Stoppani si interroga su come gli studi scientifici possano contribuire allo sviluppo della comprensione delle verità di fede, e, illustrando il suo pensiero con una bella immagine relativa al “recupero” di un monumento dell’antichità classica, propone come primo passo utile quello di liberare gli enunciati di fede da interpretazioni erronee. Ne fa poi l’applicazione alla geologia, la sua scienza, mostrando come le conseguenze delle posizioni concordiste portino a degli atteggiamenti palesemente inconsistenti
Ho già affermato altrove che gli studi geologici e cosmologici, in cui ho consumata già la massima parte della mia vita, non li ho diretti soltanto all’acquisto delle verità naturali, da cui la scienza umana trae tutto il suo alimento, anzi il suo essere; ma li ho rivolti con amore anche alla conquista del vero soprannaturale, e nominatamente all’intelligenza di alcuni punti della Sacra Scrittura, che mi sembravano da principio realmente bisognosi d’acquistar lume dai profani studi. Si potrà domandarmi: – che cosa ci abbia raccolto? che cosa almeno io speri di raccoglierne? – Ho già avvertito che si può illustrare sempre maggiormente il dogma in due modi positivamente e negativamente. Si può portare al dogma la luce di nuovi argomenti in sua difesa, o di nuovi concetti, che d’implicito lo renda esplicito, onde l’umana intelligenza possa affacciarsi a contemplare da tutti i suoi lati, sotto tutti gli aspetti, in tutti i suoi rapporti, il vero rivelato, sempre prodigiosamente fecondo. È tuttavia già un gran servizio che si rende alla verità, quando si riesca a sgombrarla anche da una piccola parte di quell’ombra che le fa l’umana ignoranza, o da alcuno di quegli ingombri, di quelle postume superfetazioni di cui l’ha coperta, più che l’ignoranza crassa e supina, quella che è peggiore di essa, cioè la scienza erronea e pretenziosa. Supponiamo là in una solitudine, ovvero nel mezzo di una città, un bello e grande edifizio greco o romano, ancora conservato nella sua integrità, ma da secoli maltrattato dalla natura e dall’arte con quanti mezzi l’una e l’altra dispongano per distruggere e annientare anche le più belle e le più solide opere dell’uomo. Le alluvioni e lo sfasciume d’ogni genere hanno quello stupendo edifizio, fino ad una certa altezza dalle sue fondamenta, interrito; i muschi, i licheni, le edere vi si sono da tutte le parti abbarbicati, e d’in tra gli ornati più squisiti, sbocciano le erbacce e le male piante; i gufi vi si annidano da secoli, e fin le rondini appendono da secoli, sotto ai marmorei cornicioni, i loro nidi d’argilla. L’uomo vi ha contribuito la parte sua; una gran parte di quello stupendo edifizio ha involto di nuove costruzioni; forse di meschine casipole e di abituri crollanti; l’ha caricato di aggiunte, guastandone lo stile; l’ha infarcito d’ornati posticci; gli ha fatto insomma tutto quello che han fatto gli uomini, anche profanando il santo nome dell’arte e usurpandone i diritti, a tutti gli edifici greci e romani veri, di cui bastano i ruderi, dissepolti dalle secolari ruine, a sbalordirci coi redivivi splendori dell’arte antica. Per buona sorte, ripeto, quel nostro immaginario edificio s’è conservato intatto nella sua sostanza; un genio tutelare l’ha difeso così da tutte le ingiurie della natura e dell’arte, che, tolti gl’ingombri, potrebbe ancora ammirarsi in tutto lo splendore. – Che c’è dunque da fare per questo scopo? – Null’altro che fare uno sterro per liberarlo dal detrito e dalle macerie; strapparne le piante parassite che fanno velo alla bellezza delle sue facce; demolire quanto i secoli barbari vi hanno costrutto o sopra o d’attorno; e allora rivedremo in tutta la sua bellezza l’antico edificio, e potremo a tutt’agio, senza bisogno di indovinare o supporre, ristudiarlo da capo in tutti i suoi minimi dettagli.
Io credo che sia questo, più che altro, il servizio che le scienze positive, e principalmente la geologia, sono chiamate a rendere alle Scritture. Per me sarebbe già un grande vantaggio quello che i miei studi geologici m’avessero insegnato non essere la Cosmogonia quella che deve dirci com’è fatto, o in quanto tempo fu fatto il mondo; ma non essere nemmeno la geologia quella che deve dirci come si deve intendere la Cosmogonia, scritta per uomini, per popoli che non possedevano nemmeno i primi rudimenti delle scienze positive. Sarebbe curioso che il racconto mosaico avesse dovuto aspettare Cuvier e Lyell per essere inteso da quelli per cui era scritto. Più curioso ancora sarebbe che noi dovessimo ricorrere alla Bibbia, per sapere com’è fatto il mondo, mentre il mondo medesimo abbiamo sotto gli occhi per osservarlo, studiarlo, scandagliarne gli abissi, anatomizzarlo, sfibrarlo, penetrarne la natura, e rifarne la storia con tutti i mezzi che ci sono forniti, e coi criteri logici, non meno certi dei matematici, che ci sono offerti dalla fisica, dalla chimica, dalla paleontologia, dalla matematica, insomma da tutte le scienze naturali e positive, la cui certezza, nell’ordine delle naturali cose, è tanta, quanto nell’ordine delle cose soprannaturali è la certezza teologica. Non vi pare che, cercando alla Bibbia, piuttosto che alla geologia, la storia del globo, il geologo sarebbe almeno altrettanto ridicolo quanto l’anatomista e il fisiologo, che, avendo a mano il bistori e il microscopio per penetrare fin nell’intimo dei tessuti, e sorprendere in funzione la cellula, andasse racimolando i testi biblici dove si parla di sangue, di precordi, di lombi e di viscere, per imparare l’anatomia umana?
A. Stoppani, L’Exemeron: Nuovo saggio di una esegesi della Storia della Creazione secondo la Ragione e la Fede. Volume I: I commentatori della storia della creazione. Sul generale significato esegetico della cosmogonia mosaica, Utet, Torino 1893, pp. 17-18.