L’immagine scartata. Una introduzione alla letteratura medievale e rinascimentale

Introduzione. Il modello che abbiamo “scartato” e la nuova scienza moderna di Danilo Zardin; 1. La situazione medievale; 2. Riserve; 3. Materiali scelti: l’età classica – 3.1. Il Somnium Scipionis 3.2. Lucano – 3.3. Stazio, Claudiano, e Donna “Natura” – 3.4. Il De deo Socratis; 4. Materiali scelti: il periodo embrionale - 4.1. Calcidio – 4.2. Macrobio – 4.3. Lo Pseudo-Dionigi – 4.4. Boezio; 5. I cieli – 5.1. Le parti dell’universo – 5.2. Le loro operazioni – 5.3. I loro abitanti; 6. I Longaevi; 7. La Terra e i suoi abitanti – 7.1. La Terra – 7.2. Gli animali – 7.3. L’anima dell’uomo –7.4. L’anima razionale – 7.5. Anima sensibile e anima vegetativa – 7.6. Anima e corpo – 7.7. Il corpo umano – 7.8. Il passato dell’uomo – 7.9. Le sette arti liberali; 8. L’influenza del modello; Epilogo.

 

«Descrivere l’universo immaginario generalmente presupposto dalla letteratura e dall’arte medievale» (p. 29), questo, con le parole dello stesso Autore, l’obiettivo che si prefigge l’Immagine scartata, volume edito originariamente nel 1964 e frutto della rielaborazione di un ciclo di lezioni che Lewis tenne ad Oxford. Illustrare, esporre le caratteristiche salienti del modello cosmologico e antropologico che rappresenta l’espressione fondamentale della cultura e della visione del mondo medievale e che, proprio per questo motivo, delinea lo sfondo intellettuale sul quale si stagliano, a tratti complesse ed enigmatiche, a volte – per noi smaliziati lettori moderni – apparentemente ingenue, le opere artistiche e letterarie realizzate nell’età di mezzo, opere che a questo modello dell’universo si riferivano e che da esso traevano gran parte della propria suggestiva autorevolezza. Certamente C.S. Lewis (1898-1963) è noto alla maggioranza dei lettori come uno dei massimi esponenti della letteratura fantasy – è autore, infatti, della serie di romanzi de Le Cronache di Narnia –, ma non tutti sanno che è stato anche un insigne studioso e docente di letteratura medievale e rinascimentale nelle università di Oxford e Cambridge, nonché autore di numerosi scritti che rivelano un ampio campo d’interessi che va dalla critica letteraria all’apologetica cristiana. In particolare, ne l’Immagine scartata, Lewis, come rileva lo storico Danilo Zardin nell’accurata introduzione, «rievoca con rara capacità di aderenza e grande potenza immaginativa l’universo culturale che ha inquadrato la vita dell’uomo europeo fino alla nascita del mondo pienamente moderno» (p. 7) e ciò con un approccio che contempera in modo estremamente adeguato e fruibile l’erudizione dell’accademico con l’empatia, la partecipazione calorosa e accogliente di colui che ammira, con un pizzico di nostalgia, la grandiosa architettura del modello cosmologico medievale, quasi fosse anch’esso – al pari dei capolavori che ha ispirato – un’opera d’arte suscettibile di godimento estetico.

D’altra parte, «raramente» – afferma Lewis – «l’immaginazione umana si è trovata dinanzi un oggetto ordinato in maniera tanto sublime quanto il cosmo medievale. Dal punto di vista estetico, il suo unico difetto sta, forse, almeno per noi che siamo passati attraverso il Romanticismo, proprio nel fatto che, appunto, è un tantino troppo ordinato» (p. 109). Si tratta di un modello cosmologico, di una concezione dell’universo che obbedisce, infatti, al principio fondamentale che presuppone «un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto» (p. 168). Nelle sue manifestazioni più tipiche – fa notare l’Autore – l’uomo medievale, in effetti, non era affatto un sognatore o un ingenuo; piuttosto, era «un organizzatore, un codificatore, un fabbricatore di sistemi. […] Distinzioni, definizioni e tabulazioni facevano la sua delizia» (p. 27). Come emerge dalla descrizione partecipe ed appassionata che Lewis ne fa, ciò determina un cosmo saldamente coeso, un meccanismo complesso e, al contempo, grandioso, tenuto in piedi dal reciproco, armonico, intersecarsi delle parti che lo compongono, quasi fossero le tessere di un poliedrico mosaico strutturato da un ordine armonioso e perfetto che trasuda bellezza, luminosità, grazia – riflesso e specchio di Colui che con sapienza lo ha creato – e provoca nell’osservatore libero da pregiudizi non solo l’ammirazione dell’intelletto, ma anche la meraviglia, affascinata e stupita, di un profondo coinvolgimento emotivo. Lewis paragona il modello cosmologico del Medioevo a capolavori quali la Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino e la Divina commedia di Dante, opere compatte e ordinate, capaci di unificare e sistematizzare compiutamente enormi masse di materie eterogeneo. Come la Summae la Commedia, anche il cosmo medievale «è vasto e insieme limitato e intellegibile. Ed è sublime senza per questo essere vago oppure oscuro: […] si tratta di un sublime più classico che gotico; il suo contenuto, per quanto ricco e vario, è armonico. Tutto si ricollega a tutto, ma non banalmente, non su uno stesso piano, bensì secondo una scala gerarchica» (p. 28). Se contemplare il cielo stellato con gli occhi di un osservatore moderno equivale a «scrutare il mare e vederlo scomparire lentamente fino a perdere i contorni nella foschia» (p. 92), l’atteggiamento dell’uomo medievale nei confronti del “suo” universo è molto più simile a quello di chi visita un’immensa cattedrale e ne guarda, con occhi appagati e mente estasiata, la bellezza architettonica. Al contrario – sembra suggerire Lewis – la concezione dello “spazio” svelata dai potenti telescopi e dai fecondi modelli euristici della moderna astronomia, per quanto forte della sua maggiore oggettività e accuratezza esplicativa e predittiva, è, proprio nella sua fredda profondità siderale e assenza di confini noti, sottilmente pervasa da un’inquietudine, da uno smarrimento che disorienta e lascia sgomenti, così come notato da un testimone acuto della rivoluzione cosmologica allora in atto, Blaise Pascal, il quale, nel rivolgere lo sguardo al cielo, affermò: «Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi incute spavento» (p. 15 e 93). Questo il prezzo inevitabile da pagare con il crollo delle antiche certezze, del vecchio mondo a misura d’uomo e il conseguente avvento del moderno disincanto.

Alla stregua di un abile disegnatore, Lewis, con estremo dettaglio, delinea dinanzi al lettore il modello cosmologico del Medioevo, attraverso un esame che sa coniugare l’attenzione minuziosa, analitica per il particolare – anche insolito e curioso – con l’abbraccio panoramico, dall’alto, mostrandone, al contempo, l’intrinseca e complessa coerenza e la distanza epistemologica che lo separa dalla visione del mondo contemporanea. Ciascuno degli otto brevi capitoli in cui è suddiviso il volume descrive un aspetto rilevante che connota l’universo medievale – dalle fonti filosofiche, letterarie e teologiche, da cui esso trae linfa vitale, al “gioco” maestoso dei cieli, dalla terra e i suoi abitanti, alla concezione antropologica che esso implica, fino a giungere all’influenza che, nel corso del tempo, il Modello ha avuto sull’arte e la letteratura. Ecco, dunque, che, come in un variopinto arazzo, viene mostrato un cosmo vivo, articolato, dinamico, a tratti sincretico, la cui intelaiatura essenziale, ereditata dall’antichità classica, è rimaneggiata dalla teologia cristiana e integrata nella prospettiva biblica della storia della salvezza, tesa tra creazione e compimento escatologico. Si tratta di un universo qualitativamente denso, suddiviso, seguendo il pensiero aristotelico, in due regioni distinte: il mondo sublunare – regno della Natura, del contingente e della mutevolezza, composto dai quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco) – e in una regione superiore, il Cielo, luogo dell’immutabilità e della perfezione. Tutti gli enti, in una simile concezione, avevano la loro sede precisa e la loro precisa ragione d’essere e ciascuno, in virtù di legami analogici fondati su simpatie e antipatie, era in relazione con l’altro, permettendo l’instaurarsi di una sorta di continuità tra eventi di natura meramente fisica e altri di natura più squisitamente spirituale. L’architettura di quest’universo, d’impianto saldamente tolemaico, implicava la centralità della Terra, di forma sferica e immobile, «in cui l’essere si stempera sul limitare del nulla» (p. 105), circondata da una serie di globi cavi e trasparenti (le sfere o cieli) disposti l’uno sopra l’altro, fino a giungere ai margini della luce intellettuale e purissima di Dio, artefice e provvidente reggitore dell’intera giostra cosmica. E proprio da Dio discendono ogni forma di movimento e di efficacia, di energia dinamica che permette all’universo di sussistere e alle sfere di ruotare. È, infatti, l’amore per Dio, l’attrazione che Egli esercita a far muovere la prima sfera, quella più alta (il Primum mobile), la quale trasmette poi il moto al resto dell’universo. Si tratta di un cosmo, perciò, pervaso e animato dal desiderio inesausto verso Colui che ne rappresenta il fulcro, verso Dio che muove ed attrae come l’oggetto di un desiderio muove chi lo desidera. La visione antropologica che ne scaturisce lascia emergere la significativa e paradossale posizione dell’uomo, essere composito, animale razionale, simile in parte agli angeli e in parte alle bestie, esso stesso un microcosmo, uno spaccato dell’essere stesso, chiamato da Dio alla trascendenza. A differenza del nostro,«il modello dell’universo dei nostri antenati»– fa notare Lewis in maniera estremamente pertinente – «aveva […] un significato intrinseco, e questo in due sensi: in quanto era dotato “di una forma significante”(era in sé un disegno degno di ammirazione) e in quanto era una manifestazione della saggezza e della bontà che l’avevano creato. Non si trattava quindi di infondergli la bellezza o la vita. […] Il Modello era già perfetto di per sé» (p. 172). Insomma, si era certi che esso fosse un fedele ricalco della struttura ontologica del reale e, in ciò, era garanzia di saldo orientamento e di univocità di Senso.

Particolarmente interessante e degno di nota – a giudizio di chi scrive – è l’epilogo del volume, nel quale Lewis, abbandonando il tono prevalentemente descrittivo dei capitoli precedenti, assume una prospettiva spiccatamente epistemologica, consegnandoci delle preziose e dense riflessioni filosofiche, ancora assai stimolanti nell’attuale scenario intellettuale. Scopo principale dell’Autore è esaminare lo statuto epistemico e la validità del modello cosmologico medievale. Al riguardo, non senza una sottile ironia, egli scrive: «Poche costruzioni fantastiche, a mio avviso, hanno sortito una così perfetta combinazione di splendore, sobrietà e coerenza. Ma qualche lettore starà certo morendo dalla voglia di ricordarmi che quello stesso modello aveva un difetto non trascurabile: era tutto falso. D’accordo, era tutto falso. Però mi piacerebbe concludere dicendo che un’accusa del genere non può avere per noi il peso che avrebbe avuto nell’Ottocento» (p. 181). In altre parole, ciò significa che l’ingenuo ottimismo positivista tipico della seconda metà del XIX secolo e della prima metà del XX, il quale presumeva, con una certa supponenza scientista, che «le inferenze effettuate a partire dall’esperienza sensibile (potenziata dagli strumenti) avrebbero consentito di “conoscere” la realtà ultima delle cose» (ibidem), è stato eclissato da una più profonda e attenta sensibilità filosofico-scientifica. Si è, infatti, preso atto che i modelli usati dalle scienze per descrivere, spiegare e prevedere i fenomeni non sono affatto delle riproduzioni in miniatura della realtà, quanto, piuttosto, degli strumenti euristici che, in modo più o meno fecondo, riescono a cogliere alcune “increspature” del reale: «A volte illustrano questo o quell’aspetto della realtà per analogia; altre volte, invece di illustrare, si limitano a suggerire, un po’ come fanno i mistici nei loro detti» (p. 182). Pertanto, incalza Lewis, «a questo punto sarebbe un tantino capzioso sostenere che per gli uomini del Medioevo l’universo era fatto in un certo modo, mentre noi sappiamo che è fatto in un altro. Adesso, tra le altre cose, sappiamo proprio che non è possibile, secondo l’antica accezione del termine, “sapere” com’è fatto l’universo. E sappiamo anche che, sempre in quel senso, nessun modello sarà mai in grado di riprodurlo» (p. 183). Una grande lezione, questa, di umiltà ed avvedutezza epistemologica che consente, fra l’altro, di storicizzare la narrazione, sovente semplicistica e mitizzata, della rivoluzione scientifica che nel corso del Cinquecento e del Seicento, attraverso un processo nient’affatto lineare e rapido, ma tortuoso, dialettico, accidentato – e, a quel tempo, per nulla scontato negli esiti – provocò l’emergere di una nuova immagine dell’universo e contribuì ad erodere e, infine, a “scartare” il vecchio modello cosmologico medievale, ormai messo in discussione dal sorgere di una nuova mentalità sperimentale e dall’affermarsi di un inedito approccio metodologico. Ovviamente, con ciò Lewis non intende certo sottovalutare né mettere in discussione il guadagno conoscitivo che si ebbe con il passaggio dalla concezione del mondo densamente qualitativa propria del Medioevo alla realtà quantificabile e più oggettiva, soggetta a verifica e falsificabile, della scienza moderna. Piuttosto, con piglio avvedutamente filosofico, si limita solo «a suggerire qualche considerazione che ci consenta di osservare tutti i modelli nella giusta luce, e di rispettarli senza idolatrie. […] L’avvicendarsi dei modelli non si può più liquidare come un passaggio dall’errore alla verità. Nessun modello è un catalogo delle realtà ultime, ma nemmeno è pura fantasia. Ognuno rappresenta un serio tentativo di comprendere tutti i fenomeni conosciuti in una data epoca, e in genere riesce a comprenderne parecchi» (p. 185). Incluso il Modello medievale che, se allo sguardo superficiale e disincantato di noi moderni può apparire ingenuamente fantasioso, contribuì, con il suo articolato spessore gnoseologico, al fiorire di un’immensa ed inestimabile produzione culturale, feconda e preziosa radice del nostro vecchio mondo occidentale, come ci mostra, in modo estremamente adeguato e intellettualmente coinvolgente, l’affascinante lettura de L’immagine scartata.

 

 

 

Paolo Pizzuti
2023