I. Premesse metodologiche - II. Criteri di lettura psicologica dell’atteggiamento religioso - III. Modelli interpretativi dell’atteggiamento religioso - IV. La religiosità come processo a più dimensioni - V. Religiosità e sistema motivazionale - VI. Verso un processo di formazione permanente alla maturità religiosa - VII. Nuovi movimenti religiosi.
I. Premesse metodologiche
La psicologia della religione prende in considerazione comportamenti e atteggiamenti che la persona o il gruppo qualificano come religiosi, perché collegati con la fede in un essere soprannaturale oppure con una visione della vita che non esclude la dimensione del sacro, e cerca di comprenderne i fattori motivazionali.
In quanto scienza positiva, fondata sullo studio delle costanti e delle variabili psicologiche dell’origine e della strutturazione dell’atteggiamento religioso, la psicologia della religione non rappresenta uno studio deontologico, concentrato sul dover essere della persona o su particolari esigenze morali cui far fronte, né uno studio razionale che deduca quali debbano essere le dimensioni di una religiosità “sana” o “autentica”, e neppure una psicologia dedotta da premesse teologiche, intesa cioè a descrivere e interpretare gli effetti sul comportamento umano dell’azione di fattori soprannaturali. Restando fedele al suo specifico e qualificato punto di osservazione, essa evita lo slittamento in un piano interpretativo che, facendole perdere l’assoluta e indispensabile autonomia, la trasformerebbe inevitabilmente in pseudo-scienza, a uso esclusivo della spiritualità.
Il carattere empirico, che segna profondamente la psicologia come scienza, fa sì che la metodologia seguita sia quella di studiare il vissuto psichico della persona, mettendone in luce i significati e le intenzioni latenti che fanno parte della religione vissuta e di cui i soggetti non hanno una chiara coscienza. E poiché in psicologia nulla si riconduce a una causalità lineare, tale studio del vissuto psichico tiene presente un duplice movimento che chiama in causa da un lato il peso delle scelte personali e dall’altro l’influsso del simbolismo religioso.
Va infatti sottolineato che la psicologia è convinta che la persona non è un puro essere razionale, e neppure un mero prodotto dell’ambiente e dell’educazione; in essa vanno riconosciuti rappresentazioni, interessi, dinamismi e processi autonomi che, incontrandosi con i simboli della religione e orientando a una loro interpretazione, contribuiscono alla scelta, di adesione o di rifiuto, operata da ciascuno nei confronti della dimensione religiosa. Ciò vuol dire che ogni persona vive la sua religiosità in corrispondenza a un vissuto psichico dalle ampie prospettive in cui entrano senz’altro come componenti centrali le realtà vissute nell’infanzia e le molteplici successive esperienze alle quali però, grazie alla fondamentale libertà con la responsabilità dell’esistenza ad essa legata, non viene assegnato un ruolo talmente determinante da non potersene distanziare, prendendo un atteggiamento maturo nei loro confronti.
D’altro canto la psicologia riconosce che l’atteggiamento religioso, segnato fortemente da caratteri storico-culturali e vivacizzato dal patrimonio delle tradizioni, ha come conseguenza che i simboli religiosi imprimono profondamente il loro suggello nello psichismo. Vissuta in un ambiente segnato da rapporti democratici, ad esempio, la religiosità risulterà diversa da quella vissuta in strutture dittatoriali. Così come, all’interno di un medesimo sistema socio-politico, l’atteggiamento religioso sarà puramente estrinseco se risulterà legato a una concezione ritualistica che sottolinea fortemente la necessità del consenso, oppure intrinseco, se rimanderà l’uomo a un costante superamento di sé, favorendo il suo porsi in relazione significativa con il trascendente.
Dall’assunzione dello sperimentabile e del vissuto psichico come punto di osservazione deriva il principio fondamentale che la psicologia della religione non è affatto competente a pronunciarsi sulla realtà o sulle proprietà del soprannaturale cui l’atteggiamento religioso si riferisce. Si tratta di una esclusione metodologica del trascendente con una duplice conseguenza. Per prima cosa, la psicologia della religione non si ritiene abilitata a dimostrare oppure a confutare le affermazioni propriamente religiose, e quindi si pone al di qua e al di fuori degli interrogativi di portata teologica riguardanti l’oggetto della sua indagine. Di conseguenza, dal suo punto di vista è di per sé irrilevante che il fenomeno di cui si afferma l’esistenza, e che viene chiamato in causa come forza motivante del comportamento religioso, esista in realtà. Lo psicologo, infatti, si limita alla formulazione di giudizi di valore psicologico, in quanto ritiene solo di essere in grado di avvicinarsi alla verità psicologica dell’atteggiamento religioso, di svelare i fattori che lo condizionano nel nascere, le motivazioni che lo dinamizzano, le intenzioni che lo animano, gli aspetti percettivi, affettivi, cognitivi e decisionali che lo caratterizzano, i conflitti che ne attraversano lo sviluppo, favorendolo o ritardandolo.
In secondo luogo, la psicologia della religione ritiene che non è possibile in alcun modo e a nessun titolo introdurre l’azione del soprannaturale per spiegare un determinato comportamento. Il credente, è vero, crede che lo spirito di Dio illumina la sua intelligenza e la predispone a comprendere le parole di Cristo. Inoltre, egli è convinto che la preghiera e i riti implicano la fede nell’azione divina, almeno nella forma della disposizione personale ad accettarla e a riconoscerne i segni di presenza. E, grazie a tale atteggiamento, riesce a spiegare non solo i fatti eccezionali (conversioni, esperienze mistiche, martirio), ma la fede stessa. La psicologia, però, può solo osservare questi dinamismi e queste credenze e tenerne conto, perché hanno anch’essi un evidente risvolto psicologico, ma non può cogliere il significato propriamente religioso degli enunciati di fede, in quanto essi nella prospettiva squisitamente psicologica non sono suscettibili né di verifica né di falsificazione empirica.
II. Criteri di lettura psicologica dell’atteggiamento religioso
Occorre allora indicare la criteriologia con la quale la psicologia accosta correttamente e onestamente i vissuti religiosi della persona. Un primo criterio nasce dalla considerazione che ogni singola azione ha come contesto tutte le altre azioni della persona, così come la persona con tutte le sue funzioni risulta essere in relazione con gli altri e con il tutto. Ciò vuol dire che a ogni comportamento è sottostante un’intenzione e, di conseguenza, ogni corretta interpretazione comporta l’esigenza di restare fedeli al significato intenzionaleche la persona le attribuisce. La materialità dell’atto conta sì, ma ben più importante è il cercare di comprendere ciò che la persona intende realizzare con esso, quali scopi vuole raggiungere, a quali altri comportamenti fa riferimento, quali dinamismi ne hanno favorito la scelta. E l’evidenziazione dei fattori motivanti a livello sia conscio che inconscio può avvenire solo attraverso l’incontro personale e mediante l’utilizzazione di strumenti e tecniche, quali, ad esempio, i test strutturati, semistrutturati o proiettivi.
Un secondo criterio emerge dal fatto che l’atteggiamento religioso non costituisce qualcosa di separato dall’insieme dell’esperienza umana, non è un’attività segmentale che si giustappone ad altre attività (operaio, sportivo, insegnante, credente), ma è collocata in un orizzonte di totalità e di integritàe costituisce — secondo la felice espressione dello psicologo americano G.W. Allport — una «concezione unificatrice della vita» (Allport, 1977, p. 256). Ne consegue che la persona credente dà un significato ultimamente religioso a tutte le sue attività (lavoro, sport, professione, impegno politico) e inquadra nella prospettiva religiosa le scelte che fa, i progetti che elabora, le limitazioni che evidenzia, tenendo ovviamente conto delle varie fasi della sua maturazione psicofisica.
Un terzo criterio è quello della dinamicità, secondo la quale ogni comportamento religioso “si fa” a mano a mano che si fa la persona stessa, è legato alla sua storia e, insieme, alla storia più vasta che interessa l’umanità intera e si riflette, con comprensibili diversificazioni, su ogni momento dell’evoluzione del singolo e del gruppo al quale appartiene. Ne deriva un duplice livello di manifestazione dell’aspetto evolutivo o genetico della religiosità. Il primo livelloè legato alla realtà attuale e pone l’accento sul fatto che c’è un’evoluzione che sembra seguire i ritmi cronologici della crescita psichica e sociale e legittima domande del tipo: una persona fisiologicamente non ancora sviluppata nella sua pienezza può essere ritenuta capace di un comportamento morale? è possibile essere “santi” quando si è ancora fanciulli o pre-adolescenti, e quindi con ancora un buon pezzo di strada da fare verso l’autonomia e la responsabilità? Il secondo livelloè legato alle “possibilità” e sottolinea in modo particolare il fatto che esiste anche un’evoluzione logica, non necessariamente cronologica, nella storia personale di ciascuno, in base alla quale si riconosce che è possibile andare verso forme sempre più mature di religiosità e accettare, di conseguenza, che ogni età può avere la sua “maturità”, che va continuamente superata.
Un quarto criterio emerge dal fatto che non si può pretendere di fare una lettura psicologica dell’atteggiamento religioso prescindendo dal significato culturale che esso assume in un determinato contesto storico. Diversi, per esempio, sono la genesi e lo sviluppo della religiosità individuale in un contesto culturale prevalentemente cattolico o in un contesto culturale prevalentemente islamico o buddhista; diversa è l’organizzazione religiosa in un momento storico che considera l’esperienza di fede come incontrovertibile punto di riferimento, oppure in un momento storico caratterizzato dal pluralismo culturale e dal dialogo inter-religioso; ben diversa è la dinamica religiosa in un paese che vanta una lunga tradizione con fondamenta nella dottrina dei Padri, da quella di un paese che ha visto realizzarsi l’annuncio del Vangelo solo in secoli recenti e presenta, quindi, un diverso spessore culturale e storico. La celebrazione eucaristica di un cattolico, per esempio, non è comprensibile a fondo se non si tiene conto della particolare rilevanza che essa riveste nella teologia cattolica come sacrificio di Cristo e della Chiesa. Come, del resto, non si potrà prescindere dalle attese sociali che si concentrano su tale vissuto in determinati contesti tradizionalmente religiosi. Diverso sarà, ovviamente, il caso in cui la società o l’ambiente sono ormai secolarizzati e non danno più rilievo a tali manifestazioni.
III. Modelli interpretativi dell’atteggiamento religioso
La psicologia in generale — e la psicologia dell’atteggiamento religioso come uno degli ambiti di approfondimento del vissuto umano — non è un campo uniforme dal punto di vista della ricerca o della teoria. Essa è un campo eterogeneo con diverse interpretazioni, ognuna delle quali si fonda su assunti di base che rappresentano un ben preciso quadro di coordinate culturali. A tale proposito è possibile parlare di “modelli” che, nella loro originalità e singolarità, offrono una lettura volta per volta nuova del significato psicologico dell’atteggiamento religioso.
Il modello psicodinamico, che affonda le sue radici nel pensiero di Sigmund Freud (1856-1939) e che però ha subìto notevoli variazioni attraverso successive elaborazioni, vede nel rapporto tra l’uomo e la religione la possibile ricerca di una figura illusoria che, dando protezione e sicurezza, si sostituisca alla figura paterna con la quale nei primi anni di vita si sarebbe instaurato un insanabile conflitto. Di conseguenza, l’essere religioso verrebbe a rappresentare una sorta di stampella per gente debole e zoppicante, bisognosa di essere liberata dal peso oppressivo e ossessivo di forme irrisolte di nevrosi.
Il modello sociale, invece, ponendo l’accento sulle forze sociali che influenzano in modo preponderante la maggioranza dei comportamenti e delle scelte di vita della persona, vede nell’atteggiamento religioso il risultato di buoni esempi di processi psicologici e sociali che operano nella vita reale e sottolinea volentieri il conformismo alle norme stabilite da un determinato gruppo. Il modello cognitivo, da parte sua, nasce dalla convinzione che la mente elabora delle informazioni prima di reagire materialmente ad esse, il che vorrebbe dire che la persona risponde al significato di uno stimolo, ossia all’interpretazione che ne dà, piuttosto che allo stimolo stesso.
Il modello umanistico-esistenziale parte dall’assunto che la persona è nata con un potenziale positivo verso la crescita, ossia con una tensione a divenire sempre più umana. Di conseguenza, l’accento è posto sul processo di maturazione e di crescita più che su uno stato finale statico, e l’atteggiamento religioso viene interpretato come una delle strade attraverso le quali è possibile giungere alla piena realizzazione di sé — secondo la prospettiva specifica di Abraham Maslow (1908-1970) — o del compito unico e originale della propria esistenza — secondo l’orientamento di Viktor E. Frankl (1905-1997).
Il modello transpersonale, infine, tende a superare i confini illusori dell’isolamento individuale e delle differenze di nazionalità, di cultura, di orientamento professionale e di personalità, andando verso una comprensione olistica e sistemica dell’esistenza secondo cui le realtà superiori sono esperibili solo soggettivamente, attraverso la creatività, l’amore cosmico, l’intuizione geniale, gli stati di illuminazione mistica.
IV. La religiosità come processo a più dimensioni
Negli ultimi cinquant’anni sono state condotte numerose ricerche, da parte di psicologi della religione, per concettualizzare e misurare il vissuto religioso, nella convinzione che esso non è riducibile a una sola dimensione, ma comporta un ampio e articolato spettro di dimensioni che possono essere raggruppate attorno a tre nuclei: la fede (sistema di convinzioni e di motivazioni), l’esperienza religiosa (coinvolgimento emotivo) e la pratica religiosa (ritualità e organizzazione sociale). Va però ricordata la precarietà di tali dimensioni nel rendere ragione della religiosità nel suo complesso. È possibile, infatti, che «gli individui potrebbero essere attivi in organizzazioni religiose non come espressione autentica della loro fede religiosa, ma solo come ricerca di amicizia, di contatti sociali, di prestigio, di affermazione del proprio sistema di valori […]. Viceversa, la stessa assenza di tali indicatori va interpretata con ambiguità: persone profondamente religiose, infatti, potrebbero non esibire nulla di tutto ciò» (Wullf, 1991, p. 204).
In tutta l’abbondante produzione scientifica di Gordon W. Allport (1897-1967) un posto di rilievo è riservato allo studio del sentimento religioso, e questo a livello sia personale che di relazioni interpersonali. L’indagine da lui condotta parte dalla considerazione di fenomeni tra loro contrastanti, quali la bontà, la crudeltà, l’autoritarismo, il pregiudizio e la tolleranza, che vengono giustificati in nome della religione. Per non restare nelle secche della sterile polemica, Allport ritiene allora che essi vadano compresi solo nella prospettiva della dialettica dell’atteggiamento religioso, che «è un continuum estendentesi tra il tipo di sentimento religioso dotato soltanto di significato strumentale o estrinseco in una vita ed il tipo di sentimento che è di per sé un motivo preminente nell’esistenza ed ha quindi un valore intrinseco» (Allport, 1985, p. 273). E un tale continuum abbraccia una serie infinita di modalità espressive di carattere religioso, dinamicamente compresenti, che non costituiscono categorie indipendenti entro cui un individuo si attesta, restandovi sempre e ovunque.
Per Allport, «estrinseca» è la religiosità vissuta come mezzo da usare per migliorare la sicurezza in se stessi, per regolare una certa modalità di vita, per raggiungere un qualunque scopo. Essa deriva dai bisogni infantili di sicurezza, di confronto, di difesa, di etnocentrismo e, come tale, non può non scadere in mentalità e concezioni utilitaristiche. «In termini teologici la persona estrinsecamente religiosa si volge a Dio pur senza distogliersi dal proprio io […]. In termini motivazionali il sentimento religioso estrinseco non è un motivo conduttore o integrale. Ne soddisfa altri: i bisogni di sicurezza, d’affermazione sociale, d’autoestimazione. In termini di psicologia dello sviluppo la formazione è immatura» (ibidem, pp. 274-275). Egli considera invece «intrinseca» quella religiosità che, vissuta più in profondità, riconosce che la fede ha valore in sé, trascende gli stessi individui, comporta sacrificio e impegno, rappresenta il motivo principale della vita. Si tratta di una religiosità maturante e propulsiva, dalla quale il soggetto riceve una carica verso un costante superamento di sé. «Non è fondamentalmente un artificio per vincere la paura, o una modalità di conformismo, o una tentata sublimazione del sesso, o un appagamento di desideri […]. È una tensione ed un impegno ad un’unificazione ideale della propria vita, ma sempre all’insegna di una concezione unificante della natura di tutta l’esistenza» (ibidem, p. 276). Tale tipo di religiosità aperta permette all’individuo di avvertire gli stimoli provenienti dall’esterno e di apportare, di conseguenza, trasformazioni a livello di personalità. In altre parole, la religiosità intrinseca provoca nella persona un’accettazione totale di sé da cui scaturisce una progressiva autotrascendenza. Essa, quindi, non solo sostiene interiormente l’uomo nel suo sviluppo, ma lo motiva a una vita religiosamente coinvolta e impegnata.
Volendo analizzare quale influenza esercitasse il coinvolgimento religioso di un individuo e quale peso avesse nella sua vita, Gerhard Lenski ritenne necessario innanzitutto indagare i diversi orientamenti religiosi riscontrabili nel mondo giudaico-cristiano e poi individuare le modalità di misurazione dell’impegno individuale nelle varie attività socio-religiose. La prima parte della ricerca gli consentì di mettere a fuoco numerosi orientamenti, tra cui «misticismo, devozionalismo, ascetismo, cerimonialismo, ortodossia dottrinale, millenarismo e moralismo» (Lenski, 1963 p. 24), ai quali risultano collegati vari modelli di pensiero e di azione. In maniera specifica egli si soffermò ad analizzarne due: l’ortodossia devozionale, che «enfatizza il consenso intellettuale nei confronti delle dottrine ordinate», e il devozionalismo, che «enfatizza l’importanza di una comunione privata, personale con Dio» (ibidem, p. 25). Partendo da tale quadro teorico, Lenski si dedicò allo studio delle misure mediante le quali è possibile cogliere il grado di coinvolgimento individuale in ambito religioso. La ricerca ne fece emergere in modo particolare due: il «coinvolgimento associativo», caratterizzato dalla partecipazione ai riti religiosi di una comunità e, più specificamente, alle sue attività istituzionali, e il «coinvolgimento affettivo», riferito alle interazioni che si realizzano all’interno di un gruppo primario (famiglia, amici), nella condivisione di un comune retaggio religioso e culturale. Dalle ricerche effettuate, emerse che «l’ortodossia e il devozionalismo non sono solo due misure alternative di religiosità, come spesso si pensa. Al contrario, sono orientamenti indipendenti […] ed ognuno di essi provoca conseguenze particolari nel comportamento degli individui» (ibidem, p. 26).
Robert O. Allen e Bernard Spilka, da parte loro, hanno elaborato un criterio di analisi che tiene conto di due variabili socio-psicologiche coinvolte nella relazione tra pregiudizio e religione. Si tratta, da un lato, dell’«atteggiamento consensuale», nel quale la religione «è verbalmente legata a valori e ideali “tradizionali”, che in realtà sono vaghi, non differenziati, neutralizzati o adottati in maniera selettiva», e, dall’altro, dell’«atteggiamento impegnato», che «utilizza una prospettiva astratta, filosofica, in cui le molteplici idee religiose sono relativamente chiare in ciò che significano e un flessibile quadro di riferimento le collega alle attività della vita quotidiana» (Allen e Spilka, 1967, p. 205). L’«atteggiamento religioso consensuale» rimanda, allora, all’adesione alle forme istituzionali socialmente accettate e si esprime nella carenza di valori religiosi, nel distacco dalla vita quotidiana, nella neutralità dinanzi a scelte radicali, nell’enfatizzazione di tratti concreti e letterali della fede, in credenze vaghe e intolleranti. L’«atteggiamento religioso impegnato», invece, indica un coinvolgimento personale e devoto nell’adesione ai valori religiosi, permea le azioni quotidiane, è profondamente radicato nei princìpi astratti della religione, alimenta un sistema teorico accurato, uniforme, ben organizzato, tollerante e non legato rigidamente a formulazioni dogmatiche.
Uno studio empirico consentì a L. Gorlow e H.E. Schroeder di «identificare una serie esaustiva di affermazioni con cui gli individui giustificano la loro partecipazione ad attività religiose» (Gorlow e Schroeder, 1968, p. 241). I fattori emersi furono sette: «umiltà servile verso Dio», che caratterizza quei soggetti che manifestano una relazione passiva con la divinità; «auto-perfezionamento», verso il quale sono orientati coloro che valutano l’esperienza religiosa nella misura in cui favorisce l’auto-comprensione, la conoscenza dei propri limiti e la liberazione dall’ansia; «ricerca di una guida familiare», che consenta di conseguire una sicurezza personale e indicazioni per la soluzione dei problemi quotidiani; «moralismo», riscontrabile in maniera specifica in coloro che sono eccessivamente servizievoli verso gli altri; «ricerca di Dio», ma non in atteggiamento di dipendenza, quanto nella prospettiva di una relazione attiva e maturante; «servizio di Dio con orientamento sociale», in cui è presente sia il desiderio di sperimentare Dio, il suo potere, il suo amore e il suo esempio, e sia di partecipare alla vita sociale insieme agli altri, condividendo con loro la propria fede; «intellettualismo religioso», secondo cui i soggetti valorizzano l’esperienza religiosa non tanto come rapporto personale con Dio quanto come ricerca intellettuale, focalizzata sullo studio e sul confronto teorico.
Per poter cogliere come un individuo percepisce le affermazioni e le rappresentazioni proprie della tradizione religiosa cui appartiene, R.A. Hunt è partito dall’analisi del linguaggio religioso, individuandone un triplice possibile atteggiamento. L’atteggiamento «letterale» è proprio di chi si impegna a condividere un’interpretazione letterale della religiosità, «senza esaminare la relazione esistente tra le affermazioni religiose cui aderisce e l’area cognitiva, tendenziale e affettiva della sua vita» (Hunt, 1972, p. 43). Si tratta, quindi, di un’accettazione incondizionata della dottrina religiosa tradizionale, facilmente misurabile con strumenti di indagine e di rilevazione. L’atteggiamento «anti-letterale» è quello che motiva il rifiuto per inconsistenza e per insignificanza dei valori sottostanti alla religione. Un tale rifiuto della fede nella sua interezza, collegato da Hunt a quello degli adolescenti nei confronti dei loro genitori, allorché sono preoccupati della propria identità, viene giustificato per la mancanza di conferme scientifiche. L’atteggiamento «mitologico» consiste nella possibilità di reinterpretare le affermazioni religiose al fine di individuarne significati più profondi al di là della pura e semplice espressione letterale. I soggetti che vi aderiscono sono in grado di operare una sintesi fra quanto è attestato dall’ortodossia religiosa e le esigenze del mondo contemporaneo, il che costituisce una forma matura di impegno.
Charles Y. Glock e Rodney Stark, infine, hanno ipotizzato la possibilità di individuare alcune aree generali, «pensate come dimensioni centrali della religiosità» (Glock e Stark, 1965, pp. 19-20). Dall’individuazione di cinque aspettative generali, presenti nelle istituzioni religiose nei confronti dei propri appartenenti, emersero altrettante dimensioni con le quali classificare le persone a seconda del loro grado di impegno e di coinvolgimento nella dinamica religiosa. Tali dimensioni risultarono avere un carattere universale, in quanto al loro interno è possibile ritrovare tutte le varie manifestazioni che caratterizzano le diverse religioni.
La prima dimensione individuata fu quella «esperienziale», che fa riferimento a tutta una serie di sensazioni, di percezioni e di emozioni, sia di un individuo che di un gruppo, derivanti dall’intreccio di una comunicazione con il trascendente. Si tratta, fondamentalmente, di stati d’animo che possono essere raggruppati attorno a quattro nuclei: interesse, o bisogno di far riferimento a un’ideologia che trascende il livello dell’immediatezza; cognizione, o consapevolezza dell’esistenza del divino; fede, o capacità di credere che la propria vita ha valore per Dio ed è nelle sue mani; paura, o atteggiamento di timore per il giudizio espresso nei confronti dei propri comportamenti. La seconda dimensione, quella «ideologica», è costituita dall’insieme di aspettative che il soggetto manifesta nei confronti dei contenuti di fede e che varia sia da religione a religione che all’interno della stessa tradizione di fede. Alla luce di tale dimensione il soggetto è anche in grado di riconoscere la validità e l’attendibilità delle varie credenze religiose. La terza dimensione è quella «ritualistica» e concerne tutte le pratiche religiose che il credente è chiamato a compiere e che riguardano il culto, l’adorazione della divinità, la preghiera o la partecipazione ai sacramenti. Essa può presentarsi come pratica rituale, se si riferisce a riti cui sottoporsi necessariamente per poter definire la propria appartenenza, oppure come pratica devozionale, se ha come oggetto le pratiche religiose informali, spontanee e private. La quarta dimensione è quella «intellettuale» e si riferisce a quelle aspettative secondo cui la persona credente dovrebbe possedere un minimo di informazioni circa le credenze fondamentali della propria fede, dei propri riti, delle proprie tradizioni, dei propri testi sacri. Ovviamente, ciò non vuol dire che dalla conoscenza scaturisca automaticamente la fede, né che quest’ultima porti alla conoscenza: è, infatti, possibile che un credente sia poco informato sui contenuti della sua fede, pur accettandola pienamente e vivendola attivamente. Piuttosto, essa permette al soggetto di far fronte alle esigenze di confronto che con sempre più frequenza gli vengono presentate da messaggi e opinioni di fonte diversa, per rispondere così alla necessità di un corredo culturale che dia dignità e spessore significativo al proprio sistema di convinzioni. La dimensione «consequenziale», infine, si identifica con gli effetti che sono riscontrabili nella vita quotidiana, nelle decisioni esistenziali, nella disponibilità al servizio degli altri e nell’attuazione di norme morali, nell’accoglienza di prescrizioni e di comportamenti socialmente accettabili.
V. Religiosità e sistema motivazionale
Dall’insieme delle ricerche, e dalle applicazioni che molti studiosi ne hanno fatto in contesti culturali diversi e differenziati, emergono tre punti particolarmente significativi: è ampiamente confermata la natura multidimensionale della religiosità e la presenza in essa di numerose variabili, nonostante il legame con i diversi modelli interpretativi disponibili; i nuclei caratterizzanti riguardano il sistema di convinzioni e di motivazioni esistenziali, il coinvolgimento emotivo e la ritualità in un concreto contesto socio-culturale; la dimensione consequenziale, di tipo sia modale che sociale, viene considerata piuttosto una variabile dipendente che non una parte integrante del concetto di religiosità, in quanto le conseguenze sociali e morali derivano dal fenomeno religioso, ma non lo costituiscono.
Il nucleo centrale della religiosità è comunque rappresentato dal sistema motivazionale, che determina la direzione e l’intensità della condotta di un soggetto, iniziando, orientando e sostenendo nel tempo la ricerca di risposte adeguate agli interrogativi circa il senso della propria esistenza e facilitando una selezione progressiva tra le varie ipotesi prospettate. Per alcuni fare un’esperienza religiosa vuol dire andare alla ricerca di risposte rassicuranti dinanzi alle frustrazioni dovute sia all’inibizione prodotta dalla società, sia all’inesorabile legge del destino e della morte, sia alla fatalità legata a una natura cattiva e malefica. Per altri rappresenta il tentativo di difendere, attraverso l’incoraggiamento del gruppo di appartenenza, un sistema di comportamenti e di scelte morali che sembrerebbe minacciato in un contesto sociale che annulla o stravolge tutti i valori che in precedenza garantivano e custodivano l’umanità. Per altri ancora è una risposta alla curiosità intellettuale che, mai sufficientemente appagabile né appagata, vorrebbe individuare le risposte precise sul da farsi nel concreto di ogni giorno, oppure cercherebbe elementi di sostegno e di conforto a proprie personali ipotesi interpretative, siano esse a favore che contro l’intervento del divino. Non mancano poi coloro che nella religione cercano un rifugio dinanzi all’angoscia che li tormenta e che scaturisce dal vivere situazioni di emarginazione, di isolamento, di rifiuto familiare, di depressione: in tali casi l’unica cosa che sembra necessario fare è quella di implorare la protezione dell’Onnipotente, compiere riti per scongiurare l’angoscia di colpevolezza, individuare un ordine gerarchico per poter sussistere, tuffarsi nell’eternità della beatitudine per esorcizzare la paura.
Ma c’è un altro ordine di motivazioni che rende l’esperienza profondamente ricca e fattore di crescita autentica. Essa emerge allorché la persona si pone con l’orecchio e il cuore attenti al grido che da tante parti si leva attorno a sé e si domanda che cosa può e deve fare per dare una risposta di speranza. Ciò comporta operare un profondo autodistanziamento da sé, dal proprio mondo quotidiano, dalle preoccupazioni che sono legate al lavoro, alla politica, allo sport, alle convenzioni sociali. E nello stesso tempo comporta anche un mettersi alla prova, un verificare le proprie capacità, uno sperimentare la possibilità di una rinuncia in vista di un servizio disinteressato e gratuito. Dal punto di vista psicologico, allora, la risposta religiosa agli interrogativi esistenziali potrà benissimo richiamare bisogni inconsci di espiazione, di distrazione, di fuga dal proprio mondo, di pura curiosità intellettuale, di passivo adeguamento a mode oppure a pressioni ambientali o familiari. In tal caso, però, prima o poi, essa manifesterà la sua fragilità e risulterà essere un ostacolo e, in certi casi, un fattore di immaturità e di regressione a stati di dipendenza infantile, oppure sarà considerata qualcosa di inutile, di insignificante, di superfluo. Essa, però, potrà benissimo essere l’espressione di una visione della vita come “compito aperto”, una vita cioè disposta al confronto e orientata alla novità, capace di cogliere le domande che si levano di continuo dal quotidiano, in una prospettiva di estensione di interessi e di assunzione di responsabilità. In tal caso, Dio e la fede non si presenteranno come compagni di viaggio che castigano o promettono surrogati di felicità e di benessere, ma saranno occasioni di sviluppo nel rispetto dei propri personali ritmi di crescita e additeranno orizzonti di impegno e di senso dai quali ricevere forza per percorrere un altro pezzo di strada. E l’atteggiamento religioso non si porrà in contrapposizione a fattori condizionanti, oppure a traumi infantili, oppure a circostanze sfavorevoli, ma subirà un’ampia trasformazione che lo renderà autonomo e specifico, sorgente di benessere, energia liberante e slancio amoroso.
VI. Verso un processo di formazione permanente alla maturità religiosa
Il lungo percorso attuato nella differenziazione delle diverse componenti che entrano in gioco per la formazione della religiosità umana porta necessariamente a chiedersi in quali termini tale aspetto così essenziale della vita umana possa raggiungere una sua maturità, ma soprattutto se esista una maturità religiosa.
A partire da quanto ha affermato Allport, sono pochi gli individui che possono vantare una propria maturità religiosa, poiché per la maggior parte di essi i valori religiosi non si integrano sufficientemente nei sistemi della propria personalità ma esprimono piuttosto un comportamento “altro”, diversificato e staccato dalla vita e dai quadri valoriali in essa assunti. Da parte sua, Freud riteneva che la religione rivestisse addirittura un significato perverso e nevrotico, mentre Jung, partendo dalla sua esperienza clinica, evidenziò il collegamento della maggior parte delle situazioni nevrotiche con problematiche di ordine religioso, di una religiosità però legata agli archetipi religiosi e ad elementi dell’inconscio arcaico e collettivo, piuttosto che al senso di responsabilità personale.
Pur tenendo presente la rilevanza dell’interrogativo circa la possibilità della maturità religiosa, è importante in questo contesto inquadrare il problema dal punto di vista processuale. Se da una parte la maturità religiosa può essere espressa attraverso contenuti che permettono all’individuo di rilevare o meno il suo raggiungimento, dall’altra esiste un ambito che non può essere misconosciuto, ed è quello del “come”la persona arriva a maturità nella sua religiosità. In altri termini, si può parlare del “perché”una persona è o non è matura religiosamente, e questo porta soprattutto a sviluppare i contenuti di tale maturità, semmai essa viene raggiunta. Ma ci si può anche riferire alle dinamiche che sottendono a tale sviluppo e che riguardano la vita della persona con le diverse tappe evolutive che attraversa. In tal caso l’approccio multidimensionale della religiosità risulta utile (anche se non è l’unico) per affermare che il vissuto religioso della persona è in sviluppo, sin dalla tenera età. Ed è quello che conta.
In tal caso, parlare di maturità religiosa significa guardare a come il concetto di sacro si evolve nelle diverse dimensioni, integrate in una globalità che si esprime lungo tutto l’arco della vita della singola persona, nel suo proprio contesto e attraverso modalità che si differenziano da individuo a individuo, e da cultura a cultura, giungendo all’elaborazione di un’ipotesi esplicativa delle proprie difficoltà esistenziali nell’appello al “radicalmente altro”. Senza nulla togliere all’importanza della religiosità istituzionale e dogmatica, tale prospettiva eminentemente psicologica può rivelarsi utile per delineare alcune caratteristiche facilmente riconoscibili in base alla letteratura che ha trattato tale argomento e permette di andare oltre il problema dell’esistenza o meno di una maturità nel campo della religione, assegnando invece priorità a ciò che c’è, e cioè un continuum di religiosità in cui ogni persona si riconosce in base all’integrazione delle diverse componenti psicologiche che concorrono a renderla potenzialmente religiosa.
L’uomo non può fare a meno della religione, non soltanto quella professata e costituita, ma soprattutto quella silenziosa e soffusa, sottesa ai suoi comportamenti e alle diverse forme di acculturazione religiosa cui sottostà. Interpretare la “religiosità matura” della persona comporta, dunque, il riferimento costante agli elementi che si rendono evidenti nel corso del suo sviluppo, e quindi alle diverse dimensioni che concorrono alla formazione del senso del sacro. A tale proposito, la psicologia della religione insegna a considerare l’individuo come un essere in formazione, i cui atteggiamenti riferiti all’Assoluto non si dissociano dalla formazione della sua personalità. Allo stesso tempo sottolinea che l’approccio multidimensionale consente di differenziare i diversi aspetti che concorrono alla religiosità della persona, senza escludere il processo di integrazione di una struttura di base del fenomeno religioso (Hyde, 1990, p. 342).
In questo modo si vuole indicare che il continuum di religiosità, in cui ogni persona riconosce un proprio vissuto religioso in formazione, fa da sfondo alle diverse angolature che vi concorrono (a livello cognitivo, emozionale, motivazionale, ecc.), in quanto aspetti differenti che stipulano un processo di costituzione del vissuto religioso che appartiene a questo o a quell’individuo, con il bagaglio psicologico nonché culturale che egli possiede. Ma comprende anche l’aspetto “tendenziale”nel quale tale continuum si muove, cioè la tensione con cui questo movimento di progressiva maturità volge a integrare le diverse parti in un tutt’uno organico. Aspetti, questi, che devono contemporaneamente essere tenuti presenti per un’interpretazione dinamica e non statica di quella che può essere definita una formazione permanente alla maturità religiosa. Infatti, «una religiosità matura non è fissata su strutture definitivamente compiute. Essa rimane sempre un “compito aperto” per l’individuo. Originata e sviluppata essenzialmente sul rapporto dialettico tra elementi complementari dell’esperienza umana, la religiosità matura [...] si sente necessariamente tesa verso verità più grandi ed esaustive; essa accetta apertamente il rischio della ricerca» (Milanesi e Aletti, 1977, p. 235).
Come per Piaget (1896-1980) ogni fase dello sviluppo cognitivo del bambino è sufficiente perché si possa parlare di maturità ad esso relativa, parimenti per il processo generale di maturazione religiosa della persona si può dire che partecipa delle singole maturità che si avvicendano man mano che il soggetto cresce, e allo stesso tempo le trascende, integrandole verso una maturità superiore che non può essere soltanto quella idealistica di una religiosità irrealizzabile, perché Dio propone cose non irrealizzabili per entrare a contatto con lui, ma relative alla tensione interiore di cui ogni persona può essere consapevole, e che quindi può assumere, nell’apertura ai misteri dell’assoluto. Una delle conseguenze di questo atteggiamento proattivo è quella di rilevare nella religiosità presente la propria storia passata di crescita e di sviluppo del vissuto religioso. «Il carattere di globalità si estende anche nel tempo; una religiosità matura è quella che integra nell’attuale atteggiamento anche tutta la precedente storia religiosa e psichica del soggetto» (Milanesi e Aletti, 1977, p. 234).
Ciò comporta due attitudini positive nei confronti della religiosità: anzitutto si prende in considerazione il “qui e ora” del vissuto religioso, come espressione dell’attitudine di fondo dell’individuo e come prerogativa per un rapporto di relazionalità attuale e reale con l’assoluto; e poi si constata che la religiosità comprende un processo più ampio di quello del momento presente. Essa, infatti, abbraccia l’intera vita dell’individuo, con uno sguardo retroattivo a tutto lo sviluppo avuto sin da quando ha appreso le prime preghiere dai genitori e con una tensione verso il futuro attivo del suo rapporto con Dio. Per cui, se la fede della persona si presenta immatura e non sufficientemente satura di informazioni adeguate al livello istituzionale, o se essa è povera delle pratiche cultuali proposte a una determinata età, ciò non vuol dire che la persona non abbia un suo vissuto religioso che le permetta un proprio livello, presente ma anche futuro, di relazione con Dio. Definire allora una fede come più immatura rispetto a un’altra vorrebbe dire assumersi la responsabilità di giudicare il vissuto di relazionalità che appartiene all’altro come persona e all’altro come assoluto.
Affermare che presente e passato si integrano nel vissuto attuale dell’individuo, in vista dell’aspetto intenzionale e proattivo della sua religiosità, sta a indicare un tipo di lettura utile per interpretare tale religiosità a qualsiasi livello e in qualsiasi periodo della vita. Così come il bambino non risponde ai criteri di istituzionalità e di comprensione previsti dalle agenzie di formazione religiosa, perché è incapace di valutare e di giudicare l’altro in maniera intenzionale, così come l’adolescente non riesce ad essere continuativo nelle sue espressioni di fede, ma si lascia attrarre dalla sicurezza del credo religioso familiare e dall’incertezza del credo aggregativo, così come l’individuo mentalmente ritardato vive una sua religiosità rispondente al proprio quadro cognitivo‑emotivo‑motivazionale, così come ogni età ha un livello di espressione della propria religiosità, allo stesso modo ad ogni momento corrisponde una tensione di maturità intrinseca che fa capo alle diverse dimensioni che concorrono alla «religiosità globale»della persona. In altri termini, «la religiosità si presenta come una condotta complessa nella quale vengono integrati tutti i livelli e le fasi della condotta stessa» (Milanesi e Aletti, 1977, p. 229).
E allora è qui che si ritrova il focus della religiosità totale, che corrisponde all’integrazione di varie componenti in sviluppo, debitamente formulate in vista di un progresso che sia veramente a misura d’uomo. Si può, quindi, concordare con Hyde quando afferma che c’è un tipo di maturità previsto dal livello di conoscenza religiosa a cui si rifanno le differenti agenzie di formazione religiosa (scuola, catechismo, ecc.), e c’è un tipo di maturità previsto dalle diverse espressioni di appartenenza religiosa a seconda delle diverse confessioni. Ma si può anche considerare la maturità che deriva dalla capacità progettuale e motivazionale dell’individuo adulto, anch’essa in continua evoluzione perché rispondente alla tensione che egli ha verso un miglioramento della propria condizione, e al quale la religiosità partecipa a pieno titolo (cfr. Hyde, 1990, pp. 342‑343).
Ne deriva che il movimento processuale è la griglia di interpretazione privilegiata per cogliere il fondamento della religiosità nel quadro dello sviluppo personale. Analizzare tale processo vuol dire tener presente l’armonicità dello sviluppo della personalità di ciascuno, non soltanto dal punto di vista funzionale, come potrebbe accadere se ci si riferisse a una maturità statica più o meno raggiungibile dagli individui, ma soprattutto dal punto di vista “tensionale”. La persona religiosa, allora, sviluppa passo passo ciò che vive del suo rapporto con Dio al momento presente, includendovi la storia passata e proiettandola in un progetto futuro di sviluppo religioso che “tende verso”, nel senso che non è limitabile da alcun frammento culturale e psicologico che ne influenzi il corso, ma che piuttosto si arricchisce dei diversi contributi che concorrono a renderlo come veramente religioso. La tensione verso un traguardo pur sempre raggiungibile, perché consono a dimensioni psicologiche che caratterizzano ogni individuo, rappresenta la griglia di interpretazione dei processi evolutivi che caratterizzano lo sviluppo della sua religiosità. A tale proposito è significativo passare in rassegna alcuni aspetti che risultano particolarmente importanti nell’economia del processo di maturità religiosa.
Alla base di tutto va rilevata una tensione proattiva che permette alla persona di identificare dentro di sé un insieme di fattori che concorrono ad affermare l’intenzione a “essere”religioso piuttosto che a fare e a “consumare”la religione. Il riferimento, a tale proposito, va a ciò che Allport identifica come «sentimento religioso»,definito come una «disposizione, costituitasi attraverso l’esperienza, a rispondere favorevolmente ed in determinati modi abituali agli oggetti e principii concettuali che l’individuo considera come d’importanza suprema nella sua vita personale e come correlati con ciò che egli reputa permanente o centrale nella natura delle cose» (Allport, 1985, pp. 116‑117).
Ciò sta a indicare che il processo in evoluzione ha un oggetto di valore, che è dato dal fatto religioso come esperienza appartenente all’individuo che si relaziona con l’assoluto, ed è caratterizzato dallo sviluppo di un’intenzionalità intesa a dare spazio all’individuo come protagonista di religiosità. La persona è intenzionalmente orientata a vivere la religiosità come parte integrante della propria esistenza, pur se con modalità diverse a seconda delle proprie fasi di sviluppo, nella misura in cui cerca di individuare delle risposte soddisfacenti alle domande di senso che la vita le rivolge di continuo. Va però tenuto presente che per «risposte religiose» non si intendono i contenuti che un certo comportamento o una certa comprensione della religiosità possono esigere (il che riporterebbe nell’ottica di una misurazione quantitativa della maturità religiosa), ma i diversi «contenitori» in cui lo sviluppo di intenzionalità religiosa prende corpo.
Prerogativa indispensabile perché il processo di “religiosizzazione” sia veramente rispondente a questo criterio intenzionale è la consapevolezza che la persona ha, e acquisisce man mano sempre più, delle proprie risposte religiose in formazione, da essa confrontate con le diverse esperienze della propria vita. La presa di coscienza di questi diversi “contenitori” di religiosità indica il desiderio di appropriazione delle differenti tappe lungo le quali la religiosità si sviluppa e l’elaborazione del cammino futuro a cui la percezione del sacro tende. I giovani che riservano alla religiosità un aspetto frammentario e settoriale non sono giovani che rifiutano la religione (la maggior parte delle ricerche ha confermato questo risultato, che cioè le persone non rifiutano il fattore religioso nella propria esistenza), ma sono giovani che piuttosto faticano ad “essere consapevoli”di questo movimento religioso presente in loro (cfr. Mion, 1993). Altrettanto va detto per le altre situazioni in cui si stenta a rilevare espressioni palesi di religiosità, o che comunque non sono differenziate in maniera sufficiente perché vengano fatte rientrare entro i canoni previsti di maturità religiosa.
La presa di coscienza, allora, diviene la strategia fondamentale di un processo intenzionale entro il quale si muove la formazione permanente della maturità religiosa. In questo caso, fa da sfondo anzitutto la presa di coscienza delle diverse dimensioni che concorrono a tale sviluppo: i propri desideri, i propri sentimenti, le proprie emozioni, le influenze esterne, ecc. L’insieme di tale consapevolezza, intesa come globalità differenziata, permette alla persona di non dissociare il vissuto religioso dalla propria esistenza globale, e allo stesso tempo le offre un’occasione concreta per “agire” la religiosità (carattere consequenziale della maturità religiosa), per sentirsi coinvolta e quindi per scegliere comportamenti, sentimenti, cognizioni, ecc. che siano veramente rispondenti alla propria individuazione rispetto all’altro‑diverso‑da‑sé.
Sembra una cosa logica che la consapevolezza porti a una capacità di contatto con la realtà. Eppure, non sempre è così. Lo dimostra il fatto che la gente spesso “possiede” questo bene prezioso che è il proprio vissuto religioso senza esserne consapevole, per cui lo sotterra come un talento inutile o troppo importante per rischiare di sprecarlo. Molte volte il risultato di una concezione funzionale della propria religiosità, in cui i riti e le azioni della pratica ecclesiale sono la preoccupazione principale perché tutto sia fatto secondo le prescrizioni (non soltanto istituzionali ma anche inconsce), disincanta la potenzialità religiosa che ogni persona possiede, in quanto creatura umana, e tende a determinare vissuti di dipendenza dal proprio Dio.
La religiosità intenzionale, invece, comprende un pieno “contatto con”, piuttosto che una condizione di fusionalità con l’assoluto. In termini psicologici tale fattore si sviluppa essenzialmente attraverso una condizione di individuazione della consapevolezza di sé rispetto a ciò che è compreso al di fuori dei propri confini. Il contatto con il “totalmente altro da sé” costituisce una fase attiva lungo la quale l’individuo realizza la sua rete di comunicazione, ovviamente non soltanto a livello verbale, con l’ambiente esterno. Si tratta dell’instaurazione non tanto di un contatto stabilito, ma del contatto come processo continuo in cui l’individuo prende coscienza di sé, dei propri limiti funzionali, nonché delle diverse dimensioni in sviluppo, e canalizza la propria attenzione sull’altro. Questo movimento positivo di religiosità si fonda sul presupposto che la persona in contatto con il proprio sviluppo religioso globale sia in grado di riconoscere Dio (nel senso di conoscere di nuovo, ogni volta che il continuum di religiosità si ripropone come processo di continua crescita della persona nelle diverse dimensioni) come l’Altro con la A maiuscola, il Dio-con-noi, l’Altro‑fondamentale della propria esperienza umana.
Il passaggio dall’Io al Tu come diverso‑da‑sé, come espressione del passaggio dall’eteronomia all’autonomia del proprio senso del sacro, rappresenta un po’ il nucleo centrale di questo processo di formazione religiosa, in cui il contatto diviene una modalità di interazione con se stessi e di riconoscimento dell’altro per individuare le potenzialità nascoste in ciascuno. Tale processo, che attraversa l’intero arco della vita, è la premessa fondamentale perché lo sviluppo della religiosità sia effettivamente autonomo, pur essendo arricchito dai diversi condizionamenti. Ovviamente, come tale movimento di maturazione non si limita a un solo periodo e tanto meno a una sola dimensione, esso presuppone anche la direzione verso cui il senso religioso dell’individuo tende. Riconoscere cioè l’alterità, intesa come indirizzo fondamentale della maturità umana, oltre ad essere costitutivo di ogni riconoscimento psicologico che la persona compie, rappresenta il luogo privilegiato con cui il soggetto religioso si mette in relazione e arricchisce tale rapporto con il proprio vissuto profondamente umano e allo stesso tempo profondamente divino. Definire allora la maturità religiosa a partire dall’aspetto processuale con cui si presenta nella vita degli individui obbliga a riconoscere il “già” e il “non ancora” con cui nel tempo presente ogni persona vive un rapporto coinvolgente con Dio a livello multidimensionale, ben cosciente che ogni dimensione costitutiva della psiche umana contribuirà ad accrescere il senso della propria religiosità in sviluppo.
E resta ancora valido quanto formulato da Strunk il quale, comprendendo la molteplicità di questa interpretazione di maturità religiosa, riteneva che la religione in formazione permanente «è un’organizzazione dinamica di fattori cognitivi, affettivi, conativi che possiedono certe caratteristiche di profondità e di sublimità, incluso un sistema di credenze altamente consapevole e articolato, purificato attraverso processi critici dai desideri infantili, intensamente perseguito e abbastanza comprensivo da fornire un significato positivo per tutte le vicissitudini della vita. Tale sistema di credenze, benché orientato alla ricerca, includerà la convinzione dell’esistenza di un Potere superiore, verso cui la persona può sperimentare un senso di amichevole continuità; convinzione fondata su esperienze “ricevute” e ineffabili. La relazione dinamica tra questo sistema di credenze e questi eventi sperimentali genera sentimenti di ammirazione e di timore, un senso di unità con il tutto, umiltà, entusiasmo, libertà; e con grande incisività determina il comportamento responsabile dell’individuo in tutte le aree di rapporti personali e interpersonali, incluse le sfere della moralità, dell’amore, del lavoro e così via» (Strunk, 1965, pp. 144‑145).
VII. Nuovi movimenti religiosi
In anni recenti la psicologia della religione sta rivolgendo il suo interesse verso l’interpretazione di tutte quelle forme religiose, aggregative e non, definite Nuovi Movimenti Religiosi, a volte di difficile catalogazione e dall’incerto retroterra dottrinale, il cui sorgere è dovuto sia alle aperture al mondo orientale che al maggior contatto con il mondo statunitense. Fino a qualche anno fa per una loro comprensione veniva utilizzato, sia pure con un’accentuazione piuttosto dispregiativa, il termine «setta» che, derivato dal verbo latino sequor, indica una dottrina, un insegnamento o un partito che si rifanno a un capo fondatore, la cui personalità attira numerosi seguaci che si sentono fra loro legati da un forte senso di aggregazione e di appartenenza. Con una certa frequenza si è fatto anche riferimento al supino sectum del verbo secare, per indicare nella setta un gruppo che si è staccato dal tronco principale di una delle grandi religioni, contestandone la dottrina e le modalità istituzionali.
Occorre, però, distinguere bene tra quei Movimenti che fanno riferimento a nobili e consolidate tradizioni religiose dell’Oriente, e in maniera particolare all’induismo e al buddismo, e quei Movimenti che, senza alcun riferimento dottrinale, oppure in evidente contrapposizione ad altre dottrine religiose ampiamente diffuse e accettate, manifestano un rigido atteggiamento fondamentalista. Il fenomeno della rapida diffusione dei Nuovi Movimenti Religiosi ha, indubbiamente, rilevanza dal punto di vista sociologico, ma ancor più dal punto di vista religioso e psicologico. Sociologicamente, gli appartenenti ai Nuovi Movimenti Religiosi manifestano una doppia caratterizzazione, dovuta soprattutto alla straordinaria varietà di forme aggregative: da un lato, infatti, a motivo dell’assenza di riferimenti istituzionali, essi si presentano come tendenzialmente universali, orientati all’accoglienza di qualsiasi proposta, pronti a intraprendere cammini di scoperta della propria interiorità, capaci di sottoporsi a pratiche igieniche e salutiste pur di raggiungere un buon livello di benessere; dall’altro, si caratterizzano come una minoranza dissidente, con comportamenti di intolleranza e di proselitismo, con una visione talvolta ristretta dei rapporti interpersonali e una notevole carica di fanatismo, che li porta a isolarsi dal contesto sociale e a rifiutare qualunque rapporto con chi non ne condivide le convinzioni religiose.
Dal punto di vista religioso, i Nuovi Movimenti Religiosi prendono le distanze dalle grandi religioni e, autodefinendosi come forme religiose autonome, fondate da un capo carismatico, elaborano una propria visione “teologica” della vita e della storia, oltre che un rapporto spesso infantile con il trascendente, così da escludere qualsiasi atteggiamento di dialogo interreligioso e qualsiasi apertura al confronto dottrinale. Dal punto di vista psicologico, l’obiettivo va rivolto alle dinamiche personali presenti in un individuo che decide di entrare a far parte di un Nuovo Movimento Religioso e ai bisogni che sembra vengano soddisfatti da tale nuova adesione. Dagli studi effettuati risulta che questi gruppi promettono la liberazione dell’uomo dai condizionamenti negativi, dalle malattie, dall’infelicità, dai problemi esistenziali, dalle delusioni sentimentali, dal disagio psicologico individuale o familiare. Nello stesso tempo, offrono calore umano, attenzione, accoglienza, fiducia, comprensione, amore. La presenza inoltre, quasi generalizzata, di un leader, di un capo spirituale, più spesso di un guru o di un maestro, cui ogni membro deve far riferimento in ogni momento della vita, appare finalizzata tanto all’individuazione di risposte, spesso prefabbricate, agli interrogativi esistenziali quanto alla coesione di gruppo. Notevole è anche la presenza di controllo sociale reciproco, basato sull’adesione acritica a princìpi dogmatici, a condotte istituzionali, a rigide gerarchie interne, a complessi riti di ammissione e di iniziazione, a costanti verifiche dell’impegno e del proselitismo.
Non mancano i punti critici in merito all’adesione a un Nuovo Movimento Religioso: la carica emotiva relativamente alta che si respira all’interno di un gruppo ha come conseguenza la diminuzione dell’interesse per altri contatti sociali e la creazione di una rete a maglie strette, che spesso si trasforma in una corazza condizionante; la mancanza di un retroterra storico e culturale e l’esclusivo rimando al vissuto esistenziale del “momento” e ai bisogni ad esso collegati impediscono una lettura critica delle origini del movimento di appartenenza; l’accento che ripetutamente viene messo sulla crescita interiore e su una pseudo-perfezione da raggiungere attraverso tecniche e metodologie spesso alienanti pone a tal punto il singolo individuo al centro delle proprie preoccupazioni da rendere inevitabile la ricerca di un prestigio sociale e di un’affermazione di sé. L’uscita da un Movimento, infine, molte volte resa difficile da minacce sia verbali che fisiche, è legata a grossi sensi di colpa per aver deciso di tagliarsi fuori in maniera definitiva dalla salvezza.
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