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La religiosità degli scienziati moderni

Rodney Stark
2003

For the Glory of God

Il sociologo della religione Rodney Stark dedica il secondo capitolo del suo libro For the Glory of God (2003) all’esame delle radici cristiane dello sviluppo storico della scienza, una tesi avviata all’inizio del Novecento da Pierre Duhem e successivamente ripresa da autori quali A. Koyré, S. Jaki, A. Crombie, P. Hodgson, della quale si trova traccia anche nelle alle riflessioni di un autore come A.N. Whitehead. Nell'ultima sezione del capitolo, qui riportato dalla traduzione in lingua italiana pubblicata la Lindau nel 2011, Stark fornisce una sintesi dei risultati di diverse indagini sociologiche sulla religiosità degli scienziati. Da esse emerge che in alcune categorie di uomini di scienza (soprattutto matematici e fisici) i “livelli” di religiosità sono abbastanza consistenti con il resto della popolazione, mentre nelle categorie dove è maggiormente presente un'attitudine negativa verso la religione, ciò sembrerebbe avvenire di solito per ragioni extrascientifiche.

È probabile che il primo sondaggio fra scienziati sia stato condotto da Francis Galton (1822-1911), il quale, nel 1872, spedì dei questionari a circa 190 «uomini di scienza inglesi» (Galton 1875; Hilts 1975). Galton era cugino di Charles Darwin e uno dei fondatori della psicologia quantitativa, ed era diventato famoso per i suoi studi sull’ereditarietà. La sua inchiesta fra gli scienziati si basò su uno dei questionari più naïf e di parte mai scritti, terribile quasi quanto quello distribuito fra i lavoratori inglesi in quello stesso decennio da Karl Marx (e ripubblicato in Bottomore, Rubel 1956). In precedenza Galton aveva sostenuto che l’interesse scientifico fosse ereditario, ma – convinto dalla corrispondenza tenuta con un biologo svizzero che vi fossero coinvolte sia la natura sia l’educazione – in questo studio voleva far spazio anche ai fattori ambientali. Per scoprirlo, Galton sottopose domande come queste:

Quale misura di cappello portate?

Quanto vi sembrano innati i vostri gusti scientifici?

La religione che vi è stata insegnata in gioventù ha avuto qualche effetto deterrente sulla libertà delle vostre ricerche?

Quando rispose al questionario, Charles Darwin scrisse «certamente innati» come risposta alla seconda domanda fra quelle presentate qui sopra. Alla terza, rispose semplicemente «No».

Ciò sorprese molto Galton. Essendo un ateo militante, si aspettava che tutti, e non solo Darwin, rispondessero «Sì». Egli sapeva che scienza e religione erano incompatibili. Ma non fu solo suo cugino a non dirlo; più di 90 scienziati dei 100 che risposero al questionario fecero altrettanto, e pare che Galton non abbia mai ammesso l’ambiguità della domanda. Egli fu anche molto sorpreso nello scoprire che quasi tutti coloro che avevano risposto dichiaravano un’affiliazione religiosa di qualche tipo. Indicativo è il fatto che Galton fornì cifre esatte per gran parte dei risultati (per esempio, scrisse che solo 13 avevano una testa di dimensione inferiore ai 55 centimetri e 8 superavano i 60), ma non fu così sollecito in merito ai risultati sulle domande religiose, e le cifre che ho riportato sono state in un certo senso ricostruite. Inoltre, benché ammettesse che molti avessero espresso idee religiose forti, sottolineò che «molti di coloro che si descrivono come religiosi tendevano […] ad apparire stranamente noncuranti del dogma ed esenti dal misterioso terrore» (Galton 1875, p. 97). In ogni caso, questi riscontri erano talmente sgraditi che quando il pioniere della statistica Karl Pearson (1857-1936) scrisse la biografia di Galton in tre volumi, ebbe molta cura di spiegare le ragioni metodologiche del perché quei dati non dovevano essere interpretati a favore della credenza ovviamente «erronea» che scienza e religione siano compatibili (Pearson 1914-1930). Ciò nonostante, quando furono condotti studi migliori i risultati non cambiarono.

Nel 1914, lo psicologo americano James Leuba inviò dei questionari a un campione casuale di persone elencate  nell’American Men of Science. A ognuno venne chiesto di scegliere una delle seguenti affermazioni «riguardanti la fede in Dio» (tutti i corsivi sono originali):

1. Credo in un Dio al quale posso rivolgermi con la preghiera nell’attesa di ricevere una risposta. Con «risposta» intendo qualcosa di più dell’effetto soggettivo e psicologico della preghiera.

2. Non credo in un Dio definito come sopra.

3. Non ho una convinzione definita in merito alla questione.

Lo standard scelto da Leuba per la fede in Dio è talmente rigoroso da escludere una quota rilevante di clero «tradizionale»1, e la cosa era ovviamente intenzionale. Egli voleva dimostrare che gli uomini di scienza non erano religiosi. Con suo sgomento, Leuba scoprì che il 41,8% del suo campione di scienziati importanti avevano scelto la prima opzione, prendendo quindi una posizione che molti avrebbero considerato «fondamentalista». Un altro 41,5% (molti dei quali, ammise Leuba, credevano senza dubbio in una divinità in un certo senso meno attiva) scelse la seconda opzione, e il 16,7% rispose con l’alternativa più indeterminata.

Evidentemente, questi risultati non erano quelli che Leuba si aspettava e sperava. Dunque, egli diede grande enfasi al fatto che, secondo le misurazioni, i credenti non erano la maggioranza,e continuò esprimendo la sua fede nel futuro, sostenendo che i dati dimostravano un rifiuto dei «dogmi fondamentali – un rifiuto evidentemente destinato a espandersi parallelamente alla diffusione della conoscenza» (Leuba [1916] 1921, p. 280). Tuttavia, quando il suo studio venne ripetuto con una metodologia corretta, nel 1996, i risultati furono invariati (Larson, Witham 1997). Dunque, in un arco di tempo di 82 anni, nella comunità scientifica non c’era stato nessun calo in una fede in Dio assolutamente letterale.

Nel 1969 la Carnegie Commission condusse un vasto sondaggio su più di 60.000 professori – circa un quarto di tutto il corpo insegnanti di college americani, di gran lunga il più ampio sondaggio di questo tipo. Il sondaggio era centrato su questioni accademiche e attitudini socio-politiche, ma includeva anche alcune domande in merito alla religione: «Quanto spesso frequenta servizi religiosi?», «Qual è la sua religione al momento?», «Quanto si considera religioso?», e «Si considera un conservatore dal punto di vista religioso?».

La Tabella riassume le risposte a seconda dei diversi campi scientifici. Due riscontri piuttosto sorprendenti sfidano le pretese di incompatibilità fra religione e scienza. Per prima cosa, i livelli di religiosità sono relativamente elevati. In secondo luogo, gli studiosi di scienze sociali sono notevolmente meno religiosi di coloro che si occupano di settori che potrebbero essere considerati più avanzati dal punto di vista scientifico.

 

 

% Persone religiose % Abituali frequentatori % Non frequentanti % Conservatori % Non religiosi

Matematica

60 47 35 40 27

Scienze fisiche

55 43 38 34 27

Scienze naturali

55 42 36 36 29

Scienze sociali

45 31 48 19 36

Economia

50 38 42 26 30

Scienze politiche

51 32 43 18 30

Sociologia

49 38 43 16 36

Psicologia

33 20 62 12 48

Antropologia

29 15 67 11 57

 

Tabella: Religiosità a seconda del settore scientifico. Fonte: Calcoli tratti dal Carnagie Commission Survey condotto su 60.028 professori universitari, 1969.

In gran parte dei campi di studio, una maggioranza si ritiene religiosa, moderatamente o profondamente – soltanto fra gli studiosi di scienze sociali si tratta di una minoranza (45%). Inoltre, gli scienziati non si limitano a una fede tiepida – il 40% dei professori universitari di matematica e statistica si descrive come «conservatore» in tema di religione, così come il 34% degli studiosi di scienze fisiche e il 36% di quelli di scienze naturali. Per di più, gli scienziati frequentano le chiese con gli stessi livelli di regolarità della popolazione generale – il 47% dei matematici e degli statistici dice di frequentare servizi religiosi due o tre volte al mese, o più spesso, così come il 43% dei professori di scienze fisiche e il 42% di quelli di scienze naturali. Il General Social Survey del 1973 (solamente di quattro anni successivo a questo), riscontrò che il 44% degli americani frequentava servizi religiosi almeno due o tre volte al mese. Gli scienziati, tuttavia, mostrano una percentuale leggermente superiore rispetto a quella di chi, fra la popolazione generale, dichiara di non frequentare nessuna chiesa – circa un terzo nella maggior parte dei settori scientifici e quasi la metà in quelli delle scienze sociali, in confronto a un 21% della popolazione in generale. In aggiunta, gli scienziati superano la popolazione in generale nella percentuale di chi afferma di non aver «nessuna» preferenza religiosa. Ciò nonostante, al di fuori del campo delle scienze sociali, solo uno su quattro ha dato questo tipo di risposta.

Eppure, la scoperta forse più straordinaria è che per ognuna di queste misurazioni, i professori che si occupano di scienze più «rigorose» si rivelano molto più religiosi delle loro controparti di scienze più «morbide», come le scienze sociali: frequentano la chiesa con maggiore regolarità, hanno una più elevata probabilità di descriversi come «profondamente» o «moderatamente» religiosi e di dichiararsi «conservatori», oltre che di rivendicare un’affiliazione religiosa. Questo tipo di schema non è evidente solamente nelle semplici misure riportate in tabella, ma anche nelle regressioni complesse: le differenze fra le scienze sociali e le scienze naturali e fisiche sono estremamente forti e resistono a controlli per caratteristiche individuali quali età, sesso, razza, o educazione religiosa. Inoltre, queste differenze fra le aree scientifiche sono state confermate anche dai sondaggi su altri campioni di professori di college (Leuba [1916] 1921 e 1934; Thalheimer 1973), e persino di gruppi di studenti universitari (Feldman, Newcomb 1970). Inoltre, Steven Bird ha scoperto che gli studenti di scuola superiore con affiliazioni «fondamentaliste» non avevano meno probabilità degli altri di dichiarare di avere fratelli maggiori impegnati in studi scientifici al college (Bird 1993). E dati di natura longitudinale dimostrano che professori e studenti non diventano meno religiosi man mano che avanzano nella loro carriera scientifica; anzi, gli iscritti a scienze sociali sono meno religiosi della popolazione in generale ancor prima di entrare al college e alle scuole di specializzazione (Wuthnow 1985, p. 191).

Nella Tabella, poi, le scienze sociali sono suddivise in campi specifici. Qui, possiamo notare un’altra caratteristica: sono soprattutto le facoltà di psicologia e antropologia a ergersi come vette dello scetticismo. Le altre scienze sociali sono relativamente non religiose, mentre queste due sono dei veri casi isolati. Gli psicologi e gli antropologi, rispetto agli scienziati, hanno quasi il doppio di probabilità di non frequentare una chiesa, di non definirsi persone religiose, e di dichiarare di non seguire nessuna religione. Tali differenze sono così grandi che difficilmente si può ipotizzare che non abbiano nessuna influenza su linguaggio, istruzione e ricerca nei rispettivi campi. Anzi, al contrario, i dati gettano luce sul motivo per cui sia così diffusa la convinzione che scienza e religione siano incompatibili: quasi tutto ciò che è stato scritto sull’argomento nel corso del XX secolo è opera di non-scienziati, o di studiosi di scienze sociali. Sarebbe difficile immaginare di trovare la seguente citazione in un libro di testo per studenti universitari di fisica o chimica: «Il futuro evoluzionistico della religione è l’estinzione. […] La fede in forze soprannaturali è destinata a svanire, in tutto il mondo, come risultato della sempre maggiore adeguatezza e diffusione della conoscenza scientifica». (Wallace 1966, p. 265)

Eppure, non vi furono sopracciglia alzate in segno di sorpresa quando queste parole apparvero in un manuale per studenti universitari scritto dall’illustre antropologo Anthony F. C. Wallace.

Questo contrasto fra scienze sociali e scienze fisiche è ben illustrato dal seguente aneddoto. Nel 1940, A. S. Yahuda, il professore di Yale che aveva acquistato la raccolta di manoscritti di Newton che oggi si trova a Gerusalemme, propose a George Sarton di mostrargli le opere teologiche di Newton. L’illustre storico di Harvard declinò l’offerta in maniera piuttosto sgarbata, sostenendo di essere interessato solamente alla scienza2. Ma quando Yahuda mostrò i manoscritti ad Albert Einstein, questi li trovò affascinanti e scrisse una lettera nella quale esprimeva la sua gioia nell’esaminare «il laboratorio spirituale» di Newton (Manuel 1974, p. 27). Einstein era piuttosto incline al «parlare di Dio» (Regis 1987, p. 24). Nel 1911, disse al filosofo ebreo Martin Buber: «Ciò a cui noi [fisici] aspiriamo è proprio tracciare le Sue linee dopo di Lui». Nel 1921 disse a un giovane fisico: «Io voglio scoprire come Dio ha creato questo mondo. […] Voglio conoscere i Suoi pensieri, il resto sono dettagli». Inoltre, sono divenute famose due delle affermazioni che faceva spesso in merito a Dio: «Dio è sottile, ma non malizioso», e «Dio non gioca a dadi con il mondo» (Clark 1971, pp. 18-19; Regis 1987, p. 24). Benché alcuni biografi di Einstein neghino che il suo uso della parola «Dio» abbia delle implicazioni religiose (Clark 1971; Snow 1968), non c’è bisogno che qui si approfondisca tale questione. Quello che mi interessa è solo sottolineare come queste espressioni non facessero sollevare nessun sopracciglio, né lo fanno ora, nel mondo della fisica e delle scienze naturali, mentre qualsiasi studioso di scienze sociali che parlasse in questo modo verrebbe stigmatizzato dai colleghi. E questo è il probabile motivo per cui i sociologi della scienza continuano a seguire l’esempio di Sarton. Non solo non sono interessati alla religiosità di Newton o Einstein, ma hanno anche mostrato poco o nessun interesse per il grande revival di simili discorsi nei circoli scientifici.

Il 20 luglio 1998, la copertina di «Newsweek» proclamò: «La scienza scopre Dio». Dati i presupposti che hanno governato le opinioni intellettuali su scienza e religione per la maggior parte del secolo, la scoperta che molti sofisticati scienziati credano che la figura di un Creatore offra la spiegazione più semplice e più convincente di come è nato il mondo, è una notizia degna di una copertina. Eppure, non si può certo dire che sia stata una scoperta improvvisa. Una pietra miliare nella ripresa di un dialogo serio fra scienza e teologia fu il libro di Ian Barbour, Issues in Science and Religion (1966). Da quel punto in poi, gli importanti tentativi (soprattutto da parte di scienziati) di combinare religione e scienza, come God and the New Physics (Davies 1983; ed. it. Dio e la nuova fisica, 1984), hanno attratto un vasto pubblico di lettori. Inoltre, questi sviluppi possono essere interpretati come un ritorno al rapporto tradizionale fra teologia e scienza. Le nuove e brillanti opere di teologi come John Polkinghorne (1998; ed. itCredere in Dio nell’età della scienza, 2000), unico membro ecclesiastico della Royal Society di Londra, seguono la tradizione della teologia naturale – come riconosce pienamente lo stesso Polkinghorne. Allo stesso modo, i tentativi di scienziati come il premio Nobel per la fisica Charles Townes di dimostrare che Dio è un fattore necessario in qualsiasi spiegazione esauriente dell’universo (Townes 1995), sono del tutto allineati a una lunga tradizione, quella stessa tradizione che la crociata darwiniana ha cercato di interrompere. Potremmo persino dire che questo rinnovato rapporto sia un ritorno alla «normalità» se ammettiamo che avesse ragione Albert Einstein nell’affermare: «La scienza senza la religione è zoppa. La religione senza la scienza è cieca» (Einstein 1954, p. 46).

Non voglio sostenere che gli scienziati debbano includere Dio all’interno delle loro cosmologie, né che i non credenti non siano in grado di fare buona scienza. Piuttosto, sostengo che religione e scienza siano compatibili, e che le origini della scienza risiedano nella teologia.

    

Note

[1] Un campione trasversale di ministri protestanti di Chicago, alla fine degli anni ’20, rivelò che, benché tutti dichiarassero la propria convinzione che «Dio esiste», solo il 64% diceva che «la preghiera ha il potere di cambiare le situazioni in natura». Nello stesso studio si interrogavano anche degli studenti di cinque scuole teologiche, dei quali solo il 21% concordava con l’affermazione sulla preghiera (Betts 1929). In un sondaggio a campione sul clero protestante nella California del 1968, solo il 45% dei pastori della Chiesa Unita di Cristo era d’accordo con l’affermazione: «So che Dio esiste e non ho alcun dubbio a proposito» (Stark et al 1971); del clero metodista, era d’accordo un 52%. Si noti che questa affermazione è molto meno rigorosa di quella proposta da Leuba, dal momento che il clero era libero di definire Dio come preferiva. Dato che la maggioranza di questo stesso clero dubitava della divinità di Gesù, si deve supporre che molti di questi religiosi dichiarassero una fede in una concezione di Dio piuttosto remota e vaga, non di certo un Dio che possa ascoltare e rispondere alla preghiera.

[2] La cosa non sorprende poiché Sarton rimase un fedele sostenitore di A. D. White e della convinzione che la religione sia la nemica naturale della scienza (si veda Sarton 1955).

   

Bibliografia citata dall’autore

BIRD Steven 1993, Religion and Modernity in the United States: A Rational Choice Analysis of Conflict and Harmony, tesi PhD, Purdue University.
GALTON Francis 1875, English Men of Science: Their Nature and Nurture, Appleton and Company, New York.
HILTS Victor L. 1975, A Guide to Francis Galton's «English Men of Science», American Philosophical Society, Philadelphia.
LARSON Edward J., WITHAM Larry 1997, Scientist Are Still Keeping the Faith, «Nature», n. 386, 3 aprile, p. 435
LEUBA James H. 1934, Religious Beliefs of American Scientists, «Harper's Magazine», n. 169, pp. 291-300.
THALHEIMER Fred 1973, Religiosity and Secularization in the Academic Professions, «Sociology of Education», n. 46, pp. 183-202
WUTHNOW Robert 1985, Science and the Sacred, in Phillip E. Hammond (a cura di), The Sacred in a Secular Age, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, pp. 187-203

     

Rodney Stark, A Gloria di Dio, tr. it. di Diana Mengo, Lindau Torino, 2011, pp. 255-262 (or.: For the Glory of God, Princeton University Press, Princeton 2003).