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Verso la questione suprema

George Smoot
1993

Nelle pieghe del tempo

L’idea che, man mano che ci si avvicina al momento della creazione, i costituenti e le leggi dell’universo diventano sempre più semplici rappresentava per me una convinzione estremamente efficace, di quelle che incoraggiano la nostra fiducia nella possibilità di comprendere, un giorno, l’essenza della creazione. Una valida analogia è la vita stessa o, più semplicemente, il singolo essere umano. Ognuno di noi è un’entità molto complessa, composta da tanti tessuti diversi e capace di innumerevoli comportamenti e pensieri. Torniamo indietro nella vita di una persona, uomo o donna, oltre il momento della nascita, all’istante della fecondazione di un singolo ovulo da parte di un singolo spermatozoo. L’individuo diviene sempre più semplice, e alla fine è ridotto alle informazioni contenute nel codice del DNA espresso da una serie di cromosomi. Lo sviluppo che trasforma gradualmente un codice di DNA in un individuo maturo è come un dispiegamento, una complicazione, in quanto l’informazione contenuta nel DNA viene tradotta e si manifesta nelle diverse fasi della vita umana. Così è pure per l’universo. Possiamo vedere quanto sia complesso oggi l’universo, e noi siamo parte di quella complessità.

La cosmologia – attraverso l’incontro dell’astrofisica e della fisica delle particelle – ci indica che questa complessità scaturisce da una profonda semplicità, con la materia che si trasforma attraverso una serie di transizioni di fase. Viaggiando indietro nel tempo, attraverso queste transizioni di fase, troviamo una sempre maggiore semplicità e simmetria, con la fusione delle forze fondamentali della natura e la trasformazione delle particelle in componenti sempre più fondamentali. Andando ancora più indietro si raggiunge un punto in cui l’universo era quasi infinitamente piccolo, una infinitamente densa concentrazione di energia, un frammento dello spazio-tempo primordiale. Questa crescente semplicità e simmetria dell’universo, man mano che ci avviciniamo al momento della creazione, infondono in me la speranza che l’universo potrà essere compreso utilizzando le forze della ragione e della filosofia. Allora l’universo diventerà comprensibile, come aveva agognato Einstein.

Andando ancora più indietro, al di là del momento della creazione, cosa succederà? Cosa c’era prima del Big Bang? Cosa c’era prima dell’inizio dei tempi? L’ultima domanda rappresenta quindi una sfida alla nostra fiducia nel potere della scienza di trovare spiegazioni sulla natura. L’esistenza di una singolarità – in questo caso lo stato unico da cui è emerso l’universo – rappresenta un’eresia per la scienza, poiché supera ogni possibile spiegazione. Non vi è alcuna risposta al perché esista un tale stato. È qui, dunque, che si interrompono le spiegazioni scientifiche e interviene l’elemento divino, l’artefice di quella singolarità, di quella semplicità iniziale? L’astrofisico Robert Jastrow, nel suo libro God and the Astronomers, descrisse una simile prospettiva come l’incubo dello scienziato: «Egli ha scalato le montagne dell’ignoranza; sta per raggiungere la vetta più alta; e nel momento in cui supera l’ultimo sperone roccioso viene salutato da un gruppo di teologi che siedono lì da secoli».

I cosmologi hanno cercato a lungo di evitare questo brutto sogno ricorrendo a spiegazioni dell’universo che evitassero la necessità di un inizio. Non dimenticate che Einstein si rifiutò di credere nelle implicazioni delle sue equazioni – ovvero che l’universo si espande e deve quindi aver avuto un inizio – e per questo motivo inventò la costante cosmologica. E solo una volta, viste le osservazioni di Hubble dell’universo in espansione, riuscì a credere alle sue equazioni. Per molti sostenitori della teoria dello stato stazionario, uno degli elementi di maggior attrazione era il fatto che l’universo non ha né un inizio né una fine e non era quindi necessaria una spiegazione di ciò che esisteva prima del tempo. Era noto come il principio cosmologico perfetto.

Dieci anni fa Stephen Hawking e Jim Hartle cercarono di risolvere il problema in maniera diversa, tentando di negare l’esistenza della singolarità. Sottoponendo a critica la teoria della gravità quantica, convennero che il tempo è finito, ma privo di inizio. Questa affermazione non è così strana come può sembrare, se si pensa alla superficie di una sfera. La superficie è finita, ma non esiste né un inizio né una fine, ci si può scorrere il dito sopra continuamente, forse ritornando allo stesso punto di partenza. Pensate all’universo come una sfera di spazio-tempo. Viaggiate attorno alla superficie e potete ritrovarvi nello stesso punto sia in termini di spazio che di tempo. Questo naturalmente richiede un viaggio nel tempo, violando il principio di Mach. Ma il mondo della meccanica quantistica, con il suo principio di indeterminazione, è un luogo alieno in cui possono accadere cose dell’altro mondo. È un luogo così lontano che può anche essere al di là della comprensione umana, bambini come noi appartengono al mondo della meccanica classica di Newton.

Semplicemente non sappiamo se vi è stato un inizio dell’universo e, quindi, l’origine dello spazio-tempo rimane nella «terra incognita». Non esiste domanda più fondamentale o più magica, sia in termini scientifici che teologici. La mia convinzione – o meglio la mia fede – è che la scienza continuerà a muoversi sempre più verso il momento della creazione, facilitata dalla sempre maggiore semplicità che troviamo man mano che ci avviciniamo. Alcuni fisici sostengono che la materia è riducibile a oggetti puntiformi con determinate proprietà intrinseche. Altri affermano che le particelle fondamentali sono in verità stringhe straordinariamente piccole che vibrano per produrre le loro proprietà. In entrambi i casi, con l’ausilio di concetti come quello di inflazione, è possibile immaginare la creazione dell’universo quasi dal nulla: non esattamente dal nulla, ma in pratica sì. Quasi una creazione ex nihilo, ma non proprio. Ciò costituirebbe un grande successo intellettuale, lasciando tuttavia la percezione del limite delle ricerche scientifiche, che terminano con una descrizione della singolarità, ma non con la sua spiegazione.

Per un ingegnere, nulla e quasi nulla possono sembrare due concetti abbastanza vicini. Per uno scienziato, e soprattutto per un filosofo, tale differenza, seppur minima, significa tutto. Ci possiamo trovare di fronte al brutto sogno di Jastrow con la domanda finale: perché? Le domande sui «perché» non sono tipiche della ricerca scientifica e rimarranno sempre nell’ambito della filosofia e della teologia, che possono offrire conforto, se non spiegazioni fattuali.

E se l’universo che vediamo fosse l’unico possibile, il prodotto di uno stato iniziale singolare forgiato da leggi singolari della natura? Risulta chiaro che la più piccola variazione nel valore di una serie di proprietà fondamentali dell’universo non avrebbe portato ad alcun universo, o avrebbe portato almeno a un universo molto diverso. Per esempio, se la forza nucleare forte fosse stata leggermente più debole, l’universo sarebbe stato composto di solo idrogeno; se fosse stata leggermente più forte, tutto l’idrogeno si sarebbe trasformato in elio. Una piccola variazione nell’eccesso di protoni rispetto agli antiprotoni – da un miliardo e uno a un solo miliardo – potrebbe aver prodotto un universo privo di materia barionica o una totalità cataclismica di essa. Se il ritmo di espansione dell’universo un secondo dopo il Big Bang fosse stato più piccolo di una parte su centomila miliardi, l’universo sarebbe collassato già molto tempo fa. Un’espansione più rapida di una parte su un milione avrebbe escluso la formazione di stelle e pianeti.

L’elenco delle coincidenze cosmiche necessarie per la nostra esistenza in questo universo è talmente lungo che Stephen Hawking ha dichiarato che «le probabilità contro un universo quale il nostro scaturito da qualcosa come il Big Bang sono enormi». Il fisico di Princeton Freeman Dyson andò oltre e disse: «Più esamino l’universo e i dettagli della sua architettura, più trovo prove che l’universo deve aver saputo in qualche modo che stavamo arrivando». Questa concatenazione di coincidenze necessarie per la nostra presenza in questo universo è stata definita principio antropico. Di fatto, è una semplice dichiarazione di un’ovvietà: se le cose fossero andate diversamente, noi non esisteremmo. Può essere che esistano molti universi diversi e, forse, molti esistono in parallelo con il nostro. La teoria inflazionaria può essere interpretata in tal modo, con il nostro universo che sboccia da un tessuto più ampio di spazio-tempo, come una fragola in un campo pieno di fragole. Tendo comunque a pensare che poiché le cose divengono più semplici con l’approssimarsi al momento della creazione, doveva esistere solo un numero limitato di possibilità; in realtà, una sola possibilità, con ogni cosa così perfetta da non poter esistere altrimenti.

In questo caso, che possiamo dire della domanda fondamentale? Che Dio non aveva scelta su come sarebbe stato l’universo e, quindi, non era necessario che esistesse? O che Dio era molto intelligente e lo ha fatto proprio nel modo giusto? Comunque sia, la scienza continua a chiedersi: perché queste condizioni e non altre? O forse la comprensibilità dell’universo in questi termini è una spiegazione sufficiente. La verità e il tesoro dell’universo sono costituiti dalla sua stessa esistenza e la nostra ricerca della verità e del tesoro saranno eterne, come eterno è l’universo.

[…]

Nel 1977 Steven Weinberg pubblicò I primi tre minuti, uno dei più famosi libri di cosmologia mai scritti e, giustamente, ancora ristampato. […] Verso la fine del libro, Weinberg riflette sulle domande che anche noi ci poniamo, in particolare sulla convinzione che, in qualche modo, gli esseri umani non sono un semplice incidente cosmico, il risultato occasionale di una serie di processi fisici in un universo che ci fa sentire insignificanti su ogni scala possibile. Esprime quindi in questo modo la sua opinione sulla materia: «È difficile rendersi conto che [questa bella Terra] è solo una piccola parte di un universo terribilmente ostile. È ancora più difficile rendersi conto che l’attuale universo si è evoluto da una condizione iniziale indicibilmente ignota e si trova di fronte a una futura estinzione con condizioni intollerabili di freddo o di caldo senza limite. Più l’universo appare comprensibile, più sembra contemporaneamente privo di significato".

Non sono d’accordo con il mio vecchio maestro. per me l’universo è tutt’altro che privo di significato. Sembra che quanto più apprendiamo tanto più ci rendiamo conto di come il tutto si incastri ed esista un’unità di base nel mare di materia, stelle e galassie che ci circondano. Analogamente, nello studio dell’universo nel suo insieme, ci rendiamo conto che il «microcosmo» e il «macrocosmo» sono sempre più la stessa cosa. Unificandoli, apprendiamo che la natura non è così com’è in quanto conseguenza casuale di una serie di eventi privi di significato; anzi, è proprio il contrario. L’universo appare sempre più così com’è in quanto deve essere in questo modo; la sua evoluzione era scritta fin dall’inizio, nel suo DNA cosmico, se così volete chiamarlo. Nell’evoluzione dell’universo esiste un ordine preciso, che va dalla semplicità e simmetria verso una maggiore complessità e differenziazione di strutture. Con il passare del tempo, componenti semplici si uniscono in blocchi più sofisticati che generano un ambiente più ricco e diverso. Avvenimenti fortuiti e casuali sono infatti una parte fondamentale dello sviluppo di tutta la ricchezza dell’universo. In quel senso (anche se non nel senso della fisica dei quanti), Einstein ebbe l’idea giusta: Dio non gioca a dadi con l’universo. Sebbene i singoli eventi abbiano avuto luogo in maniera fortuita, esiste un’inevitabilità globale che riguarda lo sviluppo di complessi sistemi sofisticati. Lo sviluppo di esseri capaci di porre delle domande e di comprendere l’universo sembra piuttosto naturale. Sarei piuttosto sorpreso se una tale intelligenza non fosse stata presente in molti luoghi del nostro grande universo.

Viaggiando per il mondo mi piace visitare i grandi musei d’arte, ammirare le sculture classiche e i dipinti raccolti nel corso dei secoli da appassionati collezionisti. Cosmologi e artisti hanno molto in comune: tutti cercano la bellezza, gli uni nel cielo e gli altri sulla tela o nella pietra. Quando un cosmologo intuisce il modo in cui le leggi e i principi del cosmo si combinano, si intrecciano, mostrano una simmetria che le antiche mitologie riservavano alle loro divinità – in pratica, il modo in cui leggi e principi implicano che l’universo deve essere in espansione, deve essere piatto, deve essere tutto ciò che è –, allora ha la percezione della bellezza pura e assoluta.

Il concetto religioso di creazione deriva dalla sensazione di stupore di fronte all’esistenza dell’universo e al posto che ci è riservato. Il concetto scientifico di creazione va invece al di là di quella sensazione di stupore: alla riverente ammirazione di fronte alla semplicità ultima e alla forza della creatività della natura fisica, e alla sua bellezza in tutti i suoi aspetti. 

  

da G. Smoot, K. Davidson, Nelle pieghe del tempo: la scoperta dell'universo neonato, Mondadori, Milano 1994, pp. 265-270