In questo intervento, il card. Camillo Ruini propone una sintesi del pensiero di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI sul rapporto fra fede e ragione. Il discorso tocca alcuni aspetti del ruolo che il pensiero scientifico ha giocato nel mondo occidentale, esercitando una specifica mediazione nell’accoglienza o nel rifiuto della fede cristiana. In particolare, si analizzano le mediazioni filosofiche operate dallo scientismo e dal darwinismo al momento di generare una visione totalizzante della realtà, dalle dichiarate conseguenze anche sul piano etico, con la quale la fede cristiana deve oggi confrontarsi.
1. Alcune premesse
Una caratteristica del magistero di Benedetto XVI è il suo grande impegno per la questione della verità della fede cristiana, nell’attuale situazione storica e in rapporto alle forme di razionalità oggi prevalenti. Nel linguaggio della teologia, potremmo dire che il Papa affronta, col suo stile e in maniera innovativa, la questione centrale dell’apologetica, o – come si preferisce dire oggi – della teologia fondamentale.
Scopo di questa relazione non è, evidentemente, approfondire queste problematiche, e nemmeno farne una presentazione completa, ma soltanto introdurre in esse, offrendo alcune principali linee di orientamento e chiavi di interpretazione, alla luce sia del magistero di Benedetto XVI, in particolare del discorso del 12 settembre 2006 all’Università di Regensburg e di quello del 19 ottobre al Convegno di Verona, oltre che dell’enciclica Deus caritas est, sia del suo precedente lavoro di teologo. Tra i suoi tanti libri importanti, mi riferisco principalmente alla Introduzione al Cristianesimo, edito dalla Queriniana (d’ora in poi Introduzione), e alle due raccolte di saggi Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, pubblicata da Cantagalli nel 2003 (d’ora in poi Fede), e L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, pubblicata nel 2005 anch’essa da Cantagalli (d’ora in poi L’Europa), perché questi tre libri sono più direttamente attinenti al nostro tema. Infatti, sebbene Benedetto XVI abbia grande cura di distinguere tra il suo magistero di Pontefice e il suo lavoro di teologo, come egli stesso afferma nella prefazione, anticipata alla stampa, del suo libro Gesù di Nazareth atteso per la primavera prossima, vi è pur sempre una profonda corrispondenza e unità sostanziale tra il suo magistero e la sua teologia. Un esame attento consente pertanto di individuare, attraverso l’uno e l’altra, proprio quelle linee fondamentali che cercherò di presentare oggi.
Prima di entrare nell’argomento, può essere utile dire qualche parola sull’impostazione teologica e sul modo di procedere propri di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Egli, che ha insegnato prima teologia fondamentale e poi teologia dogmatica, ha un approccio ai problemi dove la penetrazione teoretica e filosofica si colloca dentro a una prospettiva che è anzitutto storica e concreta. Inoltre, la sua formazione è essenzialmente biblica, patristica e liturgica e alla luce di essa egli affronta le problematiche attuali. Il suo atteggiamento riguardo a queste ultime denota certamente acute capacità critiche, ma è improntato anzitutto a una volontà costruttiva, all’apertura e anche alla simpatia. Per farsi un’idea di come egli stesso veda la sua formazione e il suo lavoro di teologo è particolarmente interessante il libro autobiografico La mia vita (ed. San Paolo).
Venendo ora al nostro tema, mi sembra giusto prendere come punto di partenza la convinzione, espressa dal cardinale Ratzinger, che “al termine del secondo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa di verità” (Fede, p. 170). Questa crisi ha una duplice dimensione: la sfiducia riguardo alla possibilità, per l’uomo, di conoscere la verità su Dio e sulle cose divine, e i dubbi che le scienze moderne, naturali e storiche, hanno sollevato riguardo ai contenuti e alle origini del cristianesimo.
2. La natura originaria del cristianesimo: l’Essere, il Lógos, l’Agape
La gravità e il carattere radicale di una simile crisi si comprendono alla luce di quella che è la natura propria del cristianesimo. È certamente vero che esso non è anzitutto “una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Deus caritas est, n. 1), ma è altrettanto vero che l’opzione per il Lógos, e non per il mito, ha caratterizzato fin dall’inizio lo stesso cristianesimo. Joseph Ratzinger argomenta ampiamente questa affermazione, anzitutto sul piano storico, già a partire dalla sua prima prolusione accademica, nel 1959 all’Università di Bonn, intitolata Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, e poi fino al recentissimo discorso all’Università di Regensburg. In concreto, già ben prima della nascita di Cristo la critica dei miti religiosi compiuta dalla filosofia greca – critica che può definirsi come l’illuminismo filosofico dell’antichità – ha trovato un corrispettivo nella critica agli dei falsi condotta dai profeti di Israele (in particolare il Deutero-Isaia) in nome del monoteismo jahvistico, e poi l’incontro tra fede giudaica e filosofia greca si è sviluppato progressivamente e ha trovato espressione anche nella traduzione greca dell’Antico Testamento dei Settanta, che “è più di una semplice traduzione” e rappresenta “uno specifico importante passo della storia della rivelazione” (discorso di Regensburg). Pertanto l’affermazione “In principio era il Lógos”, con cui inizia il prologo del Vangelo di Giovanni, costituisce “la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi” (ibidem).
Nella stessa linea si è mossa la patristica, come emerge dalla frase audace e incisiva di Tertulliano “Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine” (Introduzione, p. 102) e dalla netta scelta di S. Agostino che, rifacendosi alle tre forme di religione individuate dall’autore pagano Terenzio Varrone, colloca risolutamente il cristianesimo nell’ambito della “teologia fisica”, cioè della razionalità filosofica, e non in quello della “teologia mitica” dei poeti, o della “teologia civile” degli Stati e dei politici. Il cristianesimo si qualifica pertanto come “religione vera”, a differenza dalle religioni pagane, ormai prive di verità agli occhi della stessa razionalità precristiana, e realizza rispetto ad esse una grande opera di “demitizzazione”. Un cammino di questo genere era già iniziato nel giudaismo, ma rimaneva la difficoltà del legame speciale tra l’unico Dio creatore universale e il solo popolo giudaico, legame superato dal cristianesimo, nel quale l’unico Dio si propone come salvatore, senza discriminazioni, di tutti i popoli. In questo senso, l’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero filosofico greco non è stato un semplice caso, ma la concretizzazione storica del rapporto intrinseco tra la Rivelazione e la razionalità. E proprio questo è anche uno dei motivi fondamentali della forza di penetrazione del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano (cfr. Fede, pp.173-180).
Così però abbiamo, per così dire, soltanto una metà del discorso: l’altra metà è costituita dalla novità radicale e dalla diversità profonda della rivelazione biblica rispetto alla razionalità greca, e ciò anzitutto riguardo al tema centrale della religione, che è chiaramente Dio. Joseph Ratzinger mette grande impegno nel mostrare, attraverso l’esame dei testi biblici, dal racconto del roveto ardente di Esodo 3 fino alla formula “Io sono” che Gesù applica a se stesso nel Vangelo di Giovanni, che l’unico Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento è l’Essere che esiste da se stesso e in eterno, ricercato dai filosofi (cfr. Introduzione, pp. 79-97). Ma egli sottolinea con uguale forza che questo Dio supera radicalmente ciò che i filosofi avevano pensato di Lui. In primo luogo, infatti, Dio è nettamente distinto dalla natura, dal mondo che Egli ha creato: solo così la “fisica” e la “metafisica” giungono a una chiara distinzione l’una dall’altra. E soprattutto questo Dio non è una realtà a noi inaccessibile, che noi non possiamo incontrare e a cui è inutile rivolgersi nella preghiera, come ritenevano i filosofi. Al contrario, il Dio biblico ama l’uomo e per questo entra nella nostra storia, dà vita a un’autentica storia d’amore con Israele, suo popolo, e poi, in Gesù Cristo, non solo dilata questa storia di amore e di salvezza all’intera umanità ma la conduce all’estremo, al punto cioè di “rivolgersi contro se stesso”, nella croce del proprio Figlio, per rialzare l’uomo e salvarlo, e di chiamare l’uomo a quell’unione di amore con Lui che culmina nell’Eucaristia (cfr. Deus caritas est, nn. 9-15, dove Benedetto XVI riassume con grande forza quello che aveva approfondito fin dagli inizi del suo lavoro di teologo).
In questo modo il Dio che è l’Essere e il Verbo è anche e identicamente l’Agape, l’Amore originario e la misura dell’amore autentico, che proprio per amore ha creato l’universo e l’uomo. Più precisamente, questo amore è del tutto disinteressato, libero e gratuito: Dio infatti crea liberamente l’universo dal nulla (solo con la libertà della creazione diventa piena e definitiva la distinzione tra Dio e il mondo) e liberamente, per la sua misericordia senza limiti, salva l’umanità peccatrice. Così la fede biblica riconcilia tra di loro quelle due dimensioni della religione che prima erano separate una dall’altra, cioè il Dio eterno di cui parlavano i filosofi e il bisogno di salvezza che l’uomo porta dentro di sé e che le religioni pagane tentavano in qualche modo di soddisfare. Il Dio della fede cristiana è dunque sì l’Essere assoluto, il Dio della metafisica, ma è anche, e identicamente, il Dio della storia, il Dio cioè che entra nella storia e nel più intimo rapporto con noi. È questa, secondo Joseph Ratzinger, l’unica risposta adeguata alla questione del Dio della fede e del Dio dei filosofi (cfr. Fede, pp. 180-182).
Tutto ciò ha inevitabili e decisive conseguenze riguardo all’uomo e al modo di intendere la vita, cioè all’etica. Come San Paolo ha detto esplicitamente, “quando i pagani che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, … essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori” (Romani, 2, 14-15). Nello stesso spirito Paolo chiede ai credenti in Cristo: “Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Filippesi, 4, 8). Vi è qui un chiaro riferimento all’interpretazione etica della natura, coltivata dalla morale stoica. Questa interpretazione è dunque assunta dal cristianesimo, ma nello stesso tempo è superata: quando a un Dio soltanto pensato subentra l’incontro con il Dio vivente, avviene anche il passaggio da una teoria etica a una prassi morale comunitariamente vissuta e messa in atto nella comunità credente, in concreto attraverso la concentrazione di tutta la morale nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo. E come questo Dio crea e si dona nella libertà, così la fede in Lui non può che essere un atto libero, che nessuna autorità statuale può proibire o può imporre: pertanto “alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr. Matteo, 22, 21)” (Deus caritas est, 28). Questa è, nella sua pienezza, la ragione del dinamismo missionario sviluppato nel mondo ellenistico-romano dal cristianesimo: esso convinceva perché riuniva in sé il legame della fede con la ragione e l’orientamento dell’azione verso la caritas, la cura amorevole dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni differenza di condizione sociale. Possiamo dunque concludere che la forza che ha fatto del cristianesimo una religione mondiale e ha reso convincente la sua pretesa di essere la “religione vera” è consistita nella sintesi che esso ha saputo realizzare tra ragione, fede e vita (cfr. Fede, pp.182-184, e anche il Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005).
3. L’allontanamento della ragione e della libertà dal cristianesimo
Questa sintesi e questa pretesa hanno retto per molti secoli, pur tra tante vicissitudini storiche, e sono state alla base delle successive fasi di espansione missionaria del cristianesimo (cfr. discorso di Verona). A questo punto Joseph Ratzinger pone con forza la domanda: “perché questa sintesi non convince più oggi? Perché la ragione e il cristianesimo sono, al contrario, considerati oggi come contraddittori e addirittura reciprocamente escludentisi? Che cosa è cambiato nella prima e che cosa è cambiato nel secondo?” (Fede, p. 184).
Esaminiamo dunque, in primo luogo, i cambiamenti intervenuti nella “ragione”. In maniera molto sommaria, diremo soltanto che l’unità relazionale tra razionalità e fede, alla quale San Tommaso d’Aquino aveva dato una forma sistematica, è stata progressivamente sempre più lacerata attraverso le grandi tappe del pensiero moderno, da Cartesio a Vico a Kant, mentre la nuova sintesi tra ragione e fede tentata da Hegel non restituisce realmente alla fede la sua dignità razionale, ma tende piuttosto a convertirla completamente in ragione, eliminandola come fede. Il passo successivo, che ha come figure emblematiche Marx e Comte, rovescia la posizione di Hegel, che riduceva la materia allo spirito, riducendo invece lo spirito alla materia – con l’esclusione della possibilità stessa di un Dio trascendente – e facendo di nuovo venir meno, in linea di principio, una “metafisica” distinta dalla “fisica”. Contestualmente ha luogo una trasformazione del concetto di verità, che cessa di essere conoscenza della realtà esistente indipendentemente da noi per divenire conoscenza di ciò che noi stessi abbiamo compiuto nella storia, e poi di ciò che noi possiamo realizzare mediante le scienze empiriche e le tecnologie (concetto “funzionale” della ragione e della verità): così al primato della filosofia (metafisica) subentra il primato della storia, a sua volta poi sostituito da quello della scienza e della tecnica. Quest’ultimo primato è oggi assai chiaramente visibile nella cultura occidentale e, nella misura in cui pretende che la conoscenza scientifica sia l’unica propriamente vera e razionale, deve qualificarsi come “scientismo” (cfr. Introduzione, pp. 27-37; Fede, pp. 186-187).
In questo quadro la teoria dell’evoluzione delle specie dei viventi proposta da Darwin ha finito per assumere, presso molti scienziati e filosofi e in larga parte dell’attuale cultura, il ruolo di una specie di visione del mondo o di “filosofia prima”, che da una parte sarebbe rigorosamente “scientifica” e dall’altra costituirebbe, almeno potenzialmente, una spiegazione o teoria universale di tutta la realtà, basata sulla selezione naturale e sulle mutazioni casuali, al di là della quale ulteriori domande sull’origine e sulla natura delle cose non sarebbero più necessarie e nemmeno lecite. L’affermazione che “in principio era il Lógos” viene pertanto capovolta, ponendo all’origine di tutto la materia-energia, il caso e la necessità, qualcosa dunque che in sé non sarebbe razionale (cfr. Fede, pp. 187-190).
Anche tra i non credenti in Cristo simili posizioni non sono certo condivise da tutti, essendo spesso avvertite come un insopportabile dogmatismo, che si pretende “scientifico” ma trascura i limiti intrinseci della conoscenza scientifica. Joseph Ratzinger osserva però che, a causa di quel grande cambiamento per il quale, da Kant in poi, la ragione umana non è più ritenuta in grado di conoscere la realtà in se stessa, e soprattutto la realtà trascendente, l’alternativa culturalmente più accreditata allo scientismo sembra essere oggi non l’affermazione del Dio Verbo, bensì l’idea che latet omne verum (“ogni verità è nascosta”), ossia che la vera realtà di Dio rimane a noi del tutto inaccessibile e non conoscibile, mentre le diverse religioni ci presenterebbero soltanto delle immagini di Dio relative ai diversi contesti culturali, e quindi tutte ugualmente “vere” e “non vere”. In questo modo ritrova cittadinanza nel mondo occidentale quell’approccio al divino che è proprio delle grandi religioni o visioni del mondo orientali, come l’induismo e il buddismo (pur con tutte le grandi differenze tra loro), e che nei primi secoli dell’era cristiana il neoplatonismo aveva a suo modo cercato di proporre, come alternativa al cristianesimo (cfr. Fede, pp. 184-186). Non è difficile constatare quanto simili idee siano concretamente diffuse tra la nostra gente. Un Dio, o meglio un “divino”, così inteso tende a identificarsi con la dimensione più profonda e misteriosa dell’universo, presente al fondo di ogni realtà: è difficile dunque riconoscergli un carattere personale e la preghiera stessa, piuttosto che essere un dialogo tra Dio e l’uomo, prende la forma di itinerari spirituali di autopurificazione, che culminano nel riassorbimento e dissolvimento del nostro io nell’infinito originario. Alla fine non sembra pertanto così radicale la differenza tra queste forme di religiosità e quell’agnosticismo, o anche ateismo, che si collegano all’approccio scientista (cfr. Fede, pp. 184-186, e anche pp. 23-43; 125-134).
Come la fede cristiana nel Dio che è Essere, Verbo e Agape si è concretizzata in una precisa forma di vita e di etica, qualcosa di analogo è avvenuto e sta avvenendo per le forme di razionalità che tendono a sostituirsi al cristianesimo e che a loro volta si esprimono in concreti orientamenti etici. Se “ogni verità è nascosta”, o anche se è razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, parallelamente a livello pratico, di vita e di comportamenti, il valore fondamentale diventa quello della “tolleranza”, nel senso che nessuno deve o può ritenere le proprie convinzioni e le proprie scelte migliori e preferibili rispetto a quelle degli altri. È questa la figura attuale e apparentemente compiuta dell’illuminismo, che si definisce in concreto attraverso i diritti di libertà, con le libertà individuali come criterio supremo e decisivo che misura tutti gli altri e con la conseguente esclusione di ogni possibile discriminazione ai danni di qualcuno. Viene meno pertanto, specialmente a livello sociale e pubblico, la coscienza morale come qualcosa di valido oggettivamente, perché riferito a ciò che è bene o male in se stesso. Dato però che una morale è comunque necessaria per vivere, essa viene in qualche modo ricuperata facendo riferimento al calcolo delle conseguenze, utili o dannose, dei propri comportamenti e tenendo sempre come criterio regolatore quello di non limitare la libertà altrui (cfr. L’Europa, pp. 35-37).
Sul piano dei contenuti alla concezione del mondo che assolutizza il modello evoluzionistico corrisponde un’etica che pone al centro la selezione naturale, e quindi la lotta per la sopravvivenza e la vittoria del più forte, mentre nella prospettiva di quelle forme di religiosità che fanno riferimento a un divino non conoscibile e tendenzialmente impersonale la stessa persona umana, con i suoi diritti inalienabili, la sua libertà e responsabilità, perde la propria consistenza e diventa qualcosa di relativo e transitorio, che tende a dissolversi in un tutto indistinto. Così anche la differenza irriducibile tra il bene e il male viene relativizzata e diventa soltanto l’opposizione di due aspetti, entrambi necessari e complementari, dell’unico tutto originario.
Vediamo ora, più rapidamente, quali siano i cambiamenti intervenuti nel cristianesimo stesso che hanno contribuito al divorzio consumatosi tra esso e la ragione nella nostra epoca. Nel discorso di Regensburg Benedetto XVI mette l’accento in particolare sul tema della “deellenizzazione” del cristianesimo, che emerge una prima volta già nel XVI secolo con la Riforma protestante: l’intento era ritornare alla pura fede biblica, liberandola dal condizionamento della filosofia greca, ossia della metafisica. Un’intenzione simile si ritrova anche in Kant, sia pure in forma assai diversa. La seconda ondata del programma di deellenizzazione nasce dalla teologia protestante liberale del secolo XIX e XX ma ha interessato fortemente anche la teologia cattolica. Nel pensiero dei suoi rappresentanti più radicali, come Harnack, si tratta di ritornare al Gesù soltanto uomo, che sarebbe il Gesù della storia, e al suo semplice messaggio morale, che costituirebbe il culmine dello sviluppo religioso dell’umanità, liberandolo dai successivi sviluppi filosofici e teologici, a cominciare dalla stessa divinità di Cristo. Alla base c’è l’autolimitazione moderna della ragione a ciò che è verificabile.
La terza ondata della deellenizzazione sta diffondendosi attualmente, in rapporto con il problema dell’incontro del cristianesimo con le molteplici culture del mondo: la sintesi con l’ellenismo compiutasi nella Chiesa antica sarebbe una prima inculturazione, da cui occorrerebbe liberarsi, ritornando al semplice messaggio del Nuovo Testamento per inculturarlo di nuovo nei diversi contesti socio-culturali. Il risultato è inevitabilmente quello di relativizzare il legame tra fede e ragione instauratosi fin dall’inizio del cristianesimo, ritenendo che esso sia soltanto contingente e quindi superabile.
Un altro e ancor più rilevante cambiamento è stato quello per il quale, con il passare dei secoli, il cristianesimo era purtroppo diventato in larga misura tradizione umana e religione di Stato, contrariamente alla propria natura (cfr. le parole di Tertulliano: “Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine”): nonostante la ricerca di razionalità e di libertà sia sempre stata presente nel cristianesimo, la voce della ragione era stata troppo addomesticata. È stato ed è merito dell’illuminismo aver riproposto, spesso in polemica con la Chiesa, questi valori originari del cristianesimo e aver ridato alla ragione e alla libertà la loro propria voce. Il significato storico del Concilio Vaticano II sta nell’aver nuovamente evidenziato, specialmente nella Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo e nella Dichiarazione sulla libertà religiosa, questa profonda corrispondenza tra cristianesimo e illuminismo, puntando ad una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti (L’Europa, pp. 57-59; cfr. anche il Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005).
4. Per un nuovo accordo della ragione e della libertà con il cristianesimo
Giungiamo così al vero obiettivo di tutte le precedenti riflessioni: cercare le vie di un nuovo accordo della ragione e della libertà con il cristianesimo, ossia, come è scritto nel titolo di questa relazione, proporre la verità salvifica di Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo. La risposta che Joseph Ratzinger-Benedetto XVI dà a questo interrogativo è anzitutto quella di “allargare gli spazi della razionalità”. La limitazione della ragione a ciò che è sperimentabile e controllabile è infatti utile, esatta e necessaria nell’ambito specifico delle scienze naturali e costituisce la chiave dei loro incessanti sviluppi. Se però viene universalizzata e ritenuta assoluta e autosufficiente, una tale limitazione diventa insostenibile, disumana e alla fine contraddittoria. In forza di essa infatti l’uomo non potrebbe più interrogarsi razionalmente sulle realtà essenziali della sua vita, sulla sua origine e sul suo fine, sul dovere morale, sulla vita e sulla morte, ma dovrebbe lasciare questi problemi decisivi a un sentimento staccato dalla ragione. Così però la ragione viene mutilata e l’uomo viene diviso in se stesso e quasi disintegrato, provocando la patologia tanto della religione – che, staccata dalla razionalità, facilmente degenera nella superstizione, nel fanatismo e nel fondamentalismo – quanto della scienza, che si rivolge facilmente contro l’uomo quando si distacca dall’etica e in concreto dal riconoscimento del soggetto umano come colui che non può mai essere ridotto a strumento (cfr. Fede, pp. 99 e 164-166).
Proprio la pretesa che l’unica realtà sia quella che è sperimentabile e calcolabile porta del resto fatalmente a ridurre il soggetto umano a un prodotto della natura, come tale non libero e suscettibile di essere trattato come ogni altro animale: si ha così un capovolgimento totale del punto di partenza della cultura moderna, che consisteva nella rivendicazione dell’uomo e della sua libertà. Analogamente, sul piano pratico, quando la libertà individuale che non discrimina, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico, essa finisce per diventare un nuovo dogmatismo perché esclude ogni altra posizione, che può essere lecita soltanto finché rimane subordinata e non in contraddizione rispetto a questo criterio relativistico. In tal modo vengono sistematicamente censurate le norme morali del cristianesimo e viene rifiutato in partenza ogni tentativo di mostrare che esse, o qualsiasi altre, hanno validità oggettiva perché si fondano sulla realtà stessa dell’uomo: diventa pertanto inammissibile l’espressione pubblica di un autentico giudizio morale. Si è sviluppata così in Occidente una forma di cultura che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce la contraddizione più radicale non solo del cristianesimo ma delle tradizioni religiose e morali dell’umanità (cfr. L’Europa, pp. 34-55, e il discorso di Regensburg).
Per mostrare come la limitazione della ragione a ciò che è sperimentabile e calcolabile sia non solo carica di conseguenze negative ma intrinsecamente contraddittoria, Joseph Ratzinger concentra l’attenzione sulla struttura stessa e sui presupposti della conoscenza scientifica e in particolare su quella posizione che vorrebbe fare della teoria dell’evoluzione la spiegazione almeno potenzialmente universale di tutta la realtà. Una caratteristica fondamentale della conoscenza scientifica è infatti la sinergia tra matematica ed esperienza, ossia tra le ipotesi formulate matematicamente e la loro verifica sperimentale: questa sinergia è la chiave dei risultati giganteschi e sempre crescenti che si ottengono attraverso le tecnologie, operando con la natura e mettendo al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è però una creazione della nostra intelligenza, il frutto puro e “astratto” della nostra razionalità. La corrispondenza che non può non esistere tra la matematica e le strutture reali dell’universo, perché in caso diverso le previsioni scientifiche e le tecnologie non funzionerebbero, pone dunque una grande domanda: implica cioè che l’universo stesso sia strutturato in maniera razionale, così che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi a quale condizione una tale corrispondenza sia possibile e in concreto se non debba esservi un’intelligenza originaria, che sia la fonte comune della natura e della nostra razionalità. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Lógoscreatore e viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, riconducendo ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà (cfr. i discorsi di Verona e di Regensburg, oltre che Fede, pp. 188-192).
Naturalmente una simile domanda e riflessione, pur partendo dall’esame della struttura e dei presupposti della conoscenza scientifica, va al di là di questa forma di conoscenza e si pone al livello dell’indagine filosofica: non si oppone dunque alla teoria dell’evoluzione, finché questa rimane nell’ambito scientifico. Anche sul piano filosofico, inoltre, il Lógos creatore non è l’oggetto di una dimostrazione apodittica ma rimane “l’ipotesi migliore”, un’ipotesi che esige da parte dell’uomo e della sua ragione “di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile”. In concreto, specialmente nell’attuale clima culturale, l’uomo con le sue sole forze non riesce a fare completamente propria questa “ipotesi migliore”: egli rimane infatti prigioniero di una “strana penombra” e delle spinte a vivere secondo i propri interessi, prescindendo da Dio e dall’etica. Soltanto la rivelazione, l’iniziativa di Dio che in Cristo si manifesta all’uomo e lo chiama ad accostarsi a Lui, ci rende pienamente capaci di superare questa penombra (cfr. L’Europa, pp. 115-124; 59-60, e il discorso di Regensburg).
Proprio la percezione di una tale “strana penombra” fa sì che l’atteggiamento più diffuso tra i non credenti non sia oggi l’ateismo – avvertito come qualcosa che supera i limiti della nostra ragione non meno della fede in Dio – ma l’agnosticismo, che sospende il giudizio riguardo a Dio in quanto razionalmente non conoscibile. La risposta che Joseph Ratzinger dà a questo problema ci riporta ulteriormente verso la realtà della vita: a suo giudizio infatti l’agnosticismo non è concretamente vivibile, è un programma non realizzabile per la vita umana. Il motivo è che la questione di Dio non è soltanto teorica ma eminentemente pratica, ha conseguenze cioè in tutti gli ambiti della vita. Nella pratica sono infatti costretto a scegliere tra due alternative, già individuate da Pascal: o vivere come se Dio non esistesse, oppure vivere come se Dio esistesse e fosse la realtà decisiva della mia esistenza. Ciò perché Dio, se esiste, non può essere un’appendice da togliere o aggiungere senza che nulla cambi, ma è invece l’origine, il senso e il fine dell’universo, e dell’uomo in esso. Se agisco secondo la prima alternativa adotto di fatto una posizione atea e non soltanto agnostica; se mi decido invece per la seconda alternativa adotto una posizione credente: la questione di Dio è dunque ineludibile (cfr. L’Europa, pp. 103-114). È interessante notare la profonda analogia che esiste, sotto questo profilo, tra questione dell’uomo e questione di Dio: entrambe, per la loro somma importanza, vanno affrontate con tutto il rigore e l’impegno della nostra intelligenza, ma entrambe sono sempre anche questioni eminentemente pratiche, inevitabilmente connesse con le nostre concrete scelte di vita.
A questo punto siamo in grado di comprendere meglio il tipo di approccio teologico, ma anche pastorale, di Benedetto XVI. Egli dedica grande attenzione al rapporto della fede con la ragione e alla rivendicazione di verità del cristianesimo. Fa questo però in un modo che non è affatto razionalistico. Al contrario, egli ritiene che sia fallito il tentativo della neoscolastica di voler dimostrare la verità delle “premesse della fede” (i praeambula fidei) mediante una ragione rigorosamente indipendente dalla fede stessa e che siano destinati a fallire altri eventuali tentativi analoghi, come d’altra parte è fallito il tentativo opposto di Karl Barth di presentare la fede come un puro paradosso, che può sussistere soltanto in totale indipendenza dalla ragione (cfr. Fede, pp. 141-142).
In concreto, dunque, la via che conduce a Dio è Gesù Cristo, non solo perché soltanto in Lui possiamo conoscere il volto di Dio, il suo atteggiamento verso di noi e il mistero stesso della sua vita intima, cioè del Dio unico e assoluto che esiste in tre Persone totalmente “relative” a vicenda – di questo mistero non sono state ancora enucleate tutte le implicazioni sia per la nostra vita sia per la stessa conoscenza di Dio, dell’uomo e del mondo –, ma anche perché soltanto nella croce del Figlio, nella quale si mostra nella sua forma più radicale l’amore misericordioso e solidale di Dio per noi, può trovare una risposta, misteriosa ma convincente, il problema del male e della sofferenza, che da sempre – ma con forza nuova nella nostra epoca “umanistica” – è la fonte del dubbio più grave contro l’esistenza di Dio. Perciò la preghiera, l’adorazione che apre al dono dello Spirito e rende liberi il nostro cuore e la nostra intelligenza, è dimensione essenziale non solo della vita cristiana ma della conoscenza credente e del lavoro del teologo (cfr. discorso di Verona; Introduzione, pp. 135-146; Prolusione del 1959 all’Università di Bonn).
Non per puro gusto personale, dunque, Benedetto XVI sta usando “tutti i momenti liberi” per portare avanti il suo libro Gesù di Nazareth, di cui pubblicherà tra breve la prima parte e ha già reso pubblici stralci della prefazione e dell’introduzione. La separazione tra il “Cristo della fede” e il reale “Gesù storico”, che l’esegesi basata sul metodo storico-critico sembra aver reso sempre più profonda, costituisce per la fede una situazione “drammatica”, perché “rende incerto il suo autentico punto di riferimento”. Per ciò Joseph Ratzinger-Benedetto XVI si è dedicato a mostrare che il Gesù dei Vangeli e della fede della Chiesa è in realtà il vero “Gesù storico”, e fa questo impiegando il metodo storico-critico, di cui riconosce volentieri i molteplici risultati positivi, ma andando anche al di là di esso, per porsi in una prospettiva più ampia, che consenta un’interpretazione della Scrittura propriamente teologica, e che pertanto richiede la fede senza rinunciare per questo alla serietà storica (cfr. gli stralci pubblicati della prefazione). Si tratta cioè, come per le scienze empiriche così per la critica storica, di “allargare gli spazi della razionalità”, non consentendo che esse si chiudano in se stesse e si pongano come autosufficienti (cfr. Fede, pp. 136-142, e anche 194-203; Introduzione, pp. 149-180).
Questo tipo di approccio a Gesù Cristo rimanda chiaramente al ruolo della Chiesa e della tradizione apostolica nella trasmissione della rivelazione. Al riguardo Joseph Ratzinger non solo sostiene l’origine della Chiesa da Gesù stesso e la sua intima unione con Lui, incentrata nell’ultima Cena e nell’Eucaristia (cfr. Il nuovo popolo di Dio, ed. Queriniana, pp. 83-97), ma lega intrinsecamente la rivelazione con la Chiesa e la tradizione. Infatti la rivelazione è anzitutto l’atto con cui Dio si manifesta, non il risultato oggettivato (scritto) di questo atto. Per conseguenza, del concetto stesso di rivelazione fa parte anche il soggetto che la riceve e la comprende – in concreto, la Chiesa –, dato che se nessuno percepisse la rivelazione nulla sarebbe stato svelato, nessuna rivelazione sarebbe avvenuta. Perciò la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, ma non è semplicemente identica ad essa, è sempre più grande di essa. Non può quindi esistere un puro sola Scriptura: la Scrittura stessa è legata al soggetto che accoglie e comprende sia la rivelazione sia la Scrittura, ossia alla Chiesa. Con ciò è dato anche il significato essenziale della tradizione (cfr. La mia vita, pp. 72; 88-93). Questo è anche il motivo profondo del carattere ecclesiale della fede, o meglio dell’intrecciarsi indissolubile dell’“io” e del “noi”, della dimensione personale ed ecclesiale, nell’atto del credere che si rapporta al “Tu” di Dio che si rivela a noi in Gesù Cristo (cfr. Introduzione, pp. 53-64), oltre che dell’insufficienza di un’esegesi puramente storico-critica.
La via proposta per rendere di nuovo convincente il cristianesimo rimane comunque, oggi come agli inizi e come lungo tutta la sua vicenda storica, quella “dell’unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo”. È questo il significato del “grande ‘sì’ che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza” e che attraverso la testimonianza dei cristiani deve essere reso visibile al mondo (discorso di Verona). In concreto, come allargando gli spazi della nostra razionalità e riaprendola alle grandi questioni del vero e del bene diventa possibile “coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze” – sia naturali sia storiche – “nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia” (ibidem), così, a livello del vissuto e della prassi, nel contesto attuale è particolarmente necessario mettere in evidenza la forza liberatrice del cristianesimo, il legame che unisce fede cristiana e libertà, e nello stesso tempo far comprendere come la libertà sia intrinsecamente connessa all’amore e alla verità. L’uomo come tale, infatti, è certamente un essere “se stesso”, consapevole e libero, ma è altrettanto essenzialmente un essere “da”, “con” e “per”, necessariamente aperto e riferito agli altri: perciò la sua libertà è intrinsecamente legata al criterio della realtà – cioè alla verità – ed è libertà condivisa, libertà che si realizza nell’essere insieme di molte libertà, che si limitano ma anche si sostengono reciprocamente, libertà pertanto che si edifica nella carità (cfr. Fede, pp. 260-264 e più in generale 245-275). La Dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio Vaticano II ha rappresentato da questo punto di vista un decisivo passo in avanti, perché ha riconosciuto e fatto proprio un principio essenziale dello Stato moderno, senza per questo cedere al relativismo, ma riscoprendo invece e attualizzando il patrimonio più profondo del cristianesimo (cfr. discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005).
Nella situazione attuale dell’Occidente la morale cristiana sembra comunque divisa in due parti. Una di esse riguarda i grandi temi della pace, della non violenza, della giustizia per tutti, della sollecitudine per i poveri del mondo e del rispetto del creato: questa parte gode di un grande apprezzamento pubblico, anche se rischia di essere inquinata da un moralismo di stampo politico. L’altra parte è quella che si riferisce alla vita umana, alla famiglia e al matrimonio: essa è assai meno accolta a livello pubblico, anzi, costituisce un ostacolo molto grave nel rapporto tra la Chiesa e la gente. Nostro compito, allora, è anzitutto far apparire il cristianesimo non come un semplice moralismo, ma come amore che ci è donato da Dio e che ci dà la forza per “perdere la propria vita”, e anche per accogliere e vivere quella legge di vita che è l’intero Decalogo. Così le due “parti” della morale cristiana potranno essere ricongiunte, rafforzandosi reciprocamente, e così i “no” della Chiesa a forme deboli e deviate di amore potranno essere compresi come dei “sì” all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stata creata da Dio (cfr. discorso ai Vescovi svizzeri del 9 novembre 2006; discorso di Verona; L’Europa, pp. 32-34): il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007 si muove proprio in questa direzione.
L’intero approccio antropologico ed etico del cristianesimo, il suo modo di comprendere la vita, la gioia, il dolore e la morte, trova però la sua legittimità e la sua consistenza soltanto in quella prospettiva di salvezza storica ma soprattutto escatologica che è stata aperta dalla risurrezione di Cristo (cfr. Discorso di Verona): sui temi della morte, della risurrezione e dell’immortalità, che non possiamo toccare qui, Joseph Ratzinger ha scritto il libro Escatologia morte e vita eterna (ed. Cittadella 1979).
Finora la nostra attenzione si è concentrata sul rapporto tra la fede cristiana e la cultura secolarizzata dell’Occidente moderno e “post-moderno”, vittima di uno strano “odio di sé”, che va di pari passo con il suo allontanarsi dal cristianesimo. Joseph Ratzinger-Benedetto XVI però non perde assolutamente di vista un orizzonte assai più largo, quello dei rapporti con le altre culture e religioni del mondo, ai quali ha dedicato anzi buona parte della sua riflessione, specialmente negli anni recenti. Il concetto chiave a cui egli ricorre è quello di incontro delle culture, o “interculturalità”, differente sia dall’inculturazione, che sembra presupporre una fede culturalmente spoglia che si traspone in diverse culture religiosamente indifferenti, sia dalla multiculturalità, come semplice coesistenza – auspicabilmente pacifica – di culture tra loro diverse. L’interculturalità “appartiene alla forma originaria del cristianesimo” e implica sia un atteggiamento positivo verso le altre culture, e verso le religioni che ne costituiscono l’anima, sia quell’opera di purificazione e quel “taglio coraggioso” che sono indispensabili per ogni cultura, se vuole davvero incontrare Cristo, e che diventano per essa “maturazione e risanamento” (cfr. Fede, pp. 66 e 89, il discorso di Verona e in particolare il dialogo del 19 gennaio 2004 tra J. Ratzinger e J. Habermas, pubblicato in Etica, religione e Stato liberale, ed. Morcelliana 2005). Così proprio il cristianesimo può aiutare l’Occidente ad annodare i fili di quel nuovo e positivo incontro con le altre culture e religioni di cui oggi il mondo ha estremo bisogno, ma che non può costruirsi sulla base di un radicale secolarismo.
Di fronte alla grandezza in qualche modo “eccessiva” di questi compiti, Joseph Ratzinger-Benedetto XVI non è certo la persona che tenda a farsi illusioni sull’attuale stato di salute della Chiesa cattolica e più in generale del cristianesimo. Egli è sicuro però che “chi crede non è mai solo”, come ha continuamente ripetuto nel suo viaggio in Baviera, e anche che la nostra fede ha sempre “una sua possibilità di successo”, perché essa “trova corrispondenza nella natura dell’uomo”, creato per incontrarsi con Dio (Fede, pp. 142-143). Questa certezza sostenga anche la nostra vita e la nostra fatica di ogni giorno.
Avvenire, 15 dicembre 2006, pp. 26-27.