Indice: Prefazione, di Luigi Negri; Premessa; I due frati; L’abate fuggitivo; La rivoluzione aristotelica; Riflessione sui manichei; La vera vita di san Tommaso; Approccio al tomismo; La filosofia perenne; Il retaggio di san Tommaso.
Gilbert K. Chesterton è un autore inglese del secolo scorso, nato nel 1874 e morto nel 1937, conosciuto soprattutto per la serie di avventure di Padre Brown, divenuta un classico della letteratura d’investigazione. Quello che probabilmente pochi sanno, però, è che Chesterton è stato anche un saggista e uno storico, il cui interesse si concentrò principalmente sul pensiero cristiano. Il libro che qui si presenta: “San Tommaso d’Aquino” è divenuto, per varie ragioni, anch’esso un piccolo classico. Innanzitutto, perché si tratta di una delle due biografie dedicate dall’A. ad una delle più grandi figure di uomo, teologo e santo cattolico del Medioevo, insieme a quella su San Francesco d’Assisi (anch’essa pubblicata in Italia da Lindau). Poi, perché nel raccontare la vita di Tommaso, Chesterton non si è limitato a riportare i fatti depurandoli da episodi leggendari o errori storici, ma ha dato una propria interpretazione della figura del santo e del suo pensiero, tanto chiara e concisa da indurre mons. Luigi Negri a scrivere nella prefazione all’edizione italiana: «Io debbo a questo libro […] una conoscenza che considero definitiva della grande esperienza del cristianesimo nel cuore e nella vita degli uomini dell’Occidente e quindi nella creazione della civiltà medievale» (p. 5). E non solo perché il libro di Chesterton rappresenta uno di quei rari e riusciti tentativi di sintesi fra narrazione storica, esposizione filosofica ed elaborazione critica, il tutto in poco meno di duecento pagine. Ma anche perché l’A. vi presenta un’idea di base oggi quanto mai attuale: San Tommaso e, nel secolo precedente, san Francesco sono stati gli iniziatori di un movimento di rinnovamento totale del cristianesimo dall’interno, e non, come troppo spesso si pensa, interpreti stravaganti, seppur geniali, di una ben consolidata tradizione. In che senso? Nel senso che entrambi «diventarono più ortodossi nel momento in cui diventarono più razionalisti o più vicini alla natura» (p. 34). Questo perché, afferma Chesterton, l’essenza del cristianesimo risiede nell’incarnazione, cioè nella sconcertante verità di un Dio-uomo, e quindi sia l’essere umano nella sua unità di mente e corpo, che il mondo naturale nella sua meravigliosa armonia non gli sono affatto estranei.
Emblematico, a questo proposito, l’episodio iniziale della vita religiosa di Tommaso. La sua famiglia, infatti, era in quel periodo una delle più influenti d’Europa, grazie soprattutto alla stretta parentela fra la casata dei d’Aquino e l’imperatore del Sacro Romano Impero Federico II, di cui Tommaso era di fatto il cugino di secondo grado. Destinato dal padre a divenire abate di Montecassino, il settimo fratello non era però in alcun modo interessato alla fama, né politica né monastica. Anzi, poco prima dell’ufficializzazione dell’importante carica aveva semplicemente comunicato ai genitori la risoluta volontà di entrare nell’ordine dei domenicani. Una decisione che, nel contesto in cui si trovava, Chesterton, con il suo consueto gusto per il paradosso, descrive in questi termini: «un po’ come se il primogenito di un nobiluomo entrasse in casa e annunciasse con disinvoltura di aver sposato una zingara, o se l’erede di un duca conservatore dicesse che domani va a fare una marcia contro la fame nel mondo, organizzata da presunti comunisti» (p. 59). Il che dice moltissimo sulla profonda frattura che ai tempi di Tommaso si era creata tra gli antichi ordini monastici e i nuovi ordini “mendicanti”. Ed infatti, la decisione gettò la famiglia dei d’Aquino nel caos più totale, provocando un deciso rifiuto del padre Landolfo e dei fratelli maggiori, tutti fedeli vassalli dell’Imperatore, ma anche rispettosi servitori del Papa. Così, giunto nei pressi di Roma, Tommaso viene rapito da due dei suoi stessi fratelli, riportato a forza a Rocca Secca e rinchiuso in un alto bastione come un illustre prigioniero di guerra. E’ a questo punto della vicenda che la tradizione storica colloca uno dei fatti più significativi della fermezza della fede di Tommaso: la cacciata, brandendo un tizzone ardente, della prostituta inviata dai fratelli per distoglierlo dal proposito di farsi frate, e la successiva fuga dalla prigionia, organizzata sembra dalle sorelle, che lo avrebbero aiutato a calarsi giù dalla torre dentro una grande cesta.
Fu quella la prima volta che “il bue muto” – come lo avevano soprannominato i suoi compagni di studi a Colonia, per l’indole insolitamente taciturna – si trasformò in un leone che ruggisce contro l’ingiustizia ed il tentativo di offuscare la verità. A quanto si dice, accadde solamente in un’altra occasione che Tommaso perdesse del tutto il controllo, ruggendo furibondo contro il proprio oppositore. Il luogo era Parigi, e il contesto ben più greve. Infatti, si trattava di difendere la libertà dei frati di fronte ad una commissione d’inchiesta della Chiesa Cattolica, e Tommaso era stato inviato come rappresentate dell’ordine domenicano, insieme al suo amico e maestro Alberto Magno. Come si diceva poc’anzi, erano tempi burrascosi per la cristianità, divisa fra spinte controverse: le une incombevano minacciose dall’esterno, sotto il simbolo della mezzaluna islamica, mentre le altre, che germogliavano all’interno, sembravano incoraggiare il lassismo nella condotta religiosa e l’eccessivo coinvolgimento dei laici nella vita di fede. Ed entrambe, agli occhi dei conservatori, parevano ricondursi ad una flusso sotterraneo che veniva da lontano, il cui nome era ‘aristotelismo’. Infatti, per il mondo cristiano di quel periodo, di orientamento nettamente platonico, sulle orme del grande S. Agostino, Aristotele era una sorta di “dio pagano”, e la sua filosofia una forma di panteismo. Al contrario, per Tommaso e gli aristotelici degni di questo nome, il pensiero dello Stagirita rappresentava un nuovo approccio filosofico alla realtà, basato sull’esperienza e la ragione, l’unico in grado di levare il cristianesimo dalle “secche platoniche” in cui si trovava. E rinnovare così anche la dottrina cristiana, avvicinandola di nuovo alla gente e al senso comune. Veniva dunque a stabilirsi quel parallelo tra la nuova visione del monachesimo e la nuova visione filosofica che, secondo Chesterton, accosta San Tommaso d’Aquino a San Francesco d’Assisi. È naturale però, che per il vecchio establishment tutto ciò avesse la forza di una vera e propria “rivoluzione”, e, scrive l’A., «il leader di quella rivoluzione moderna era il protagonista di questo libro» (p. 79). Ma non tutto è oro quello che luccica, ed è proprio fra gli aristotelici stessi che si annidavano i nemici più pericolosi dell’aristotelismo, camuffati da amici. Il pensiero di Aristotele, infatti, si prestava a molteplici fraintendimenti ed interpretazioni errate, che rischiavano di compromettere gravemente il sottile equilibrio tra elemento razionale e verità rivelate che Tommaso stava cercando. Nell’intento del filosofo, prima ancora che del teologo, vi era di mostrare come lo studio della natura non possa entrare in aperta contraddizione con la fede, perché la Verità è una. Questo però, secondo Tommaso, implicava la retta comprensione, da una parte del valore conoscitivo dei dati scientifici, e dall’altro delle Sacre Scritture. Comprensione che Chesterton sostiene l’età moderna abbia perduto, determinando una situazione in cui «particolari teorie riguardo il presunto significato della Bibbia e teorie non ancora accertate riguardo al significato del mondo si sono scontrate in violenti dibattiti di cui si è fatto un gran parlare; questa rozza collisione tra due forme molto intolleranti d’ignoranza era nota come disputa tra scienza e religione» (pp. 88-89). Non si potrebbe descrivere meglio l’attuale polemica tra neodarwinisti e creazionisti. Ma già in quel tempo lontano, risuonò il muggito del bue Tommaso contro questo genere di pericoli, e per difendere il diritto di Aristotele e degli ordini mendicanti a far parte pienamente della cristianità.
La parte centrale del libro è dedicata all’arduo tentativo di tracciare un quadro schematico degli episodi significativi della vita del santo, e di delineare uno schizzo della sua personalità. L’A. quindi procede per brevi cenni e veloci pennellate, scegliendo di non focalizzarsi sempre sui fatti più noti, ma anche su quei particolari, in apparenza marginali, che alludono a quell’universo nascosto e misterioso che è la sfera interiore dei grandi uomini di fede. Come quando narra gli ultimi istanti di Tommaso – morto nel 1274 a Fossanova – e per spiegare al lettore lo stato di serenità spirituale in cui questo si trovava, scrive che «il confessore che gli era stato accanto fuggì via spaventato, sussurrando che la sua confessione era stata quella di un bimbo di cinque anni» (p. 145). Naturalmente, non mancano i riferimenti agli episodi importanti e agli eventi miracolosi, sempre però riportati con il pudore e il leggero scetticismo del buon cronista anglosassone, più che con la partecipazione del biografo. Questo, certamente, in ossequio all’idea che Chesterton vorrebbe comunicare di Tommaso: quella di un genio enciclopedico del pensiero filosofico-teologico, che prima, però, era un semplice servo di Dio, disposto a farsi il più piccolo fra i piccoli per seguire la volontà del Signore. Il più celebre dei miracoli che gli sono attribuiti dice tutto. Dopo aver scritto l’interpretazione razionale della transustanziazione che gli era stata chiesta dai dottori della Sorbona, gettò il testo ai piedi del crocifisso della chiesa di san Domenico a Napoli, come per chiederne l’approvazione. Pare allora che l’immagine stessa del Cristo sia scesa dall’altare per comunicare a Tommaso che aveva detto il giusto. Ma è proprio in quel momento che avvenne, per così dire, il “vero miracolo”. Infatti, Cristo gli offrì di scegliere tra i doni del cielo, ed esso, in tutta franchezza, rispose: “voglio soltanto Te”. Non stupisce, dunque, che se la storia ricorda san Tommaso per le sue straordinarie doti intellettuali, tutti quelli che lo conobbero, familiari, amici e confratelli, lo abbiano ricordato sopratutto per l’autentica humilitas che mostrava. Era un uomo eccezionalmente incline alla discussione, avrebbe discusso per giorni interi, ed effettivamente a volte lo fece. Nel suo modo di esaminare gli errori e di passarli al vaglio dell’argomentazione logica vi era quello che Chesterton definisce un atteggiamento “aggressivo” nei confronti della verità. Ma questo si limitava all’ambito dialettico, perché nella vita quotidiana era estremamente mite e gentile con tutti. Se ebbe una vita mistica, delle estasi, è un fatto controverso. Tuttavia, nell’ipotesi, si trattò certamente di una sublimazione speculativa della beatitudine, intravista forse dal Ghirlandaio nel famoso dipinto che ritrae san Tommaso come assorto in un momento di contemplazione della Verità.
Ma qual’era, per il Doctor angelicus, la Verità? L’A. non ha dubbi nell’individuare il nucleo del pensiero filosofico di Tommaso in un semplice concetto: “c’è qualcosa”. Ovvero la premessa realista che fonda tutto il successivo impianto teoretico del tomismo. Posizione che non era per nulla scontata nel periodo in cui Chesterton scriveva. E si potrebbe affermare che se il libro, nei progetti dell’A., aveva uno scopo preciso, era di richiamare i filosofi del tempo al senso comune, da cui il pensiero contemporaneo sembrava essersi allontanato per seguire le vie tortuose dell’idealismo o del materialismo estremi. La realtà “è”, afferma Tommaso, e tuttavia il suo essere non è pieno, ma un modo limitato, perché la pienezza dell’essere appartiene solo al Creatore della realtà, cioè Dio. Quindi, l’universo non si è auto-generato attraverso quel processo di evoluzione creatrice – di bergsoniana memoria – che anche oggi viene adottato dagli agnostici per spiegare l’esistenza del mondo senza ipotizzare una causa prima. Il volume si conclude con un capitolo – dal titolo “Il retaggio di san Tommaso” – di riflessione sulle sorti e l’eredità della scolastica. In particolare, l’A. mette in risalto come la Riforma abbia in un certo senso cancellato le conquiste non solo filosofiche, ma anche morali e antropologiche della sintesi tomista, per tornare al “pessimismo” di stampo agostiniano nei confronti del mondo e della ragione. Le ultime righe comunque suonano fiduciose in quel rinnovamento di studi tomisti che stava maturando all’inizio del XX secolo: «Sono passati quattrocento anni e io spero […] che questo libro sarà dimenticato e sommerso da una valanga di testi migliori su san Tommaso d’Aquino» (p. 200). Oggi sappiamo che non sbagliava.