotte a un semplice insieme di regole specifiche, la cui esecuzione potrebbe essere delegata a un computer. Il modo in cui prendere parte al processo di scoperta scientifica è un’arte che deve essere imparata dagli uomini seguendo un apprendistato nella comunità di ricerca della verità. Se la scienza non è disposta a negoziare sulle prove, questo è ancora più vero nel caso della teologia. I credenti vanno avanti grazie a una fede fortemente motivata, ma senza orizzonti certi.

Nel pensiero occidentale ci sono state due principali tradizioni metafisiche che si sono distinte l’una rispetto all’altra nella considerazione dei rispettivi e basilari “fatti bruti”. Nulla si crea dal nulla, e lo schema esplicativo di ogni visione del mondo deve avere la propria base che lo definisce e che fornisce ciò che viene assunto a fondamento inspiegato dello sviluppo della comprensione delle cose. Il naturalismo prende come fatto bruto in tal senso l’esistenza del mondo della natura. Il teismo come base fondamentale della conoscenza assume l’esistenza di un Creatore divino. Il revival contemporaneo di una forma rivisitata di teologia naturale scaturisce dalla rivendicazione che le leggi della natura, così come la fisica moderna le ha individuate, hanno una forma talmente caratteristica che trattarle semplicemente come fatti bruti risulta insoddisfacente dal punto di vista intellettuale. Esse sembrano indicare qualcosa al di là di esse, che punta al bisogno di ottenere una intelligibilità più profonda. La trasparenza razionale e la bellezza razionale dell’universo fisico sono tali da indurre molti di noi a percepire che queste proprietà possono essere meglio comprese se considerate come segni della mente del Creatore del mondo, fonte di questo ordine meraviglioso.

La specificità finemente armonizzata delle forze della natura, che da sola ha permesso all’universo di far evolvere la complessa ricchezza di una vita basata sul carbonio, viene considerata come meglio comprensibile in quanto mostra la volontà orientata a uno scopo da parte del Creatore del mondo. Questi non sono argomenti che danno una volta per tutte un’irresistibile forza logica al credo teistico, ma offrono una visione profonda di quei fatti notevoli riguardo al mondo che altrimenti verrebbero trattati semplicemente come casi fortuiti eccezionalmente felici. Un’importante caratteristica, desiderabile in qualunque schema metafisico venga fornito, è la sua ampia portata esplicativa. Fin dal giorno in cui James Clerk Maxwell formulò le sue famose equazioni che unificavano i fenomeni apparentemente diversi dell’elettricità e del magnetismo, l’impulso della fisica è stato quello di trovare teorie sempre più unificate, la cui autenticità risulta convincente proprio per la vastità della gamma di fenomeni che esse riescono a includere. Tale ricerca ha portato un grande progresso nella comprensione scientifica. Al di là della scienza stessa, è una motivazione di questo tipo quella che dovrebbe prevalere. Gli atei non sono affatto stupidi e io credo che molti di loro siano veramente cercatori di verità, ma i difensori della metafisica di tipo teistico possono controbattere che essa spiega più cose di quanto non faccia l’ateismo.

 

Il ruolo della razionalità aperta

Occorre notare un ultimo rapporto di parentela fra scienza e teologia. Entrambe hanno bisogno di muoversi all’interno di ciò che si potrebbe chiamare razionalità aperta. L’essenza della ragione sta nel conformare il pensiero alla natura effettiva di ciò nel quale consiste quello su cui si sta cercando di riflettere. Se la scienza ci insegna qualcosa, è che la realtà è spesso sorprendente, manifesta proprietà la cui previsione va al di là delle nostre umane capacità. Qualunque filosofo nel 1899 avrebbe potuto “provare” l’impossibilità del dualismo onda/particella. Come si poteva supporre che ci fosse qualcosa che si comportava a tratti come un’onda in espansione e in oscillazione, e a tratti come un minuscolo proiettile? Ciononostante si scoprì che la luce si comportava così, e sotto la pressione di questo fatto strano e innegabile i fisici furono alla fine condotti alla scoperta della teoria del campo quantistico. Uno degli incoraggiamenti più forti ad assumere una visione realistica delle conquiste della scienza è questo suo confronto con l’ostinata insubordinazione della natura, che così spesso si oppone alle nostre aspettative iniziali. Gli scienziati incontrano davvero una realtà indipendente, che si staglia contro di loro nella sua caratteristica peculiarità.

Così la scienza ha reso evidente che qui non c’è alcuna razionalità universale, applicabile in maniera problematica a tutte le entità. La logica aristotelica si applica al mondo delle cose di tutti i giorni, ma deve cedere il passo alla logica quantistica nel regno della realtà subatomica. Similmente non esiste un’epistemologia universale. Gli enti possono essere conosciuti solo nella misura in cui si accordano con la propria natura. Qualunque tentativo di rigettare il principio di indeterminazione di Heisenberg, pretendendo di conoscere il mondo dei quanti con una chiarezza di stampo newtoniano, è destinato al fallimento.

Di conseguenza la domanda spontanea che si dovrebbe fare lo scienziato non è: «È ragionevole?», come se pensassimo di conoscere in anticipo la forma della ragione da acquisire. Lo scienziato si dovrebbe invece chiedere: «Cosa ti fa pensare che potrebbe essere così?», una domanda più aperta e più impegnativa. Essa non cerca di specificare in anticipo la forma che deve assumere una risposta ragionevole, bensì, se emerge qualcosa di sorprendente, un’evidenza fondata dovrà essere offerta come giustificazione. Credo che la teologia abbia anch’essa bisogno di operare con una razionalità aperta, che faccia uso di quella strategia nella ricerca della verità che mi piace chiamare pensiero “dal basso verso l’alto”: partire da un’esperienza ponderata con accuratezza per giungere a convinzioni ben motivate. Questo contrasta con una strategia “dall’alto verso il basso”, la quale ritiene sia possibile partire da principi generali chiari e certi, da cui far discendere la disamina dei particolari. Il problema connesso a questo secondo approccio è che troppo spesso le idee chiare e certe si sono rivelate essere, sotto la pressione dell’effettivo confronto con la realtà, non così chiare né così certe come si pensava. La presenza di umanità e divinità nella persona di Cristo è un dualismo più profondo e più complicato del dualismo onda/particella nel caso della luce, ma credo che sia ben motivato dalle esperienze fondative e dalle riflessioni registrate dai testimoni del Nuovo Testamento e dall’esperienza continuativa di culto della Chiesa. La teologia dunque giustamente occupa un posto come elemento essenziale nella grande ricerca da parte dell’umanità della comprensione della verità delle cose raggiunta tramite una valutazione scrupolosa dell’esperienza.

   

«Vita e Pensiero» 95 (2012), n. 2, 82-90, tr. it. di Serena Spelta e Lorenzo Fazzini.