Il problema centrale della scienza e dell’epistemologia è decidere quali postulati assumere come fondamentali. I grandi filosofi idealisti hanno sempre considerato la Mente come prioritaria dal punto di vista logico, e anche i filosofi materialisti assumono che le proprietà innate della materia siano tali da permettere, o addirittura implicare, l’esistenza di un’intelligenza che la contempli. Tali proprietà sarebbero, in altre parole, necessarie o sufficienti per la vita.
L’esistenza della mente è dunque uno dei postulati fondamentali dei sistemi filosofici. I fisici, al contrario, sono restii a introdurre nelle loro teorie qualsiasi riferimento alla mente. Anche la meccanica quantistica, pur introducendo la presenza dell’osservatore nella descrizione dei fenomeni fisici, non fa alcun riferimento a facoltà intellettuali; una lastra fotografica potrebbe a tutti gli effetti servire da «osservatore». Negli ultimi tempi è però cresciuto tra i cosmologi l’interesse verso un complesso di idee, noto come «principio antropico cosmologico», che dà modo di collegare in maniera diretta la mente, e la capacità osservativa, con i fenomeni che per tradizione rientrano nel dominio delle scienze fisiche.
Il principio copernicano, secondo il quale noi non occupiamo una posizione privilegiata nell’universo, ha contribuito notevolmente a relegare l’uomo in un ruolo marginale in natura rispetto a quello centrale che egli stesso si era assegnato. Questo principio è generalmente dato per scontato dai moderni scienziati, ma, come ogni generalizzazione, richiede nella sua applicazione una certa cautela. Infatti, se da un lato va rigettato il pregiudizio secondo cui la nostra posizione nell’universo sarebbe privilegiata sotto ogni aspetto, dall’altro non si può escludere che per certi versi essa lo sia. Questa possibilità indusse Brandon Carter a limitare il dogma copernicano con un «principio antropico», ove si sostiene che «la nostra posizione nell’universo è necessariamente privilegiata, nella misura in cui deve essere compatibile con la nostra esistenza come osservatori». Le proprietà fondamentali dell’universo, incluse caratteristiche quali forma, dimensioni, età e leggi evolutive, devono risultare, all’osservazione, tali da permettere l’evoluzione di osservatori. Infatti, com’è ovvio, in un universo per altri versi possibile, ma che non permettesse lo sviluppo di vita intelligente, non ci sarebbe nessuno a porsi domande di questo tipo. Tale affermazione può sembrare vera seppur banale, eppure ha conseguenze di vasta portata per la fisica, giacché riafferma che, per una corretta valutazione di proprietà osservate dell’universo che a prima vista possono apparire eccezionalmente improbabili, occorre tener conto del fatto che molte di esse sono prerequisiti necessari per l’evoluzione e l’esistenza di osservatori. I valori misurati di molte grandezze fisiche e cosmologiche che caratterizzano il nostro universo sono circoscritti dal fatto di dover essere osservati da un luogo dove esistono condizioni adatte per l’evoluzione biologica e in un’epoca cosmica successiva ai tempi astrofisici e biologici indispensabili per lo sviluppo della biochimica e di un ambiente capace di sostenere la vita.
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La grandezza dell’universo osservabile è una caratteristica variabile nel tempo a causa dell’espansione globale del sistema di galassie e di ammassi. I tempi dell’evoluzione biologica, che ci costringono a osservare l’universo solo dopo miliardi di anni di espansione, introducono un effetto di selezione. Si può precisare meglio questa considerazione. Uno dei risultati più importanti della fisica del Novecento è stata la graduale comprensione dell’esistenza, nel mondo della natura e dei suoi componenti elementari, di proprietà invarianti che rendono inevitabili l’ordine di grandezza e la struttura di pressoché tutti i suoi costituenti. Le dimensioni dei pianeti e delle stelle, e anche di noi uomini, non sono né casuali né il risultato di un processo di selezione darwiniana tra una miriade di possibilità. Come altre caratteristiche generali dell’universo, sono conseguenze necessarie dei possibili stati di equilibrio tra forze attrattive e repulsive in competizione tra loro. Le intensità intrinseche di queste forze che regolano gli equilibri naturali sono determinate da un misterioso insieme di numeri puri, chiamati costanti di natura.
Riuscire a spiegare perché queste costanti numeriche (quali ad esempio il rapporto tra le masse dell’elettrone e del protone) hanno proprio i particolari valori osservati è il Santo Graal della fisica moderna. Negli ultimi anni vi sono stati progressi importanti in tale direzione, ma molto resta da fare. Ciò nonostante si può seguire un cammino interessante che non si limita ad adottare il principio antropico come semplice regola di autoselezione, come negli esempi già discussi, ma lo usa in modo più avventuroso e speculativo.
Alcune condizioni necessarie o sufficienti per l’evoluzione di esseri intelligenti possono essere espresse sotto forma di vincoli sui valori relativi di diversi insiemi di costanti fondamentali. Si può quindi stabilire fino a che punto i particolari valori osservati di tali costanti siano necessari per l’esistenza di osservatori. Ad esempio, se le intensità relative delle interazioni nucleare ed elettromagnetica fossero anche leggermente diverse da quelle osservate, in natura non esisterebbero atomi di carbonio e l’evoluzione di osservatori umani non sarebbe stata possibile. Analogamente, molte proprietà globali dell’universo, quali il rapporto tra il numero totale di fotoni e quello di protoni, devono avere valori compresi in un intervallo molto ristretto perché le condizioni cosmiche consentano la nascita della vita basata sul carbonio.
Le prime indagini sui vincoli imposti alle costanti di natura dal prerequisito dell’esistenza della nostra forma di vita fornirono risultati sorprendenti. Vennero trovate concordanze impensabili tra numeri grandissimi e apparentemente del tutto indipendenti, coincidenze che appaiono determinanti per l’esistenza nell’universo di osservatori a base di carbonio Esse erano così numerose e inverosimili da indurre Carter a proporre una versione del principio antropico più forte della precedente, fondata su un semplice effetto di autoselezione: l’universo deve essere tale «da ammettere, a qualche stadio del suo sviluppo, l’evoluzione di osservatori al suo interno». Questo punto di vista è chiaramente più metafisico e meno difendibile, in quanto implica che la struttura dell’universo non avrebbe potuto svilupparsi in modo diverso, e forse che i valori numerici delle costanti di natura non potrebbero essere diversi da quelli osservati. In tal modo viene a crearsi un grosso problema; saremmo tentati infatti di confrontare le proprietà del nostro universo osservabile con quelle di universi alternativi caratterizzati da valori differenti delle costanti fondamentali. Ma l’universo è uno solo: dove trovare gli altri possibili universi con cui confrontare il nostro, così da decidere fino a che punto è un caso fortunato il verificarsi delle coincidenze necessarie per la nostra evoluzione?
da J.D. BARROW, F.J. TIPLER, Il Principio Antropico, Adelphi, Milano 2002 (ed. or. The Anthropic Cosmological Principle, 1986), pp. 25-26 e 29-30