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Il Principio Antropico nella scienza cosmologica

George Coyne
Alberto Masani
1989

Quando scrisse le famose lettere a don Benedetto Castelli (1613) e a madama Cristina di Lorena (1615), nelle quali rivendicava di fronte all'autorità religiosa la piena autonomia metodologica dell'indagine sulla natura, Galileo segnò l'inizio di un'indispensabile metodologia scientifica, ma introdusse nella cultura umana una rottura, in virtù della quale la scienza assumeva un ruolo che molti intellettuali credettero di poter ritenere secondario, nel quadro che caratterizza la cultura dell'uomo intesa nel suo significato più generale e completo.

Tutto ciò non era certo nelle intenzioni di Galileo, il quale vedeva nella Sacra Scrittura il dettato dello Spirito Santo e nella natura l'opera di Dio, l'osservantissima esecutrice dei suoi ordini; ma da allora, proprio per la posizione sostenuta, la natura è diventata un oggetto a sé stante e, se non proprio contrapposta all'uomo, quanto meno estranea ad esso; l'uomo è stato collocato in una posizione di «osservatore», ossia di personaggio fondamentalmente distaccato dalla natura, con problematiche estranee alla natura stessa, ora osservata dall’«esterno».

La metodologia scientifica così fondata dette frutti tanto giganteschi da far pensare che l'operazione scissionistica avesse tutti i caratteri dell'oggettività, della necessità e dell'impossibilità di un ritorno al tempo in cui era stato conseguito il livello di conoscenze che con san Tommaso e con Dante era apparso il massimo e il più completo cui l'uomo potesse aspirare.

Ebbe inizio la separazione fra ciò che in seguito fu detto cultura umanistica e cultura scientifica, intendendo quest'ultima come un'attività che con la prima ha poco a che fare, e fu aperta la strada a coloro che non seppero comprendere come lo sviluppo storico della cultura umana rendeva inevitabile, a un certo momento, quella distinzione e considerarono la scienza una cultura di seconda categoria se non addirittura una non cultura, giustificabile solo come prassi utilitaristica ma non come conoscenza. All'interno della cultura scientifica vi furono a loro volta coloro che la intesero tendenzialmente in senso monopolistico rispetto a quella umanistica.

 

Le scienze naturali e la cosmologia

Naturalmente la scienza, per quanto indubbiamente interessata anche al suo aspetto applicativo e quindi tecnologico, utilitaristico e sociale, si considera essenzialmente impegnata sul piano della conoscenza e per molti aspetti ritiene di disporre di capacità conoscitive indispensabili per ogni atteggiamento culturale anche di tipo umanistico, in quanto considera la natura un elemento imprescindibile dell'essere e l'analisi di essa un indispensabile elemento del processo generale della conoscenza.

A differenza di quanto ritengono alcuni, la scienza non perviene alla conoscenza della natura con un atto d'intuizione immediata, bensì tramite un processo che si costruisce nel tempo attraverso un colloquio teorico e osservativo fra la natura, da una parte, e l'umanità, dall'altra. In quel colloquio entra anche l'intuizione, ma non in un modo determinante e definitivo. C'è chi ritiene che un tale processo colloquiale, pur conducendo a un continuo avvicinamento alla realtà, non consenta di valutarne l'effettiva distanza, perché non è possibile conoscerne il momento conclusivo finale (se pure si concede di riuscire a conseguirlo) e c'è chi ritiene che la scienza per sua natura proceda per «rivoluzioni», le quali si succedono in maniera tale che ognuna, per quanto più comprensiva della precedente, non può sottrarsi, a sua volta, al destino cli essere sorpassata da una rivoluzione futura.

Si tratta di posizioni che non valorizzano il fatto che la scienza si è costituita come tale da soli tre o quattro secoli e che durante un tale intervallo temporale estremamente breve è più che logico che si sia passati attraverso aggiustamenti e modifiche, magari profondi, di schemi ritenuti validi, tali essendo risultati nell’ambito delle approssimazioni entro le quali in un primo momento ci si è mossi. Ciò non significa però che le modifiche profonde siano connaturali alla dinamica della ricerca scientifica; ne sono garanti le enormi mete conoscitive già conseguite che non temono smentite dal futuro, anche se potranno in seguito essere ulteriormente raffinate (ma non sostanzialmente contraddette). Basti pensare, a titolo di esempio, al complesso di conoscenze intorno alia costituzione del sistema planetario-solare e a quello che si riferisce alla struttura ed evoluzione stellare. Si tratta di mete conoscitive non più falsificabili almeno sostanzialmente, che fanno parte di un bagaglio culturale a cui l'umanità può attingere con la massima fiducia. In altre parole il metodo scientifico consente una rapida convergenza nel processo conoscitivo della realtà.

Naturalmente nella categoria di conoscenze acquisite, che possono considerarsi definitive, non possiamo inserire gli attuali modelli cosmologici perché, per la vastità del loro impegno e della loro portata culturale, hanno bisogno di un'analisi e di un'elaborazione ulteriori. Tuttavia, fra le principali posizioni cosmologiche di cui oggi si parla, non si può fare a meno di rilevare che la teoria dello stato stazionario trova nella fondamentale dissimmetria dell'universo il motivo principale che contraddice l’ispirazione che sta alla base della sua costituzione, quello appunto della simmetria. È da considerare infatti un elemento di dissimmetria il fatto che l'universo è fatto di materia e non anche di antimateria in uguale quantità; lo stesso dicasi del fatto in forza del quale diversi fenomeni (la radiazione di tre gradi del fondo cosmico, la composizione chimica media della materia cosmica ecc.) implicano che lo spostamento verso il rosso, constatato per la prima volta da Hubble nelle galassie, dev'essere interpretato come un'espansione universale a partire da uno stato iniziale estremamente (infinitamente) compatto, da cui ha origine il cosmo attuale con la caratteristica dello spazio, del tempo e della materia, per cui si deve parlare di universo veramente evolutivo e non stazionario.

Il principio evolutivo sembra proprio inerente alla struttura cosmica e non vi è dubbio che la teoria cosiddetta del big-bang si adatti assai bene a interpretare i principali aspetti cosmici che constatiamo. Qualcuno ha sollevato dubbi sul fatto che una tale teoria abbia dovuto fare ricorso al cosiddetto modello inflazionistico che si avvicina al tempo «zero» (in cui ha luogo l'atto di nascita dell'universo) fino a valori così piccoli come 10-35 e anche 10-45sec e alle conseguenti situazioni fisiche estreme in cui le attuali leggi fisiche potrebbero non valere. Si tratta tuttavia di situazioni alle quali la teoria perviene dallo studio della più intima struttura della materia: essa si appoggia a esperienze che, se proprio non sono direttamente riferibili a e verificabili in quelle situazioni, vi si avvicinano abbastanza, perché si collocano su uno schema teorico fondamentale della natura stessa.

La fisica attuale ha diversi aspetti che si fondano sulla razionalità e sulla conferma sperimentale e non solo sull'intuizione basata sull'esperienza del vivere quotidiano; ciò a cui dobbiamo affidare la nostra adesione è la capacità di comprendere la struttura cosmica quale effettivamente si osserva. La teoria del big-bang, compreso il suo aspetto inflazionistico, è in piena sintonia con lo sviluppo della ricerca fisica moderna, specialmente nei campi delle particelle fondamentali e della gravità quantistica, e ciò le consente di rendersi conto dell'esistenza della materia, della non esistenza (cosmica) dell'antimateria e di tante altre caratteristiche molto particolari che si constatano nella struttura cosmica.

 

Il principio antropico

Accetteremo quindi la teoria del big-bang quale base di riferimento e al suo interno cercheremo di esaminare il significato e le conseguenze del complesso di questioni che si è cercato d'inserire nella scienza sotto la generica denominazione di principio antropico.

Questa espressione fu introdotta da B. Carter nel 1974 [B. Carter, in Confrontation of Cosmological Theories with Observation, a cura di M.S. Longair, Reidel, Dordrecht 1974, 291] ], a conclusione di lavori nei quali l'autore aveva messo in evidenza che la struttura degli oggetti cosmici dipende dalle costanti di natura secondo potenze molto alte, per cui un eventuale loro valore diverso anche di poco avrebbe comportato notevoli variazioni di quella struttura, in genere così ampie da rendere impossibili condizioni fisiche conformi allo sviluppo delle forme vitali e quindi dell’uomo, al di là di qualsiasi ipotizzabile riferimento alla capacità di adattamento di tali forme all'ambiente. Queste osservazioni costituiscono un passo d'importanza fondamentale dal punto di vista della cultura umana sia umanistica sia scientifica.

L'importanza scientifica consiste prima di tutto nell'aver messo in evidenza la relazione fra costanti fondamentali di natura e costituzione delle strutture cosmiche, assolvendo a un compito di natura cosmologica; secondariamente nell'aver messo in evidenza la relazione fra costanti di natura e struttura biologica e sua possibilità di sviluppo, nel senso di mostrare come quest'ultima, vista nel quadro di una situazione favorevole locale (terrestre e relativa all'ambito del sistema solare), è in realtà collegata a una situazione cosmologica universale dalla quale quella locale deriva la condizione della propria possibilità, qui come in qualsiasi altro punto dell'universo. In breve si è verificata una combinazione raffinatissima di costanti di natura, senza di che non si sarebbe verificata l'evoluzione delle strutture biologiche nell'universo.

Le costanti di natura sono i valori che caratterizzano i vari modi con cui si manifesta la natura, valori che non sono riconducibili a una teoria che li giustifichi per quello che sono e che pertanto possono essere dedotti solo per via sperimentale. Quei valori ci appaiono quindi privi di ogni necessità nel senso che, per noi, potrebbero benissimo essere anche diversi con tutta la diversità della struttura cosmica che ne deriverebbe di conseguenza. Se così fosse però (ecco il principio antropico), tale struttura si altererebbe a tal punto da non consentire la possibilità delle forme biologiche.

La velocità della luce, ad esempio, è una di tali costanti: pur mantenendo inalterata la sua caratteristica di velocità limite secondo la teoria della relatività, potrebbe avere avuto benissimo un valore diverso dai 300.000 kilometri al secondo che ha. Un'altra costante di natura è quella che interviene nella famosa formula di Newton, che descrive il fenomeno della gravitazione. Se avesse un valore leggermente diverso, l'equilibrio cosmico si altererebbe in maniera drastica con conseguenze catastrofiche per la possibilità della vita. Lo stesso può dirsi, ad esempio, per la carica elettrica e la massa delle particelle fondamentali, per la grandezza delle quattro forze fondamentali, per la velocità dell'espansione dell'universo e la sua variazione col tempo e nello spazio ecc.

Ci si può chiedere se non potrebbe darsi che l'attuale necessità di rivolgerci all'esperienza non possa dipendere dallo sviluppo incompleto delle nostre conoscenze scientifiche e che in seguito si possa riuscire a trovare una logica motivazione dei valori che tali costanti hanno. Molti studi sono stati condotti effettivamente in questa direzione e, sebbene non abbiano dato finora alcun esito, non si può certo negare che qualche risultato positivo possa essere conseguito in futuro. Riteniamo tuttavia che sia possibile ottenere teoricamente un tale risultato solo per alcune costanti di natura, ma non per tutte, per cui il problema rimarrebbe inalterato. Se fosse possibile per tutte, significherebbe costruire una scienza che fa a meno dell'esperienza e che realizzerebbe il sogno razionalista di Cartesio. La scienza sarà sempre in qualche modo legata all'esperienza, per cui vedrà sempre nella natura un qualche aspetto che non è riconducibile a una necessità logica e sarà per ciò stesso aleatorio.

Neppure il tentativo, scientificamente interessante, di Stephen Hawking ci sembra capace di conseguire un risultato che potrebbe sembrare operare in questa direzione. Nel suo libro Dal Big Bang ai Buchi Neri [S. Hawking, Dal Big Bang ai Buchi Neri, Rizzoli, Milano 1988], in base a considerazioni sorte dal campo della gravità quantistica, Hawking ritiene che lo spazio e il tempo possano formare una superficie chiusa ma senza confini e che un tale universo non avrebbe avuto bisogno di condizioni iniziali che avrebbero determinato le costanti di natura che osserviamo; oppure, in altre parole, come dice Hawking stesso, l'unica condizione iniziale sarebbe che non c'è affatto bisogno di condizioni iniziali. Così la combinazione delle leggi fisiche e delle costanti di natura attualmente realizzata, cioè l'universo attuale, si spiegherebbe semplicemente in forza di considerazioni della gravità quantistica. E così non bisognerebbe pensare neppure a un Dio Creatore.

A parte il fatto che anche in base a considerazioni puramente scientifiche la teoria di Hawking è discutibile e contestata (si potrebbe dire più o meno così di tutti i modelli), vorremmo offrire qualche parere dal punto di vista generale, cioè il rapporto fra la cultura scientifica e quella religiosa. Riprendendo un concetto già espresso, vorremmo ancora più esplicitamente affermare che nessuna teoria scientifica può pretendere di presentarsi come causa di se stessa, a meno di aderire a una filosofia che accetti come principio, e quindi, unilateralmente, un tale punto di vista. Ma in tal caso il credente avrà il buon diritto di rifiutarlo e di partire dal concetto di Dio Creatore. L'escludere il Dio Creatore dalla fede religiosa a causa di risultati scientifici, anche ammessa la verità della teoria di Hawking, sarebbe una confusione di discipline assolutamente inammissibile.

Tutti gli altri modelli di un unico universo richiedono, a differenza di quello di Hawking, una determinazione delle condizioni iniziali e delle costanti di natura e perciò fanno pensare, per rispondere al principio antropico, a una finalità intrinseca mirante a far nascere l'uomo. Ci sembra che una tale posizione non potrebbe aver nulla che si opponga a una concezione religiosa in sintonia con i risultati dello studioso dell'opera di Dio che agisca nell'ambito della propria piena libertà.

Il lavoro di Carter si è saldato con altre ricerche precedenti come quelle di Dirac e di Dicke relativamente alle coincidenze di certe espressioni adimensionali di valore elevatissimo (1040) e di Dyson relativamente alle circostanze estremamente delicate che rendono possibile la formazione degli elementi chimici nei primi minuti dell'esistenza dell'universo [P.A. Dirac, in Nature, vol. 139 (1937), p. 323; R.H.Dicke, ivi, vol. 225 (1961), p. 51: F.J. Dyson, in Scientific American, vol. 225 (1971), p. 51]. Inoltre la ricerca di Carter sollecitò altre ricerche scientifiche per le quali si è riconosciuta la sensibile dipendenza dell'esplicarsi delle forme biologiche dalla dinamica stessa dell'evoluzione cosmologica, oltre a estendere la ricerca di importanti relazioni fra le costanti di natura e la struttura cosmica [B.J. Carr, M.J. Rees, in Nature, vol.278 (1979), p. 605; J.D. Barrow, F.J. Tipler, in The Anthropic Cosmological Principle, University Press, Oxford 1986; A. Masani, Astrofisica, Ed. Riuniti, Roma 1984].

Inoltre Carter ha sottolineato con la denominazione «principio antropico» una possibile interpretazione finalistica all'uomo della struttura cosmica. Perciò si distinguono due princìpi: il «principio antropico debole» e il «principio antropico forte». Il principio debole, senza ragionare oltre, esprime semplicemente il fatto che la combinazione delle costanti di natura riconosciuta sperimentalmente è una condizione sine qua non della vita e quindi noi osserviamo tale combinazione perché senza di essa non esisteremmo. La combinazione è una condizione necessaria per la nostra esistenza e, perciò, per le nostre osservazioni della stessa combinazione. Il principio forte va oltre in cerca di una risposta al perché della detta combinazione e risponde diversamente secondo i diversi modelli cosmologici, con qualche finalità intrinseca nell'universo.

Alcuni scienziati, sollecitati dal riconoscimento della validità del principio antropico nella sua forma debole, fanno riferimento agli studi relativi alla situazione fisica dei primi istanti di vita dell'universo e mettono in evidenza la possibilità teorica di evitare la forma forte del principio stesso e quindi la sua implicazione finalistica. Essi propongono che nei primi istanti cosmici potrebbe essere presente un'enorme serie di micromondi ciascuno caratterizzato da valori diversi delle costanti di natura in accordo col fatto che non c'è nessuna ragione perché ogni costante abbia il valore che constatiamo. Tutti i valori possibili sarebbero logicamente presenti. Questi micromondi subirebbero poi il processo evolutivo, ciascuno corrispondente alla propria combinazione dei valori delle costanti e quindi risulterebbero proibitivi nei confronti della possibilità di ospitare le forme biologiche, in particolare quelle umane. Solo nei rarissimi micromondi in cui le costanti di natura sono adatte, l'evoluzione consentirebbe una tale ospitalità. Il nostro è appunto uno di quelli. Non c'è da meravigliarsi quindi se le costanti di natura che constatiamo hanno proprio i valori che consentono lo sviluppo della vita. Tutti i possibili valori delle costanti esistono effettivamente, ma solo dove si realizza la combinazione favorevole si manifesta la vita, per cui noi non possiamo che riconoscere tale favorevole combinazione.

L'idea dell'esistenza di molti mondi non è nuova nell'ambito della fisica. Era già stata presentata nel 1957 da H. Everett come alternativa per superare la difficoltà di accettare certe interpretazioni della meccanica quantistica che sembravano contrastate con l'intuizione in quanto implicano la presenza dell'osservatore come elemento ineliminabile e condizionante nel processo della misura [H. Everett, in Rev. Mod. Phy., vol. 29 (1957) 454].

 

Risposte scientifiche al principio antropico

Indubbiamente il riferimento del principio antropico all'aspetto finalistico supera i limiti di una rigorosa metodologia scientifica e può apparire un ritorno a posizioni che sembravano definitivamente superate, per cui è comprensibile che alcuni scienziati si siano rifiutati di accettarlo. Naturalmente altri scienziati hanno difeso e valorizzato quel principio, intendendo vedervi un finalismo di tipo naturale, mentre quelli di estrazione religiosa vi vedono la riprova dell'esistenza di un Essere Superiore, Dio, che ha creato, fra le infinite possibilità, un universo con i valori adatti alla vita umana come si è sviluppata e realizzata sulla terra e quasi certamente anche su altri pianeti che orbitano intorno ai miliardi di stelle costitutive dei miliardi di galassie sparse nelle profondità dello spazio. Vi sono stati anche altri atteggiamenti diversi di scienziati che accettano il principio antropico solo nella forma debole. Vi è anche chi ammette che esistano altri universi in cui le costanti di natura sono diverse e nei quali pertanto la vita non esiste; sono indotti a una tale ammissione da una interpretazione del quadro tecnico da cui prende le mosse la teoria inflazionistica del big-bang.

Vi sono infine alcuni scienziati, i quali, valorizzando il fatto secondo cui l'evoluzione cosmologica avrebbe prodotto le forme biologiche e considerando queste ultime automaticamente costituentesi quando le condizioni ambientali sono tali da consentire l'agglomeramento molecolare in forme sempre più complesse (maggiore complessità-maggiore intelligenza), ritengono troppo impegnativo parlare di principio antropico e, sollecitati dall'esigenza di mettere in risalto l'indiscutibile continuità e unitarietà biologica dell'essere umano, ritengono di dover negare a quest'ultimo qualsiasi posizione d'importanza superiore nella scala biologica; essi cercano di attestarsi su posizioni il più possibile prive di implicazioni di ordine speculativo e filosofico proponendo, ad esempio, di sostituire l'espressione di principio antropico con quella di principio della complessità, dalla quale non è esclusa quella umana (più intelligente perché più complessa).

Il fatto è che in ogni atteggiamento che affronta una problematica come questa si oltrepassano sempre i limiti nei quali la scienza si è riconosciuta come tale; d'altra parte la scienza può suggerire gli elementi necessari per superare questi limiti, anche se lo fa reclamando di restare in qualche modo ad essi legata nel senso di non affidarsi a una fantasia che non tenga conto di quanto la scienza ha costruito e offerto alla riflessione e all'elaborazione culturale.

Si comprendono così le diverse posizioni che è possibile leggere oggi nella bibliografia scientifica sul principio antropico. Non si può negare che, a volte, più che di fronte a posizioni differenziate ci si trova di fronte a vere e proprie polemiche, spesso in gran parte dovute all'uso che è stato fatto della parola «principio». Nella scienza fisica essa è usata in un senso assai particolare e a prima vista può apparire che quello antropico se ne discosti sostanzialmente. Riteniamo che per molti aspetti ciò sia vero, tuttavia, se ci si riferisce alla mole di lavoro che la problematica sollevata da tale espressione è in grado cli proporre, l'espressione appare appropriata.

Ricordiamo che, sulla base di quanto la scienza ha finora prodotto, l'universo è fondamentalmente asimmetrico, per cui ha avuto un inizio e nel processo evolutivo ha prodotto la specie biologica da cui è sorta la sottospecie umana. Non si può rimanere indifferenti di fronte al fatto che con tale sottospecie, proprio in quanto essa stessa fenomeno cosmico, l'universo compie un atto di autocoscienza e autoconoscenza, si esprime attraverso manifestazioni artistiche, affettive e perviene a concetti fra i quali annoveriamo quelli del valore e quelli più astratti, filosofici, fino addirittura a quello di Dio. Da questo punto di vista la proposta di sostituire l'espressione di principio antropico con quello di principio della complessità appare inaccettabilmente riduttivo. Nell'evoluzione cosmica la complessità è giunta a un culmine con l'autoconoscenza insita nella persona umana. Senza pregiudicare altri possibili futuri sviluppi della complessità, l'attività umana ha tali caratteristiche da indurci a distinguere l'evoluzione della materia cosmica in tre fasi: quella della materia dominata dalle leggi generali della fisica e in particolare della seconda legge della termodinamica (rappresenta la stragrande maggioranza della massa), quella della materia cosmica che segue leggi biologiche (una frazione infinitesima) e quella della materia cosmica umana (una frazione ancora più piccola, inferiore a circa 10-20). Il principio antropico sottolinea la peculiarità di questa terza materia in maniera che ci appare insostituibile e necessaria.

Con ciò non dimentichiamo di dire che il principio antropico, inteso in senso finalistico nel quadro della teoria del big-bang, si trova di fronte al problema del tempo: perché l'universo è così congegnato che la specie umana scaturisce dopo un certo intervallo di tempo dall'atto di nascita dell'universo stesso? In altre parole, perché l'universo si costituisce in maniera evolutiva? Se l'uomo è il suo fine, l'universo non poteva essere altrimenti costituito? E ancora: la vita sui pianeti è destinata a scomparire non fosse altro che per effetto dell'evoluzione della stella centrale la cui durata è in ogni caso limitata. La cosmologia del big-bang in realtà nega la vita biologica non solo nelle fasi iniziali dell'universo, ma anche in quelle più avanzate, per le proibitive condizioni ambientali che finisce per realizzare a causa dell'evoluzione cosmica e stellare.

Alcuni scienziati ritengono che il principio antropico non abbia carattere scientifico in quanto incapace di predire e di sollecitare la ricerca. Riteniamo di concludere proprio in senso contrario: ha un notevole valore scientifico proprio perché inserisce il fattore uomo nella ricerca scientifica quale fatto cosmico di fondamentale importanza per le caratteristiche particolari con cui l'universo, attraverso di esso, si esprime e con tutta la problematica che solleva dal confronto con i dati ottenuti nelle diverse direzioni di ricerca; in particolare reclamando una cosmologia (il big-bang), la quale, oltre a render conto dei tanti elementi di significato cosmologico secondo la normale metodologia, renda conto anche del fenomeno umano, reinserendolo nel contesto cosmico dal quale, a partire dalla lettera a Madama Cristina e dal metodo scientifico che ne è seguito, è stato praticamente escluso.

Con tale inserimento riteniamo che il principio antropico rappresenti un importante passo avanti nell'ambito scientifico in generale sia di tipo astronomico e fisico, sia anche biologico; ne è un esempio lo stesso lavoro di Carter [B. Carter, in Phil. Trans. R. Soc. London, vol. 310 (1983) 347], anche se rappresenta a nostro giudizio un tentativo ben lungi dall'essere esaustivo.

 

Il principio antropico, punto d'incontro con la cultura religiosa

Come abbiamo detto, il principio antropico col suo presupposto finalistico va certamente oltre quelli che sono i limiti della metodologia scientifica. Tuttavia siamo convinti che quest'ultima non possa esaurire tutte le umane esigenze della conoscenza e che il principio antropico meriti l'attenzione dei filosofi e dei teologi. Citiamo a tale proposito l'interessante convegno scientifico internazionale che nel 1988 è stato tenuto, su iniziativa della Specola Vaticana, sul tema Fisica, Filosofia e Teologia, nel quale, fra i diversi argomenti trattati, c'è stato anche quello di Dio Creatore nella prospettiva degli attuali modelli cosmologici e del principio antropico [Physics, Philosophy and Theology A Common Quest for Understanding, a cura di R.J. Russell, W.R. Stoeger, G.V. Coyne, University Press, Notre Dame 1988].

Siamo certamente d'accordo nel sostenere che al Dio della fede non si giunge attraverso la scienza, ivi compresa la cosmologia e il principio antropico scientificamente inteso (cioè nella forma debole). Tuttavia esprimiamo l'opinione, sulla quale richiamiamo anche l'attenzione degli studiosi, che il teologo vede nello scienziato lo studioso dell'opera di Dio, per cui non possiamo non sottolineare come proprio questo studio, dopo il suo progressivo sviluppo durato tre o quattro secoli, è giunto a mettere in evidenza certi elementi strutturali caratteristici per i quali l'atto della creazione viene visto in una complessità d'interdipendenza fisico-biologico-umana che consente di dare una solida base scientifica a coloro che vedono la vita, e l'uomo in particolare, in un ruolo cosmico fondamentale. In tal modo la scienza offre un argomento particolarmente efficace al credente la cui fede, sostenuta dall'esegesi e dalla riflessione teologica, si basa indubbiamente sul Dio salvatore e redentore.

La razionalità religiosa ha discusso e discute tuttora il problema della creazione divina. Per quanto riguarda il problema se essa sia avvenuta nel tempo o fuori del tempo, riteniamo di sottolineare come la cosmologia relativistica, nel cui ambito viene visto il principio antropico, è concorde nel ritenere che nel momento originario si creano, con la materia, anche le categorie dello spazio e del tempo, per cui non possiamo fare a meno di ricordare la sofferta analisi di sant'Agostino e la sua soluzione: Dio ha creato il mondo col tempo, non nel tempo.

Per quanto riguarda invece il problema che si pone di fronte al perché dell'atto creativo cosmico, sia nella versione di un mondo unico sia nella versione dei molti mondi davanti alla quale potrà metterci la futura ricerca scientifica, è chiaro che in nessun caso il teologo avrà qualche motivo di mettere in dubbio l'aspetto finalistico ed escatologico che lo caratterizza e lo distingue con la sua metodologia teologica, esegetica e filosofica e il principio antropico ne costituirà sempre un'ottima conferma. Con ciò vogliamo sollecitare la non indifferenza del teologo e del filosofo di fronte ad alcuni problemi che la scienza pone alla riflessione religiosa.

Ci fermiamo qui, appena all'inizio di una riflessione sulla suggestiva ricchezza del principio antropico, esempio dell'incontro della cosmologia con la teologia, o più in generale della cultura scientifica con la cultura umanistica. Sicuramente ci sono ulteriori riflessioni da compiere. Ad esempio, nel caso di un universo singolo, come comprendere la vita nei pianeti, biologica e umana, possibile solo per il limitato tempo della vita media della stella centrale? Concludiamo la nostra riflessione invitando scienziati e teologi a considerare e a vivere tutta la problematicità dell'essere che non può venire inteso se non si supera la distinzione di fondo tra l'uomo e l'universo, come ci consente di fare il principio antropico con tutta la carica che si affaccia oggi sulla scena della cultura scientifica, della cultura umanistica e più in generale della cultura umana.

 


Da G.V. Coyne, A. Masani, Il principio antropico nella scienza cosmologica, «La Civiltà Cattolica» 1989, anno 140, 1-7-89, n. 3337, pp. 16-27