Le sfide antropologiche della postmodernità

Dopo aver sinteticamente ma efficacemente delineato le coordinate antropologiche della post-modernità, Ignazio Sanna propone in questo testo quali sono le principali visioni etiche oggi dominanti, suggestivamente riassunte nella “etica del viandante” senza fissa dimora, e come ad esse risponde la speranza cristiana basata sulla conoscenza dell’uomo come immagine di Dio.

1. Il concetto di postmodernità

Non è facile oggi definire la postmodernità, perche come è noto, gli studiosi della materia non sono d’accordo se si debba parlare di modernità incompiuta o di modernità superata. Se, però, si dovesse prescindere dal dibattito in corso, si può definire la postmodernità come uno stile di vita e di pensiero che si allontana dalle idee dominanti della modernità, in modo particolare dall’idea di un’unica razionalità logico-metafisica, del progresso dell’umanità legato alla conoscenza tecnica, di un’unica verità filosofica e religiosa valida per tutti, di un universalismo della natura umana, spogliata degli imprevisti e dei cambiamenti della storia, e sottratta alle molteplici contestualizzazioni sociali e culturali della sua essenza. La postmodernità, in una parola, sarebbe la dissoluzione della sintesi culturale moderna nonché l’avvento del pensiero debole e della crisi della ragione. Con le parole del sociologo polacco Z. Baumann, la postmodernità è “la modernità senza illusioni”.

Qualora, poi, alla nostra stagione culturale si volesse aggiungere un altro punto di vista, la caratteristica del nostro tempo oltre al fenomeno della crisi delle ideologie, della caduta dei regimi totalitari, della fine della storia, sarebbe determinata da ciò che Bonhöffer chiamava “decadenza”, intesa questa non nel senso di un rifiuto dei valori, quanto piuttosto dell’indifferenza ad essi. L’orizzonte della cultura odierna è composto dalla vicinanza e contiguità di molti frammenti, che in ultima analisi sono difficili da catalogare, e che non riescono a dare una sensazione dell’ordine e del senso, ma solo quella della casualità, della provvisorietà, dell’incertezza. Quando tutto, però è provvisorio ed incerto, niente diventa decisivo e si ha paura non solo di vivere, ma anche di amare.

2. Le coordinate della postmodernità

Se la definizione di postmodernità che abbiamo dato è valida, le sue coordinate concettuali possono essere individuate in una concezione pluralistica della realtà, nel prevalere della razionalità estetica sulle altre forme di razionalità, nella diffusione del nichilismo teorico e pratico. Di conseguenza, i nodi antropologici della postmodernità vanno ricercati all’interno di queste coordinate. Semplificando al massimo la complessità delle idee, essi si potrebbero ridurre ad una serie di passaggi: dall’uomo che condivide un’unica verità all’uomo che condivide molte verità; dall’uomo che riconosce un’unica razionalità oggettiva all’uomo che ritiene valide molte e diverse esperienze soggettive; dall’uomo che vive un’unica morale all’uomo che accetta molteplici opzioni etiche. Nell’ambito di questa mia breve sintesi, voglio fermarmi soprattutto su quegli aspetti di queste coordinate concettuali e di questi passaggi che, indirettamente, contribuiscono ad elaborare un’antropologia non riflessa, la quale determina l’inconscio collettivo ed orienta le scelte esistenziali dei singoli. Questi aspetti li raggruppo, per esigenza sistematica, in tre nodi problematici che chiamo, rispettivamente: etica del viandante, dilatazione del desiderio, perdita della speranza.

3. L’etica del viandante

3.1 Per quanto riguarda, dunque, il passaggio dall’accettazione di un’unica verità forte all’accettazione di molte verità deboli, il passaggio, cioè, da una verità metafisica ad una verità storico-ermeneutica, si può affermare che il soggettivismo esperienziale e individualista che ne consegue, direttamente speculare al politeismo di valori, ha fatto tramontare oggi la concezione dell’uomo giuridico e nascere quella dell’uomo dei valori. In base a questa concezione particolare, ha legge solamente ciò che ha valore e non ha valore ciò che è solamente legge.

Sempre più spesso l’uomo postmoderno è chiamato a decidere senza verità, e ciò porta ad una eccedenza della phrònesis su qualsiasi altra istanza veritativa. Quando non si dispone di una norma, si ricorre alla saggezza, alla prudenza, alla filosofia pratica, alla discrezionalità. Paradossalmente, non si hanno certezze matematiche, nel tempo della tecnica e delle previsioni. Non si hanno mappe geografiche, nel tempo dell’unione delle terre. Ciò che accade non è ciò che accade sempre, ma ciò che accade per lo più. Il tempo dei se prende il sopravvento sul tempo dei che. L’ipotesi prevale sulla certezza. Le ideologie si sono sfaldate e con l’ideologia si è sfaldato il dominio di appartenenza e si è innescato un processo migratorio che non conosce confini nella geografia della vita. Usi e costumi si contaminano, perché non esiste più una proprietà, un territorio, un confine. L’etica che deriva da questa situazione e un’etica che dissolve certezze e recinti e si configura come un’etica del viandante, che non si appella al diritto o alla norma ma all’esperienza. L’uomo deterritorializzato ha riferimenti occasionali, si appella alla storia più che alla natura. L’etica del viandante non dispone di mappe, ma inventa il percorso di volta in volta, in una sorta di navigazione esistenziale a vista. L’etica del viandante è l’unica proponibile nel tempo della tecnica, perché le scoperte della scienza sono sempre più nuove ed imprevedibili e non permettono soluzioni deducibili da principi universali ed immutabili: si pensi alle tesi controverse sulla fecondazione artificiale, sulla clonazione, sulle mutazioni transgeniche.

Le tecnoscienze hanno accresciuto enormemente la capacità di fare ma non la capacità di prevedere. Non si hanno mete certe. Il mondo è un mare aperto. Il senso sta nell’accadimento, non nella realizzazione di un progetto, nel raggiungimento di una meta, nel compimento di una promessa. L’etica del viandante non prevede niente di fisso, di rassicurante, di stabile. Non ha terra ferma. Ulisse è l’eroe del mare. Abramo è l’eroe della terra ferma.

Nella situazione postmoderna di società sempre più globalizzate, ad una molteplicità di culture e tradizioni corrisponde una molteplicità di leggi e di diritti, la cui applicazione ha sempre meno validità universale e sempre più interpretazione “prudenziale” o discrezionale. È interessante richiamare l’attenzione, a questo riguardo, su un aspetto tutto particolare del pluralismo nell’ambito etico, rappresentato dal cosiddetto “turismo dei diritti”. In base a questa possibilità, un diritto negato della legge della propria nazione può essere riconosciuto da un’altra legge in un’altra nazione. Le regole che normano la vita e la morte, come l’eutanasia, l’aborto, la procreazione assistita, la produzione di cellule staminali, non sono omogenee e possono variare assai da paese a paese. Esse esprimono e codificano valori diversi e modelli culturali pluralistici. Oggi, si può andare a morire in Olanda, perché la legge riconosce il diritto di chiedere l’eutanasia, e si va a creare embrioni a fini di ricerca in Inghilterra, perché il governo inglese non ha firmato la Convenzione europea di biomedicina. Al posto di imporre regole comuni, divieti planetari, si ritiene più proficuo distinguere caso per caso, per stabilire dove siano necessari principi comuni e dove, invece, sia preferibile rispettare o addirittura promuovere la diversità. La crescente unificazione dell’Europa, ed in particolare la liberta di circolazione da un paese all’altro, spinge i cittadini a muoversi per ricercare i luoghi dove può essere riconosciuto un diritto negato nel proprio paese. Questi comportamenti sociali sono giudicati come il segno d’una diversa maniera di vivere e di costruire valori individuali e collettivi, ai quali la variegata disciplina dei diritti offre concretamente l’opportunità di realizzarsi. Si pensa, inoltre, che il turismo dei diritti svolga la funzione benefica di rendere possibile la convivenza non conflittuale tra sistemi di valori diversi che, costretti a convivere negli angusti confini del proprio paese, finirebbero finalmente per collidere.

3.2. L’etica del viandante è favorita in modo particolare dalla nuova percezione dello spazio operata dalla globalizzazione, che mette in questione la stessa identità antropologica. Infatti, la globalizzazione, nel nostro immaginario collettivo, nel provocare una crisi della tradizionale rappresentazione degli spazi abitabili dall’uomo, allo stesso tempo, ha influito sul modo di concepire l’identità antropologica. In effetti, “globale” significa essere presente allo stesso tempo ovunque ed in nessun luogo. Ma l’uomo globale non è l’uomo totale. La globalizzazione è la contemporaneità e contiguità delle esperienze, ma non la loro pienezza e perfezione. Solo l’uomo totale è anche un uomo integrato che produce esperienza. Non è l’esperienza che fa l'uomo, ma l’uomo che crea esperienza. Ci sono luoghi dove le persone si incontrano e si riconoscono: paesi o città, chiese o teatri. Luoghi dove la gente conserva la propria identità e, nello stesso tempo, la mette a confronto con quella degli altri; e dove ciascuno è a proprio agio e in rapporto sia con gli altri che con il luogo in cui si trova e con cui stabilisce, più o meno consapevolmente, delle regole di comportamento. Gli spazi in cui si stabilisce, si fonda e si celebra un’identità; dove c’è sempre un rapporto, una relazione e, insieme, una storia più o meno condivisa, sono dei luoghi in senso proprio. Mentre quegli spazi che non possono definirsi né identitari, né razionali, né storici sono non-luoghi. Essi sono sempre più numerosi ed abitati da persone che, nell’ignoranza dell’altro, fanno le stesse cose, muovono gli stessi passi, azionano gli stessi meccanismi, ritirano gli stessi scontrini obbedendo o trasgredendo alle stesse avvertenze, alle stesse raccomandazioni, agli stessi cartelli stradali, riposando nelle stesse stanze d’albergo, fermandosi alle stesse stazioni di servizio, consumando gli stessi pasti, mettendosi in fila come scolari di una scuola che insegna solo a ignorarci l’uno con l’altro, a sentirci sempre più soli, sempre più anonimi, come nei porti e negli aeroporti, nei supermercati. In questi ultimi le parole della comunicazione sono ormai abolite e sostituite da pochi cartelli indicatori e prescrittivi; tutto avviene sulla base di pochi gesti obbligati, degli scatti delle macchinette che marcano, per tutti, allo stesso modo e, quasi in uno stesso tempo, il peso, il prezzo, la qualità delle merci acquistate. Nella civiltà dei non-luoghi si moltiplicano gli spazi, dove l’uomo non è più uomo o per lo meno non è più individualità, ma quasi soltanto un numero.

In realtà, l’uomo globale utilizza lo spazio più per viaggiare sulle strade del mondo che per abitare le città del medesimo. Si innamora di molti luoghi ma non ne sposa nessuno. Il viaggiatore ha soppiantato il pellegrino. II nomade aperto all’avventura e responsabile unico del proprio destino ha soppiantato il pellegrino appoggiato alla promessa e corresponsabile della realizzazione del suo progetto di vita nel raggiungere la meta che una volontà trascendente gli ha assegnato. Ulisse ha soppiantato Abramo.

La globalizzazione ha portato l’uomo, animale fondamentalmente terricolo, legato alla propria terra, alle proprie tradizioni, al proprio clima umano e metereologico, a vivere la propria vita sulla dimensione del globo, che si sottrae a un controllo politico unitario e ad una organizzazione sociale uniforme. Le “nuove terre” hanno giocato un ruolo importantissimo nella formazione dell’identità europea, come si può vedere dagli studi di P. Hazard e J. Huizinga. La politica, in quanto organizzazione della vita comune degli uomini, è sempre stata conquista e amministrazione dello spazio, perché lo spazio è l'arena delle azioni umane. Tutte le forme tradizionali di ordinamento politico, la polis, l’impero, lo stato, rinviano a determinate concezioni spaziali e si fondano su una rappresentazione politica dello spazio. Il quale, messo in forma dalla politica, da spazio geografico diventa spazio di potere, di liberty, di cittadinanza, delle leggi e del diritto. Insomma, non c’è politica senza l’imprescindibile dimensione dello spazio. Oggi però con la globalizzazione - con la libera circolazione di persone, merci e capitali, con la deregulation, il tendenziale esautoramento delle sovranità nazionali, il multiculturalismo - il tradizionale rapporto tra la politica e lo spazio entra in crisi. Se un tempo la politica organizzava e delimitava lo spazio, oggi nuove azioni ed operazioni di tipo economico, tecnico, informatico, che si lanciano nello spazio globale, infrangono i tradizionali confini della politica. Non sembra che esista una forma politica a cui assegnare la globalizzazione. Un potere capace di conferire ordine allo spazio globale. Un nuovo nómos della terra. Non bastano le categorie della modernità, né una loro risignificazione, per comprendere la nuova realtà. L’idea kantiana di una grande confederazione degli Stati, la teoria schmittiana dei grandi spazi o il sogno Juengeriano di uno stato mondiale sono più che soluzioni modi intelligenti di nominare il problema. Se la politica è potere sullo spazio, e lo spazio l’arena della prassi, allora la globalizzazione come apertura dell’agire umano alla virtualità dell’interconnessione planetaria richiama un’istanza politica capace di costituire una nuova ecumene. Manca un’antropologia della globalizzazione, cioè un’idea comune della natura dell’uomo. Forse un sentimento comune della sua condizione. L’organizzazione politico-simbolica della globalizzazione è resa difficile dalle faticose e complesse dinamiche dell’esclusione e dell’inclusione, dell’appartenenza e dell’espulsione, dell’identità e dell’alterità, della soggezione e del dominio.

4. La dilatazione del desiderio

4.1 Per quanto riguarda il passaggio da un’unica razionalità oggettiva alle molte esperienze soggettive, dalla condivisione di una verità alla condivisione di un’emozione, è indubbio che il primato del sentimento sulla ragione ha procurato una certa dilatazione del desiderio. Si è passati dalla cultura dei diritti dell’uomo a quella dell’uomo dei diritti, ed il diritto più rivendicato è quello al piacere, inteso come la fonte e la base della felicità. Il piacere, nella produzione della felicità, ha sostituito la virtù. Ogni piacere possibile ed esperibile è legittimo, per il semplice fatto che può essere sperimentato, e non perché sia moralmente buono. Si desidera di tutto, senza aver bisogno di niente. Uno si sente libero nella misura in cui riesce a soddisfare più desideri, e riesce a soddisfare più desideri, nella misura in cui ha più mezzi e più soldi. Oggi la necessità si è mutata in scelta, perché l’individuo, libero dalle tradizioni e dal controllo sociale, si avvia a diventare dio di se stesso, formando la realtà a misura dei propri desideri. Si produce tanto e si consuma poco, perché i prodotti sono funzionali non ai bisogni ma ai piaceri, al tempo libero, agli hobbies. II benessere materiale generalizzato ha democratizzato il lusso e dà molte più opportunità di comprare oggetti costosi, di visitare luoghi lontani, e, quindi, di dilatare il desiderio.

Ora, se si guarda in profondità questa realtà, si può affermare che alla base della dilatazione del desiderio, come del resto alla base del turismo dei diritti di cui abbiamo già parlato, ci sia soprattutto un fattore economico. Chi ha più soldi, ha più possibilità. Anche la stessa conoscenza delle cose da desiderare è sottoposta, in qualche modo, alla legge economica, perché le centrali dell’informazione sono accessibili solo a chi dispone di rilevanti risorse economiche. In definitiva, alla base della dilatazione del desiderio c’è l’homo oeconomicus, l’uomo che ha, non l’uomo che è. Oggi tutti desiderano tutto, e alla fine si consumano anche i desideri. Si viaggia in tutto il mondo senza partire dalla propria scrivania, perché ognuno dal suo computer può percorrere le autostrade della comunicazione che raggiungono gli angoli più sperduti del mondo intero. Si amano tante persone, senza incontrarne alcuna fisicamente, ma contattandole tutte solo virtualmente.

Alcune forme emblematiche della dilatazione del desiderio possono essere considerate la mentalità monetarista, che spinge a fare guadagni facili con la speculazione della borsa. L’uso sempre più diffuso della droga, perché con essa si vuole dilatare il tempo del piacere, dell’eccitazione, della forza, della felicità artificiale. La fame dei ricchi, ossia l’anoressia e la cura dimagrante, che non gratifica il bisogno della sopravvivenza ma allarga il desiderio dell’apparenza. La rivendicazione del diritto alla maternità oltre l’età anagrafica, con la duplicazione e talvolta anche triplicazione della maternità, perché si passa dalla madre biologica, a quella gestante, a quella sociale.

4.2. Oggi, la dilatazione del desiderio è favorita da una sorta di illuminismo economico, che ha promosso la logica del mercato. Questa, con la sua mano invisibile, ha mercificato tutti i rapporti sociali e anche la stessa natura dell’uomo. La logica mercantile contribuisce ad annullare la fondamentale “differenza antropologica”, che è alla base della verità cristiana per cui l’uomo è “l’unica creatura che Dio ha voluto per se stessa” (GS, 24). Già Kant (1724-1804) aveva messo in risalto questa differenza quando, nella Fondazione della metafisica dei costumi affermava che: “Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità Ciò che ha un prezzo può essere sostituito anche da un qualcosa di equivalente; ciò che ha dignità, invece, si eleva sopra ogni prezzo, e non consente un equivalente”. E ciò asserendo, il filosofo di Königsberg prendeva chiaramente le distanze da Thomas Hobbes (1588-1679), che, nel 1651, aveva scritto: “Il valore o pregio di un uomo è, come in tutte le altre cose, il suo prezzo, vale a dire quanto si darebbe per l’uso del suo potere; non è perciò una cosa assoluta, ma dipendente dal bisogno e dal giudizio altrui. Un abile condottiero ha un prezzo in tempo di guerra, presente o imminente, ma non così in pace. Un giudice dotto e incorruttibile ha molto pregio in tempo di pace, ma non altrettanto in guerra. E come in altre cose, così negli uomini non è il venditore, ma il compratore a determinare il prezzo”. Per Hobbes, quindi, per un verso, ciò che determina le relazioni di valore nelle quali la singola persona è inserita, è l’universo concettuale del mercato, ossia l’offerta e la domanda, e, per l’altro verso, ciò che dà significato all’essere umano è qualcosa che appartiene al mondo oggettuale che, nelle sue determinazioni di valore, non colloca mai la persona umana in una posizione particolare. La dotazione di senso la persona non la porta in sé in quanto essere umano, ma in quanto le viene attribuita dagli altri. In questo modo la dignità non è altro che un valore pubblico che lo stato ha conferito al singolo individuo: “Il pregio pubblico di un uomo, che è il valore attribuitogli dallo stato, è ciò che gli uomini chiamano comunemente dignità. Questo suo valore è significato dallo stato con cariche di comando, di giudicatura, di pubblici impieghi, o con i nomi e i titoli introdotti per la distinzione di tale valore” (ivi, 85). Onore e dignità spettano solo a chi ha il potere. Onorandoci e stimandoci diamo valore alla struttura del potere in cui il singolo individuo è integrato. “La manifestazione del valore che noi ci attribuiamo l’un l’altro è quel che viene comunemente chiamato onorare o disonorare. Valutare un uomo a un alto prezzo, è onoralo, ad un basso prezzo, disonorarlo. Ma alto e basso, in questo caso, si devono intendere riferiti, come termine di paragone, al prezzo che ciascuno attribuisce a se stesso” (ivi, 84).

La logica del mercato, perseguita dalla razionalità strumentale, in buona sintesi, ha promosso l’antropologia dell’avere, che è alla base dell’uomo degli affari, ed ha penalizzato l’antropologia dell’essere, che è alla base dell’uomo dei principi. Ha mercificato la trascendenza degli ideali e dei costumi, perché ha reso tutto mercantile e valuta anche i sentimenti dell’anima secondo la logica dei costi e ricavi. Una domanda molto banale ma molto comune che, consciamente o inconsciamente, molto spesso accompagna il ricevimento di un regalo, è quella che vuole conoscere quanto quest’ultimo sia costato, perché si ritiene, di solito, che il prezzo del dono determini l’importanza della persona donata.

È bene ricordare, ovviamente, che la logica del mercato e l’antropologia dell’avere non hanno eliminato del tutto la logica della gratuità e del dono. M. Mauss ha scritto che “una parte considerevole della nostra morale e della nostra stessa vita staziona tuttora nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e, insieme, della libertà. Non tutto, per fortuna, è ancora esclusivamente classificato in termini di acquisito e di vendita. Le cose hanno ancora un valore sentimentale oltre al loro valore venale, ammesso che esistano valori soltanto venali. Non c’è solo una morale mercantile”. E Derrida precisa che “se c’è dono il donato del dono (ciò che si dona, ciò che è donato, il dono come cosa donata o come atto di donazione) non deve ritornare al donante (non diciamo ancora al soggetto, al donatore o alla donatrice). Non deve circolare, non deve scambiarsi, non deve in ogni caso essere esaurito, in quanto dono, dal processo dello scambio, dal movimento della circolazione del circolo nella forma del ritorno al punto di partenza. Se la figura del circolo è essenziale all’economico, il dono deve rimanere aneconomico”. Il dono è tale in quanto spezza la circolarità dello scambio, interrompe l’economia, sfida la reciprocità e la simmetria. Secondo Derrida, affinché ci sia dono, non dev’esserci reciprocità, ritorno, scambio, controdono né debito. Per essere tale, il dono deve affrancarsi da ogni complicità non solo con la logica utilitaristica dello scambio materiale, ma anche con la logica dello scambio simbolico; deve respingere ogni idea di restituzione, sia essa immediata o differita nel tempo; poiché ogni forma di restituzione annulla il dono in quanto dono. Ciò vuol dire non solo che il donatario non deve percepire né riconoscere il dono come tale, ma anche che il donatore non dev’essere cosciente dell’atto, dell’intenzione del donatore. “Al limite, il dono come dono dovrebbe non apparire come dono: né al donatario né al donatore. Esso può essere dono come dono solo non essendo presente come dono. Ne all’uno ne all’altro”.

4.3. Per affrontare la sfida di questa cultura particolare, a mio parere, bisognerebbe passare dalla dilatazione del desiderio all’educazione del desiderio, intendendo quest’ultimo secondo la sua origine semantica: de-sidera, proveniente dalle stelle. Dire che le cose che desideriamo provengono dall’alto delle stelle è equivalente a dire che bisogna educare alla spiritualità e alla verticalità. Oggi c’è troppa orizzontalità ed il desiderio è stato alienato e ridotto a semplice piacere estetico. Ciò porta alla depressione e alla solitudine, perche lo spazio orizzontale che occupo io non lo può occupare un altro, e allora io sono costretto a rimanere nella mia solitudine. II consumismo è anche individualismo e l’individualismo porta all’egoismo e alla solitudine. È un’illusione pensare che il mondo oggi sia realmente unificato. Alla mondializzazione economica e culturale corrisponde spesso l’isolamento esistenziale: si vede tutto da soli e non si ha neppure la possibilità di comunicare agli altri le nostre impressioni, le nostre speranze, le nostre paure. Secondo Gadamer, la televisione è la catena da schiavi alla quale è legata l’odierna umanità. La tv è il contrario del dialogo, il contrario di una comunicazione reciproca. Uno solo parla a milioni che non dicono nulla: è un sistema da schiavi. Il sistema della televisione rischia, attraverso l’industria della comunicazione, di trasformare la democrazia in oligarchia, espropriando il popolo della sua sovranità. Non per nulla K. Popper ha definito la televisione una cattiva maestra. La globalizzazione, con la continua mobilità del mercato del lavoro, ha distrutto quella dimensione privata fatta di rapporti di famiglia, di amicizia e di vicinato, che, unica, è in grado di dare significato alla vita. Si è perso il senso dell’eternità, che si considera come una estensione e dilatazione del tempo all’infinito, e non già come la pienezza della vita. Il tempo è l’emorragia del senso, è la perdita del senso, mentre l’eternità non è in rapporto all’estensione del tempo, ma alla qualità della vita. Se l’origine ed il senso della vita sono provenienti dalle stelle, allora questa origine e questo senso della vita li si può scorgere anche nelle azioni più feriali, che si possono paragonare a tante gocce d’acqua, nelle quali, secondo un’espressione di Karl Rahner, si riflette il cielo.

Oggi si sente senza dubbio il bisogno di spiritualità. Questa, però, non è educata, non è percepita come un bisogno da soddisfare ma come un desiderio da gratificare. Essa diventa una forma di consumismo. Le agenzie di viaggio propongono gli weekend di spiritualità, le gite nei conventi, le meditazioni di gruppo. Ma non tutti possono permettersi il lusso di lasciare la casa e la famiglia per trovare luoghi di silenzio e spazi di meditazione. Per una madre di tre figli il silenzio è un lusso, ma la spiritualità è un bisogno insopprimibile e bisognerebbe allora inventare modi e mezzi, perché anch’essa possa nutrire i desideri dell’anima. La new-age, che va prendendo sempre più piede nel mondo dei giovani e meno giovani, non è certamente la ricetta giusta per allargare la fruizione della spiritualità, perché anch’essa è sostanzialmente una forma di consumismo religioso, che rimane a livello orizzontale. In essa manca, tra l’altro, il senso della grazia e la concezione del peccato.

Educare il desiderio significa dirigere il cuore e i sentimenti verso l’alto, all’origine della vita e alla fonte del senso. Significa anche ordinare i sentimenti a coltivare ideali possibili, nel rispetto dei limiti, in modo da non superare la soglia del desiderio. L’educazione del desiderio, per i cristiani, porta ad un’etica del sacrificio, che è motivata dalla convinzione che Dio ricompenserà anche un semplice bicchiere d’acqua dato con amore. Per i laici non credenti, essa porta al pathos di un fine lontano da raggiungere, che è sostenuto dal conforto di sacrificarsi per le generazioni future. La ricompensa non è nel tempo, ma al di là del tempo, perche la storia, per il cristiano, non è l’orizzonte ultimo, non è il tribunale ultimo. Ciò che getta luce sull’agire e sul soffrire nel tempo è il raggio escatologico della vita eterna.

L’educazione del desiderio più che guardare lontano, fin dove può portare il progresso, aiuta a guardare in alto, da dove proviene il senso del progresso, cioè da Dio, garante del futuro, perché creatore della storia passata. Se si stabilisce un ordine nella propria vita e nel proprio desiderare, se si usa la virtù della prudenza nel proprio progettare, allora l’ethos della responsabilità prende il posto dell’ethos della rinuncia. La fede cristiana, infatti, non educa dei rinunciatari, ma dei responsabili. È vero che la mistica della rinuncia e della croce si sostituisce spesso alla realtà stessa della croce. Ma la vita è complessa per se stessa, basta prenderla per quello che è.

5. La perdita della speranza

5.1. Per quanto riguarda, infine, il passaggio dall’unica morale oggettiva alle molte opzioni etiche, la conseguente diffusione del nichilismo teorico e pratico ha prodotto una sorta di uomo nichilista, che vive alla giornata, senza sapere esattamente dove stia andando, che cosa sia meglio fare o non fare, che senso ultimo abbia il suo lavorare, soffrire, gioire, essere liberi, ecc. Egli nutre una profonda sfiducia verso la verità oggettiva, che sostituisce con le categorie dell’interpretazione, della prospettiva, del punto di vista. Al posto del bene da compiere egli sostituisce l’utile da conseguire. La libertà la riduce solo e sempre a spontaneità. La coscienza non indica più un giudizio speculativo sulla moralità della propria azione, ma un giudizio sulla sincerità circa ciò che al momento egli si sente o non si sente di fare. Il suo stato d’animo prodotto da questo calo di sicurezze filosofiche, etiche e teleologiche, viene definito, di volta in volta, come: spaesamento, naufragio, estraneazione, disincanto, smarrimento, desertificazione. All’eccessiva speranza dei decenni passati si è sostituita una generalizzata crisi di speranza. E siccome era già diffusa la sfiducia verso la tradizione, questa caduta di fiducia verso il futuro ha lasciato l’uomo senza radici e senza avvenire. Gli unici valori che ancora contano sono l’abilità personale nel condurre gli affari (una specie di nietzschiana volontà di potenza), l’utilità economica, l’identità territoriale. Ma si tratta di valori che insegnano all’uomo solo l’uso dei mezzi per la vita: essi aiutano a camminare, ma non sono in grado di dire dove si debba andare e che senso abbia il peregrinare dell’uomo. Per orientarsi circa la meta o destino ultimo dell'uomo bisogna conoscere i fini dell’esistenza umana, e sono questi che oggi mancano. Da qui un pauroso vuoto interiore dell’uomo contemporaneo, una perdita di senso generalizzato, l’oscuramento dell’intelligenza e la penuria di quei beni che un tempo illuminavano l’esistenza interiore, quali la teologia, l’ascetica, la mistica, la metafisica.

5.2. Tra le molteplici conseguenze del nichilismo merita particolare considerazione in modo speciale la dissoluzione postmoderna del tempo e della storia, che conduce inevitabilmente ad una realtà particolare: la crisi dell’escatologia. Infatti, nel nichilismo la fede in un compimento della storia è ampiamente scomparsa dalle coscienze. L’orizzonte della speranza si è abbassato ad orizzonte dell’attesa, l’enigma del “cosiddetto male” ed il senso del peccato sono abbassati ad esperienza istintuale di aggressività ed errore. L’escatologia è intesa con quell’insieme di fatti che accadono dopo questa storia terrena, dopo questa vita precaria, non come la dimensione eterna che anima tutta la storia del singolo credente e di tutta la comunità ecclesiale. Il tempo è considerato come un contenitore vuoto, che viene riempito di fatti, eventi, persone, e non come la dimensione che Dio stesso acquista dopo l’Incarnazione, con la realizzazione della promessa divina, del disegno eterno di Dio, del sogno divino di salvezza per tutti gli uomini, l’insieme dei momenti propizi divini, dei chairòi, che formano l’ordito interiore della storia umana e cristiana. Se il tempo è come la divinità pagana Krónos, che mangia i suoi figli, e cioè consuma, distrugge, annulla fatti e persone, la storia è ridotta a cronaca e la cronaca diventa la storia.

La perdita della speranza escatologica e della dimensione teologica del tempo conduce inevitabilmente ad un forte orientamento sull’al di qua e alla mondanizzazione dell’eterno. Il senso dell’esistenza umana sia individuale che collettiva consiste nel ricavare il meglio dalla vita terrena. Anche l’idea di reincarnazione, nella sua versione occidentale, rientra in questo sentimento postmoderno della vita. L’uomo europeo, infatti, vuole ritornare in questa vita perché non riconosce l’unicità e l’irripetibilità della storia e di ogni singola vita umana, nonché l’importanza esistenziale del nostro esserci storico. Paradossalmente, anche la vita umana diventata un genere di consumo, un prodotto che si può acquistare e riacquistare. Se la vita umana è prodotta, è “fatta” dalla potenza della tecnica e della manipolazione genetica, può essere anche “disfatta” dalla medesima potenza della tecnica e della manipolazione genetica.

L’atteggiamento degli anni sessanta era stato quello del grande entusiasmo per il futuro, delle grandi riforme, del pensare in grande, dell’immaginazione al potere. In seguito, l’ottimismo di quegli anni lasciò il passo ad un tempo di stagnazione, dovuto al senso di inquietudine di fronte alle prime crisi energetiche, alla presa di coscienza della complessità dei processi di liberazione, alla percezione dei limiti di un progresso scientifico e tecnologico. Al futuro si guardò con sempre meno speranza e sempre più paura: la paura della guerra atomica, la paura di disastri generati da meccanismi tecnologici, le cui conseguenze possono sfuggire alle mani dell’uomo. Queste preoccupazioni dominarono soprattutto gli anni ottanta. II decennio scorso subito dopo la grande crisi delle ideologie, è stato segnato dalla disillusione, dalla sfiducia, dall’incertezza sul futuro. È iniziata, appunto, la stagione del rischio e dell’insicurezza, che l’etnologo dei “non luoghi” Marc Augé ha paragonato all’anno Mille, cioè all’anno della grande paura, la paura della fine del mondo. “Oggi, ha scritto egli in un’intervista, la stessa paura vive e prospera in modo diverso. Riguarda i terrori legati ai consumi alimentari. I cibi transgenici faranno male, saranno cancerogeni? Oggi il terrore e la mucca pazza diventata cannibale perché alimentata fuori dall’ordine naturale. Oggi il terrore è l’Aids, una malattia che contagia tutti, e il terrorismo che incrina le certezze di chi pensava di essere al riparo. La paura dell’Occidente è accogliere troppi immigrati e di non essere più quello di un tempo” (intervista a Il Messaggero, 31 maggio 2003).

Questa stagione è stata potenziata in modo particolare dal crollo delle torri gemelle di New York, che bene o male rappresentavano il simbolo dell’economia e della culture dell’Occidente. La filosofia della sicurezza, prima dell’11 settembre, si basava sulla fiducia. Ora questa fiducia esistenziale, tradotta in istituzioni, si è dissolta ed è stata sostituita dalla sfiducia esistenziale, che poco a poco viene trasfusa in corrispondenti forme istituzionali. Il cittadino, riconoscente e diffidente allo stesso tempo, prima di iniziare un viaggio in aereo, è grato di passare ai raggi del metal detector, di essere scrutato, perquisito e interrogato, anche se tutto questo è una chiara dimostrazione di mancanza di fiducia. Le minacce provenienti dalle reti terroristiche transnazionali hanno inaugurato un nuovo capitolo della società mondiale del rischio. Le prime vittime di questa società del rischio sono purtroppo la moralità e la ragione, perché il terrorismo prima indebolisce la moralità e poi finisce per indebolire anche la ragione. Basti osservare, a questo riguardo, come il rapporto di Amnesty International sullo stato dei diritti umani nel 2002 asserisca che “la guerra al terrorismo iniziata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre ha reso il mondo più insicuro, moltiplicato le violazioni dei diritti dell’uomo da parte di governi occidentali, fatto passare in secondo piano emergenze come la povertà e la diffusione di malattie. Se lo scopo dell’offensiva contro il terrorismo era quello di fare del mondo un posto più sicuro dove vivere, l’obiettivo e fallito. L’attitudine americana a dimenticare in nome dell’emergenza le più elementari regole del diritto ha contagiato anche alcuni stati europei. In molti stati sono state introdotte legislazioni restrittive in tema di diritto di asilo e di immigrazione, mentre gli appartenenti a comunità straniere sono stati oggetto di discriminazioni e violenze immotivate”.

Il continuo cambiamento delle coordinate culturali, politiche e sociali che sono alla base dell’immagine del mondo contemporaneo, oggi, crea paura del futuro, fa ridurre drasticamente i consumi, induce a risparmiare, a coltivare la prudenza, tipica dei tempi duri, a cercare riferimenti esterni capaci di assorbire l’ansia soggettiva, a cercare una sponda alla domanda di protezione, che è anche domanda di senso e di comunità. È abbastanza normale che nelle fasi di maggiore crisi, di fronte alla minaccia prodotta da vicende particolarmente drammatiche, le persone tendano a identificarsi nelle istituzioni ed organizzazioni che garantiscono la gestione e il controllo dei problemi, a livello nazionale e globale, quali, appunto l’Onu, la Nato, l’Ue, gli stati nazionali. La fiducia in queste istituzioni rappresenta il bisogno di protezione, la richiesta di tutela dalle minacce esterne, per quanto lontane geograficamente. Ma quando queste istituzioni sono messe in crisi dagli eventi della guerra o dalle rivoluzioni sociali entrano in crisi anche quei valori e quei sistemi di vita che essi in qualche modo rappresentano e difendono.

Oggi, il nemico si pone non al di là dei confini geografici, ma di quelli ideologici. Esso non è un paese specifico: non ha una patria. La guerra contro il terrorismo non ha un nemico riconducibile a un territorio, riassumibile in una identità precisa. Per questo, il nemico lo si associa a un volto, a un nome: Bin Laden, a un paese, Afghanistan. L’11 settembre ha messo in crisi il globalismo, la fiducia negli effetti virtuosi della globalizzazione. Proprio i paesi attori della globalizzazione, i paesi occidentali, vedono in essa una minaccia alla sicurezza dei cittadini, alla stabilità e alla forza delle loro istituzioni, dei poteri. Da qui la spinta a controllare sempre più i confini, a ricostituirli, a renderli visibili. La spinta a difendere il territorio, in modo da dare alle appartenenze nazionali un ancoraggio concreto, a delimitare in modo netto la distanza fra noi e gli altri. La spinta a controllare le comunicazioni, i trasporti, la rete, perché l’apertura, lo scavalcamento e la vanificazione di ogni confine rende vulnerabili. Come difenderci dal mondo, come tutelare la nostra casa, la nostra vita quotidiana, se la nostra casa, se la nostra vita quotidiana sono aperte al mondo? La sempre maggiore espansione delle malattie infettive crea preoccupazione ed accresce l’incertezza in termini di salute, ma anche di economia e di sicurezza nazionale. La drammatica crescita di microbi farmacoresistenti, combinata allo scarso sviluppo di nuovi antibiotici, la crescita di megalopoli con gravi condizioni sanitarie, il degrado ambientale e la crescente facilità e frequenza degli spostamenti di persone e merci da un confine all’altro della terra hanno ampiamente facilitato la diffusione delle malattie infettive. Una malattia comparsa in un remoto angolo del pianeta è una minaccia anche per il più industrializzato dei paesi.

Va notato, infine, che il paesaggio globale dell’insicurezza costringe a ripensare la nostra posizione rispetto al rischio e al futuro. Non c’è più un rischio zero. Si afferma ormai sempre di più una cultura dell’insicurezza, che rompe con i tabù della cultura del rischio residuale, da un lato, e con quello della cultura della sicurezza, dall'altro. La chiave della cultura dell’insicurezza sta nel comprendere l'insicurezza come elemento della nostra libertà. Questo presuppone la disponibilità a discutere e riformare apertamente e pubblicamente i fondamenti del nostro approccio al rischio. Per quanto riguarda per esempio i rischi ecologici, tecnologici, alimentari la fiducia tra le aziende e i consumatori, i profani e gli esperti, la scienza e l’opinione pubblica critica può basarsi su una “chimica trasparente”, che metta tutte le sue carte sul tavolo dell’opinione pubblica. È necessario riconoscere la differenza tra rischi calcolabili e insicurezza incalcolabile.

6. L’uomo immagine di Dio

Prima di concludere questa breve esposizione di alcuni nodi antropologici della postmodernità, è necessario accennare ad un possibile atteggiamento che si dovrebbe assumere davanti ad essi. Penso che un contributo per affrontare e in certa misura risolvere questi nodi antropologici sia dato dalla concezione dell’antropologia cristiana dell’uomo come immagine di Dio.

All’etica del viandante, per esempio, essa contrappone l’etica del pellegrino. Infatti, all’inizio del cammino di Abramo, padre di tutti i credenti della storia e modello di vita responsoriale, c’è una promessa. Questa promessa cambia la storia umana in storia di salvezza divina, e trasforma il vagare di ogni nomade della terra in un cammino di pellegrini del cielo. La vita umana ha una meta, una finalità intrinseca, e la vocazione dell’uomo consiste precisamente nel raggiungimento di questa meta. Nessuno nasce per caso e muore per caso. II caso nella prospettiva cristiana della storia non esiste. Giustamente, è stato scritto da Anatole France che il caso è lo pseudonimo di Dio quando egli non si firma per esteso. In realtà, la storia ha una fine, perché ogni evento passa, perché tutto tramonta e muore, ma allo stesso tempo ha anche un fine, perché oltre ogni tramonto su questa terra c’è una nascita nell’eternità. La morte, per il cristiano, e il passaggio dall’esistenza alla vita. Alla dilatazione del desiderio la concezione dell’immagine contrappone la verticalizzazione degli ideali. Infatti, l’uomo è nato per guardare in alto e non solo per guardarsi attorno. La bestia guarda verso la terra. L’uomo guarda verso il cielo. L’occhio del corpo vede le cose e gli oggetti, lo sguardo dell’anima vede l’alone di eternità nascosto dietro le stesse cose e gli stessi oggetti. Per il piccolo principe, secondo Saint-Exupery, l’essenziale e invisibile agli occhi. Un solo orizzonte terreno non basta per esaurire tutta la potenza dello sguardo umano. L’amore d’una sola persona non esaurisce tutta la capacità di amore del cuore di un uomo e di una donna. L’uomo supera infinitamente l’uomo. È capax Dei. È aperto all’Assoluto.

Alla perdita della speranza la concezione dell’immagine contrappone la nostalgia dell’infinito. L’inquietudine del cuore umano non è il tormento della ricerca senza esito ma l’ansia dell’incontro sperato ed atteso. Dio non è all’infuori del cuore umano, ma nel suo intimo. È agostinianamente più intimo di quanto non lo sia l’uomo a se stesso. Questa presenza divina nel cuore dell’uomo, nascosta ma reale, procura un sentimento di nostalgia. Nostalgia di ulteriorità, di perfezione, di pienezza, di completezza, di ritorno all’ordine del “principio”. Il passato è la proiezione del futuro. L’inizio è la profezia della fine. Così come il tempo condiziona la nostra eternità, anche l’eternità condiziona ed illumina il nostro tempo.

 

Una versione sviluppata del presente testo è pubblicata sulla rivista «Path» 7 (2008), pp. 145-167.