L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera.

INDICE: 1. La ricerca delle mie verità; 2. Morte e resurrezione di una verità; 3. Il cammino verso il metodo; 4. Il baniano; 5. Vivere; 6. L'Umanesimo rigenerato; Per una razionalità aperta.

   

Nato a Parigi nel 1921 e tuttora vivente all’epoca di questa redazione (2024), Edgar Morin è senza dubbio uno dei pensatori più prestigiosi e innovativi dei nostri tempi. Sebbene gli ambiti dei suoi scritti riguardino in primo luogo la filosofia, la sociologia e la pedagogia, lo si può a ragione qualificare un pensatore a tutto campo, avendo egli frequentato da vicino anche numerose tematiche scientifiche. La sua è stata una carriera di studioso e di ricercatore (inquadrato dal 1951 nel CNRS francese) e solo occasionalmente quella di docente, avendo tenuto solo brevi corsi come visiting professor.

Di fronte ad un Autore dalla produzione assai estesa e variegata, come nel caso di Edgar Morin, il lettore potrebbe incontrare serie difficoltà nell’accostarsi al suo pensiero, ritenendo, a ragione, di non poterlo abbracciare e comprenderlo nelle sue diverse manifestazioni. A questa difficoltà viene provvidenzialmente incontro il volume L’avventura del Metodo, di sole 150 pp., scritto nel 2015 e pubblicato nel 2023 da Raffaello Cortina con la traduzione e la cura di Francesco Bellusci, studioso attivo negli stessi ambiti di interesse di Morin.

In questo volume l’A. ripercorre la sua vita intellettuale mostrando, come recita il sottotitolo, in qual modo “la vita ha nutrito l’opera”. Al lettore viene così offerto il filo rosso che ha prima generato e poi collegato fra loro, fin dall’inizio, gli interessi del pensatore francese, rendendoli parte di un progetto unitario e attraente, quello di individuare un metodo coerente e convincente per riaffrontare e contestualizzare nell’epoca contemporanea le tre grandi domande kantiane: Che cosa posso conoscere, Che cosa devo fare, Che cosa posso sperare? Ad esse Morin aggiungerà progressivamente la domanda sul soggetto, Chi sono io?, e come il soggetto entri in relazione con l’ambiente, con il cosmo, con il tutto, riconoscendosi parte del suo stesso conoscere, valutare, operare.

Siamo di fronte ad un libro conciso ma prezioso. Le sue pagine ci consentono di riconoscere la traiettoria che ha dato origine dal 1977 al 2004 ai 6 volumi del suo Metodo (1. La natura della natura; 2. La vita della vita; 3. La conoscenza della conoscenza; 4. Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi; 5. L’identità umana; 6. Etica), presentandoci anche il contenuto essenziale dei numerosi altri libri che hanno preceduto e accompagnato l’intero progetto. Va però aggiunto – ed è questo un punto importante – che il volume consente di comprendere più da vicino le motivazioni di fondo, di ordine biografico, che hanno animato volta per volta ciascuna delle opere del nostro A., svelandocene il tragitto concettuale (cf. cap. 3). La dimensione biografico-esistenziale intesse la narrazione dell’A. e ce lo presenta un testimone del suo tempo. Edgar Morin, infatti, ha incarnato la storia dell’Europa nella seconda guerra mondiale, ne ha seguito da vicino i movimenti politici che l’hanno preceduta e seguita, ha valutato personalmente gli equilibri (ma anche i problemi) internazionali che ne sono derivati. Come il lettore potrà facilmente vedere accostandosi a queste pagine, siamo di fronte ad una storia vissuta, che ha influito non poco sul pensiero di Morin; egli stesso, inizialmente conquistato dal marxismo ed attivo nel partito comunista francese, fu testimone della sua parabola, sperimentando le luci e le ombre di quella drammatica avventura, ma anche sviluppando, in modo personale, le esperienze che ne aveva tratto.

La lettura de L’avventura del Metodo consente di poter individuare le principali linee-guida del pensatore francese e le più importanti conclusioni proposte dalle sue opere. La ricerca di Morin si sviluppa lungo 4 assi: a) il mondo fisico; b) il mondo vivente; c) la transdisciplinarità; d) la conoscenza. Questi non sono settori, ma porte di accesso al tutto organico della realtà. Gli aspetti fisici, biologici, epistemologici, culturali e sociali sono intimamente collegati fra loro e influiscono in modo reciproco gli uni sugli altri, co-implicandosi. Il fenomeno della vita, ad esempio, pur emergendo in forza della sua individualità e teleonomia, non sussisterebbe senza il contesto che lo ha permesso, perché non ci potrebbe essere auto-organizzazione senza dipendenza dall’ambiente. La conoscenza si realizza solo a partire da una biologia e da questa resta intimamente influenzata. La reciproca interazione e la mutua inesistenza di queste 4 direttrici porterà Morin a tematizzare, a partire dagli anni ’60, la necessità del pensiero “complesso”. Egli lo riconosce necessario sia per accostarsi al mondo della vita, sia per comprendere, in modo razionale e non razionalista, ogni realtà “sistemica”. Di fatto, Edgar Morin sarà noto al grande pubblico proprio come “pensatore della complessità”. Così egli racconta l’itinerario della sua “scoperta”: «Scoprivo che la conoscenza pertinente è la conoscenza complessa, che sa collegare i suoi elementi o i suoi nuclei intrecciando un tessuto comune. La nozione di complessità cominciò a possedermi allo stesso tempo come ostacolo e come via di delucidazione» (pp. 37-38). Il piano epistemologico e quello ontologico divengono inseparabili. La razionalità dei sistemi complessi è una razionalità aperta, si oppone alle forme di conoscenza ideologiche e acriticamente dogmatiche. «Conoscendo i propri limiti – egli afferma – la razionalità complessa è apertura al mistero del mondo» (p. 111).

Riflettere con serietà sulla conoscenza conduce Morin a prendere le distanze dall’illusione e dall’errore, che egli vede presenti lungo tutto il cammino della conoscenza (Cosa posso sapere?) e che egli stesso ha sperimentato come conseguenza delle delusioni ricevute durante il suo incontro con le ideologie. Egli scopre (o riscopre) i limiti di ogni impostazione radicalmente dialettica e sottolinea le opportunità fornite da uno sguardo dialogico sull’essere: «Scoprivo una nuova fonte di errore e di illusione: la disgiunzione tra le conoscenze e la riduzione del complesso al semplice del composto nei suoi elementi. E questo si aggiungeva al problema, divenuto centrale dopo tutte le esperienze vissute, dell’errore e dell’illusione. Ormai, non si trattava più solamente di confrontarsi con degli errori di fatto (ignoranza) o di pensiero (dogmatismo), ma con l’errore di un pensiero di parte, quindi parziale, con l’errore del pensiero binario che vede solo l’alternativa o/o e si rivela incapace di combinare la congiunzione e/e, con l’errore del pensiero lineare inadeguato a concepire la retroazione o la ricorsività, e più in profondità con l’errore del pensiero riduttivo e del pensiero disgiuntivo, ciechi ad ogni complessità, che diventano minacce permanenti che gravano su ogni sforzo di conoscenza» (p. 38). Parafrasando la distinzione classica fra pensiero dialettico-ideologico (aut/aut) e pensiero dialogico-analogico (et/et) si potrebbe dire che Morin di accosta in modo implicito e forse inconsapevole ai “molti modi in cui si può dire l’essere”, come insegna una metafisica di ispirazione aristotelica.

L’incontro con la complessità e l’apprezzamento del pensiero dialogico offre a Morin la possibilità di esprimere un’ulteriore linea-guida del suo pensiero: la fioritura dell’io può avvenire soltanto all’interno di un noi. «Ciascuno di noi è bipolarizzato tra l’io egocentrico e il noi dell’integrazione comunitaria. Mi serviva ancora tempo per capire che l’aspirazione umana essenziale è la pienezza dell’io nella pienezza del noi. Ma questa comprensione tardiva finiva per riconoscere retroattivamente tutto ciò che animava e anima la mia vita: la fioritura del mio io nel noi dell’amicizia della fraternità dell’amore» (p. 79). Il pensiero comunitario, sociale, non può non attrarre; ma esso deve promuovere il singolo, non schiacciarlo: equilibrio senza dubbio difficile, ma soluzione necessaria per evitare il duplice rischio del totalitarismo e dell’individualismo.

Il modo in cui Morin parla della verità è sempre rispettoso, mai ingenuo. Egli è però alla ricerca di uno sguardo che non semplifichi, riduca o formalizzi, sforzandosi invece di restare sempre aperto al dinamismo della verità dell’essere (che si può dire, appunto, in molti modi). La verità è cosa troppo seria per essere barattata con l’ideologia o con una proposizione dogmatica acriticamente assunta. La critica di Morin al dogmatismo non è per nulla sinonimo di relativismo. Egli vuol mettere in guardia da un modo di parlare della verità che guardi al reale senza coglierne, appunto, la complessità. Non abbiamo finora una “metafisica della complessità”, ma Morin, in qualche modo, ci avverte indirettamente circa la necessità di svilupparne una.

Un’importante caratteristica del pensatore francese è la sua capacità, sorprendente per noi e naturale per lui, di entrare in dialogo con discipline anche assai diverse fra loro, sapendone cogliere analogie e relazioni. Egli afferma con convinzione la necessità che i percorsi scolastici e universitari giungano ad integrare gli studi scientifici con quelli umanistici. Non si tratta di una semplice esortazione teoretica: Morin l’ha messa in campo nei suoi lavori di pedagogia, che lo hanno visto protagonista di importanti commissioni nazionali e internazionali e redattore di documenti programmatici, sebbene egli non sempre ne abbia visto i frutti. Secondo Morin noi avremmo oggi bisogno di un “nuovo Rinascimento”, piuttosto che di un “nuovo umanesimo”. In sostanza, avremmo bisogno di una cultura unitaria che sappia integrare negli studi umanistici le conoscenze scientifiche dell’epoca contemporanea. Il primo Rinascimento riuscì a farlo – egli nota intelligentemente – perché fu un movimento capace di integrare ambedue le prospettive nelle esistenze di coloro che lo interpretarono con le loro opere. Sarebbe un errore guardare Leonardo da Vinci, Pico della Mirandola o Michelangelo come personaggi fuori della realtà per l’eccezionalità della loro produzione. Essi furono tali proprio perché “calati nello spirito rinascimentale”, uno spirito capace di aver generato un pensiero che considerava la natura, l’uomo e la società sotto un unico sguardo, come un tutto che non andava scomposto in parti.

La persuasione circa l’opportunità di valorizzare l’interdisciplinarità e l’unità del sapere conduce Edgar Morin a proporre e inquadrare il concetto di un “umanesimo rigenerato” (cf. cap. 6). Lo esige oggi il comune destino planetario, che ci obbliga ad un pensiero condiviso su grande scala, non (solo) come soluzione per le emergenze, ma soprattutto come forma di pensiero veritativo, perché l’unico capace di tener conto della complessità del reale. Alla base dell’umanesimo rigenerato vi è per Morin la convinzione che l’essere umano è sempre, al tempo stesso, biofisico, culturale e sociale. Scindere queste dimensioni relativizzandole, riducendole o settorializzandole, avrebbe (ed ormai ha) conseguenze disastrose, sia per l’umanità che per i singoli. L’essere umano è individuale (io), biologico (vivo) e sociale (noi), non come parti o settori, né solo come prospettive diverse, ma come unità che cade sotto il medesimo sguardo. Fine dell’umanesimo rigenerato è favorire un rapporto permanente fra l’io e il noi. Esso deve mostrare che lo sviluppo personale si può dare solo mediante l’integrazione in una comunità, proponendosi pertanto di cercare e creare le condizioni affinché l’io possa fiorire in un noi e il noi possa permettere all’io di fiorire (cf. p. 101).

La salvezza del pianeta, così lo speriamo, sarà la conseguenza di un umanesimo rigenerato; tale salvezza, però, non è il fine che giustifica la necessità di teorizzarlo. A giustificarlo è piuttosto il desiderio di comprendere, di capire, di rispondere alle domande kantiane che ricordavamo in apertura, domande che oggi includono necessariamente anche la domanda sull’identità del soggetto e il suo rapporto con il cosmo di cui siamo parte. Vivere entro un “orizzonte planetario” non può che essere un “vivere responsabile”. Siamo in questo orizzonte a partire dall’Antropocene: a parte il dibattito sull’impiego scientifico del termine, esso è ormai un dato di fatto culturale. Morin esprime efficacemente il senso di questa responsabilità affermando che l’essere umano è chiamato adesso a prolungare l’ominazione in una umanizzazione (cf. 115).

Il cammino del Metodo è stato, nella vita di Edgar Morin, anche un cammino esistenziale (cf. cap. 5). Al termine dell’itinerario rappresentato dalla progettazione e dalla redazione dei 6 volumi della sua opera maggiore, l’A. dichiara di aver appreso che occorre vivere il più possibile “poeticamente”. Occorre vivere nella curiosità e nell’amore, conservando la ragione nella passione e la passione nella ragione. Bisogna vivere – egli aggiunge – custodendo il senso mistico del Mistero, non smettendo mai di cercare e amare il sublime e l’estasi: amore, comunione, poesia, musica, meraviglie e misteri della terra e del cielo. Emozionarsi, soffrire, gioire di essere vivente fra i viventi, consapevoli di essere protagonisti di una gigantesca e favolosa avventura cosmica, nonostante il nostro essere peninsulare. Meravigliarsi degli splendori della vita e trovarvi l’energia per ribellarsi contro gli orrori (cf. p. 85). Il pensatore francese ci confida ancora, con forti toni biografici: «Avverto in me l’appartenenza alla vita e l’appartenenza al cosmo in modo non solamente estetico, ma anche esistenziale ed etico. Ho fede nell’amore, pur sapendo che ogni fede è una scommessa. Avverto un misticismo profondo nelle estasi prodotte non solamente dalla fusione amorosa, ma anche da una musica sublime, dal canto degli uccelli, da un bel viso, dalla luna piena…» (p. 63). Non possiamo non pensare a Pascal – che pure Morin cita e apprezza – o a Ludwig Wittgenstein, quando leggiamo queste ulteriori confidenze: «Rasentiamo l’estasi pure quando siamo invasi dal Mistero. Il miracolo della conoscenza è condurci, al di là dello stadio della complessità, ai confini del Mistero. Tutto ciò che abbiamo appreso sull’Universo ha rivelato un abissale mistero della realtà, che quanto più ci appare assoluto, tanto più svanisce: mistero della vita sulla Terra, così stupefacente dalla sua comparsa, e non meno stupefacente nelle sue evoluzioni, mistero dell’umano, mistero della coscienza. Siamo ormai avvolti in misteri insondabili che si connettono in un grande e supremo Mistero. La poesia del vivere comporta la presenza del Mistero» (pp. 81-82).

Il lettore potrebbe chiedersi se siamo di fronte ad un pensiero “religioso” e quali forme esso eventualmente assuma. La domanda è delicata e il rispetto che si deve alla ricca esperienza esistenziale di Edgar Morin impone di non tradurla in facili semplificazioni. Ci limitiamo solo a due considerazioni personali.

La sensibilità che Morin manifesta per una visione solidale del genere umano, in cui l’individualismo vada finalmente superato e si possa fraternamente collaborare alla crescita di tutti, riteniamo sia in rapporto con l’originario afflato marxista e comunista dal quale l’A. fu attratto in gioventù. A sua volta tale afflato, sebbene abbia come premessa una visione antropologica immanente, e resti perciò distante da una concezione trascendente della vita e dell’essere umano, fonda ultimamente le sue radici in una visione ebraico-cristiana della storia, l’unica capace di dare origine ad una speranza di respiro planetario e all’idea di un progresso significativo, ben riconoscibile nel pensiero di Morin, come in quello di altri autori. Ciò consente di mettere fra loro in rapporto l’ideale di società umana teorizzata da Morin – responsabile, in comunione con sé stessa, rispettosa dell’ambiente, consapevole del suo ruolo nel cosmo – con altre visioni di progresso umano di ispirazione cristiana, o comunque aperte alla trascendenza. Queste visioni – si pensi alla teologia delle realtà terrene o alla Dottrina sociale della Chiesa sullo sviluppo integrale – sono in continuità con quanto Morin afferma, aggiungendovi però quanto Morin non dice. Potrebbe valer la pena, ad esempio, istruire comparazioni con quanto suggerito da pensatori cristiani come Pierre Teilhard de Chardin, Johann Baptist Metz, Gustave Thils, Romano Guardini o Juan Alfaro. Le proposte di umanesimo rigenerato di Morin e quelle di umanesimo planetario di Mauro Ceruti e Angelo Vianello, in certo modo discepoli del pensatore francese, o quella dell’AI4SC (artificial intelligence for social good) di Luciano Floridi, non sono poi distanti da una visione di esplicita radice cristiana, quella di un “umanesimo scientifico sapienziale”, avanzata da Enrico Cantore. Sono a nostro avviso visioni che dialogano bene fra loro e manifestano in fondo una base implicita comune.

La seconda considerazione riguarda l’apertura al Mistero (che Morin indica con la maiuscola). Esso sembra manifestare un carattere impersonale e potrebbe pertanto ricordare una classica posizione panteista. Riteniamo invece che non sia così. Ciò che muove il pensiero e l’afflato esistenziale del pensatore francese non è raggiungere l’ignoto e annullarsi nel Mistero, come richiederebbe il panteismo, ma il desiderio sincero di conoscenza, anzi di conoscenza della verità. La priorità viene data da Morin alla dimensione morale della solidarietà e dell’amore, che il cristianesimo chiama carità, non all’esperienza estetica. Riteniamo che egli abbia conosciuto il cristianesimo solo mediante un approccio storico e filosofico, ma non esistenziale. Ciò gli impedisce, a nostro avviso, di riconoscere le affinità che il cristianesimo avrebbe con la sua visione dell’umano e della vita. Vi sono infatti sensibili convergenze nel senso di gratitudine per la vita, nella contemplazione dell’essere, nel primato dell’amore, nel sacrificio e nella donazione di sé che conferiscono senso all’esistenza. Se Morin si ferma a registrare le insufficienze del cristianesimo è perché, semplicemente, lo inquadra nella categoria della “religione”, che resta invece inadeguata a darne ragione.

Morin è un filosofo della speranza. Egli crede nell’uomo e nelle capacità della sua ragione: almeno ci scommette. Ecco la descrizione del suo “sogno”, quello di una umanità che lentamente ma progressivamente si rinnova “dal basso”, presentato verso la fine del suo saggio: «Un po’ dappertutto nel mondo spuntano miriadi di germinazioni, scorre una moltitudine di piccole correnti che, se si congiungono, formeranno torrenti che potrebbero confluire in piccoli fiumi, che a loro volta, potrebbero formare un grande fiume. Da questo fiume potrebbe scaturire un mondo conviviale, cooperante, solidale, disintossicato dal consumismo, in cui il denaro sarebbe un mezzo e non un fine, in cui le campagne ridiventerebbero fattorie o diventerebbero agro-ecologiche, in cui le città sarebbero disinquinate e decongestionate, in cui avvizzirebbero il disprezzo e l’umiliazione. Questa è la speranza, fragile, ma dobbiamo capire che la scommessa e la speranza devono prendere il posto delle certezze» (p. 116). È questo l’esito di una umanità saggia. Ma non è un esito scontato. La tentazione sarà quella di cercare la propria felicità nell’utopia transumanista e nella sua fallace quanto menzognera promessa di immortalità, pilotata da una manipolazione scientista del progresso scientifico e tecnologico. Per Morin non ci sono altre possibilità per il futuro del genere umano. Alla fine, egli dice, intraprenderemo una di queste due strade. Egli punta e scommette sulla prima. E noi lo facciamo insieme a lui.

Giuseppe Tanzella-Nitti
2024