Indice: I. Il realismo come metodo - II. Realismo e metodo. - III. Specificità dell’ordine filosofico. - IV. Il metodo del realismo. - V. Qualche consiglio per chi vuole essere realista. - Postfazione: Gilson, il senso comune e il metodo della filosofia, di A. Livi. - Nota bibliografica: Le opere di Gilson tradotte in italiano, di A. Livi.
Il realismo, metodo della filosofia è la resa in italiano del titolo originale “Le Réalisme méthodique”, uscito in Francia nel 1935, volume nel quale Etienne Gilson – su consiglio e sollecitazione dell’amico Yves Simon – raccolse una serie di saggi precedentemente editi in varie riviste. La pubblicazione è curata da Antonio Livi (ordinario di logica e filosofia della conoscenza alla Pontificia Università Lateranense), allievo di Gilson e iniziatore in Italia della scuola filosofica del “senso comune”, e da Maria Antonietta Mendosa, anch’essa studiosa del pensiero di Gilson in connessione ai temi del senso comune. L’opera, che va ad arricchire la già cospicua serie di lavori di Gilson tradotti in italiano, si presenta interessante sotto molteplici punti di vista. Innanzitutto, essa restituisce un quadro sintetico ma esaustivo delle discussioni filosofiche che durante gli anni Venti e Trenta del secolo scorso si concentravano attorno alla riscoperta del realismo in quanto metodo filosofico. In particolare, il saggio si colloca all’interno del dibattito fra l’Autore e la cosiddetta “Scuola di Lovanio”, i cui rappresentanti, in aperta polemica sia con l’idealismo che con alcuni orientamenti “conservatori” della scuola neo-tomista, sostenevano la necessità di un recupero del realismo, nel contesto però del soggettivismo cartesiano o del trascendentalismo kantiano. Tale “realismo critico” è, per l’appunto, il casus belli degli attacchi gilsoniani, i quali, nello sviluppo del saggio, si estenderanno fino al “cuore” stesso dell’Idealismo moderno, individuato dall’Autore nel pensiero di Descartes. Infatti, sebbene la Scuola di Lovanio avesse un approccio filosofico di tipo realista, questo, secondo Gilson, non sfuggiva al presupposto classico di qualsiasi idealismo, il metodo cosiddetto “dell’immanenza”, che consiste nel ritenere il soggetto il primo dato immediato della realtà (“1]cogito, 2]ergo sum”). Sia nella sua declinazione “mediata”, come nella posizione di Désiré Mercier, dove vengono prima le immagini delle cose e poi le cose, sia nella versione “immediata” di Léon Noël, in cui le immagini sono le cose, il realismo critico manifestava il “problema del ponte”, cioè il problema del collegamento tra la realtà e l’immagine. Gilson considerava questo paradosso, che caratterizza ogni forma di idealismo, come una versione attuale del vecchio problema della “comunicazione delle sostanze”, che fu la prima e più seria ricaduta del metodo cartesiano. Ed è partendo da questa osservazione che egli muove la sua critica al realismo della Scuola di Lovanio, a cui l’Autore imputa la colpa di voler combattere l’idealismo accettandone però le premesse e, così facendo, mettendosi su un terreno di sfida nel quale è impossibile vincere.
È significativo, in proposito, che nel capitolo iniziale del saggio Gilson faccia notare come il realismo in quanto problema filosofico nasca con la filosofia moderna, proprio come reazione all’idealismo. Infatti, la scolastica non conosceva il termine ‘realismo’, o almeno non lo intendeva come lo intendiamo noi oggi, caratterizzato in senso anti-idealista. Per San Tommaso d’Aquino essere realista significava semplicemente dare per acquisita l’esistenza reale dell’oggetto e del mondo esterno, senza che ci fosse alcun motivo ragionevole per mettere in discussione tale certezza. La quale, naturalmente, implicava la netta distinzione fra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto, e la ferma convinzione che quest’ultimo fosse il dato “primitivo”, al quale poi il soggetto applicava le proprie categorie interpretative. All’inizio dell’età moderna, Descartes – con un’intuizione della quale Gilson riconosce certamente la genialità – capovolge questo schema, ponendo il soggetto “prima” dell’oggetto, in cerca di un nuovo criterio su cui fondare la conoscenza del reale. Ma questo nuovo “metodo” si basa, secondo l’Autore, su un presupposto indebito: la convinzione che il pensiero preceda l’essere, cioè che si possa derivare l’ontologia dalla conoscenza, e non vice-versa, come appare naturale. Pertanto, ogni tentativo di costruire un realismo “critico” è destinato, presto o tardi, a scontrarsi con le premesse idealiste, un problema che la filosofia medievale non conosceva e che, quindi, è contraddittorio voler risolvere dal punto di vista di chi lo ha creato, cioè l’idealismo stesso. L’unica soluzione logica, a questo punto, appare quella di rifiutare in toto il metodo di Descartes, per tornare ad un realismo spontaneo, naturale, che Gilson definisce del “senso comune”. Quel realismo che scaturisce dall’immediatezza intuitiva che l’esperienza del reale possiede per l’essere umano. Ed è proprio riferendosi a questa decisione di scegliere l’evidenza immediata come criterio primo di verità, che l’idealismo ha sempre tacciato il realismo scolastico di “ingenuità”, accusandolo di essere un realismo “non-filosofico”. Tuttavia, ribatte Gilson, un’analisi corretta dei risultati dell’idealismo condurrà inevitabilmente a riconoscere che il realismo non è un’opzione tra le tante, ma è l’unico metodo possibile per la filosofia, perché è l’unico e fondamentale criterio di conoscenza valido, se si vuole che la filosofia parli del reale per quello che è. Al contrario, se si accetta di incamminarsi lungo la via aperta da Descartes, allora la storia della filosofia ci insegna che, «diventano essa stessa ciò che essa è per il pensiero astratto, ogni cosa si dissocia in una coppia di termini antinomici che l’ingegnosità dei metafisici non arriverà mai a ricongiungere. Ecco perché la filosofia moderna, nella misura in cui non abdica in favore della scienza, presenta l’aspetto di un campo di battaglia dove lottano indefinitamente delle ombre irreconciliabili: il pensiero contro l’estensione, il soggetto contro l’oggetto, l’individuo contro la società, altrettanti frammenti disintegrati del reale attraverso l’analisi dissolvente del pensiero e che essa tenta in vano di reintegrarvi» (p. 58).
Proseguendo lungo questa linea di riflessione, nel secondo capitolo L’Autore si sofferma nell’analisi delle due posizioni principali del realismo critico – quello “mediato” di Désiré Mercier, e quello “immediato” di Léon Noël – col proposito di mostrare come entrambe soffrissero di una irriducibile ambiguità di fondo. L’obiettivo di questa corrente di pensiero era di conciliare realismo tomista e cogito cartesiano, in una sorta di “cogito tomistico”, aperto al reale. Per fare ciò il realismo critico partiva dall’evidenza interna dell’esperienza, come primo dato di realtà. In quanto opzione metodologica, non intendeva in alcun modo negare l’esistenza del mondo esterno, ma solamente mostrare la problematicità della sua “dimostrazione” muovendo dall’esperienza interna. Questa problematicità verteva sul “principio di causalità”, in quanto collegamento tra immagini delle cose e cose reali, cioè cose pensate e cose “in sé”. Se, infatti, è evidente che la sensazione proviene da “qualcosa” che non è il pensiero stesso, e dunque l’esperienza del mondo non è un fatto puramente mentale, non è altrettanto scontato riuscire a provare l’oggettività di questo mondo “al di là” del pensiero. Ecco quindi proporsi la causalità come criterio di verità riguardo l’esistenza del mondo esterno: vi sono cose esterne al mio pensiero che determinano le mie “impressioni” interne. Questo, nel realismo critico “mediato” di Mercier. L’immediatismo di Noël, invece, ponendo l’accento sulla sostanziale coincidenza tra esperienza interna e realtà del mondo esterno, affermava che quest’ultima è un dato immediato ed auto-evidente. Infatti, nella percezione l’oggetto si afferra sempre come un “essere-conosciuto”, per cui la conoscenza implica già l’“esistenza”. Un realismo critico “immediato”, quello di Noël, in cui non è più necessario ricorrere al principio di causalità per ricondurre la conoscenza alla sua fonte reale, visto che questa è già contenuta nella stessa esperienza. Secondo Gilson, però, questi e gli altri sforzi della Scuola di Lovanio per riunire tomismo e cartesianesimo sono viziati da un errore di fondo, che è quello di non tenere sufficientemente in conto la differenza fondamentale tra idealismo e realismo; una differenza talmente importante da rendere il due metodi completamente inconciliabili ed auto-escludentesi. Infatti, l’idealismo giunge all’essere partendo dal pensiero (a nosse ad esse valet consequentia), mentre il realismo giunge al pensiero, alla conoscenza, partendo dall’essere (ab esse ad nosse valet consequentia). Per questo San Tommaso non ha mai supposto che le cose conosciute non venissero da un mondo esterno, ma anzi ha fondato tutta l’analisi dell’esperienza sul principio che l’intelletto conosce grazie alle idee delle cose reali, da cui astrae i dati della conoscenza. Secondo il tomismo, dunque, l’unico possibile punto di partenza della conoscenza è e sarà sempre il reale, proprio perché non è possibile dedurre l’esistenza concreta dalle rappresentazioni mentali. A fronte di ciò, il peccato originale che Gilson imputa alla Scuola di Lovanio è l’ambiguità riguardo alla scelta della posizione iniziale, che sembra non avere le idee chiare sull’impossibilità di far convivere, all’interno di una stessa teoria, il presupposto idealista e quello realista. Indecisione che genera poi tutta una serie di problemi, come quello del ponte, dovuti alla estrema difficoltà di giungere a conclusioni realiste partendo da premesse sostanzialmente idealiste.
È innegabile, tuttavia, che il metodo cartesiano, inteso come “razionalismo”, in unione con la neoneonata scienza positiva, all’inizio del Seicento abbia prodotto una serie impressionante di scoperte scientifiche, tante e tali da giustificare in pieno il discredito che da quel momento in poi è sceso sulla scienza aristotelica e, con lei, sulla filosofia scolastica. Partendo da questo indiscutibile dato di fatto Gilson, nel terzo capitolo dell’opera, si pone una domanda oggi quanto mai attuale: l’essenza filosofica della Scolastica è incompatibile, in quanto tale, con lo spirito della scienza positiva? Il che equivale a chiedersi se, dopo la svolta di Descartes, c’è ancora posto per la metafisica nell’analisi del reale. Nelle intenzioni dell’autore vi è di mostrare come in Descartes l’assunzione del punto di vista idealista sia andata di pari passo con la convinzione che tutto può essere spiegato e descritto utilizzando il metodo matematico. Una forma di platonismo in cui le idee geometriche delle cose sono “più vere” delle cose stesse, e quest’ultime sono soltanto “approssimazioni” delle idee. In questo nuovo sistema di riferimento si procede sempre dal pensiero all’essere, e si pone sempre l’essere in termini di pensiero. Per il cartesiano, quindi, una cosa sarà conosciuta quando sarà ridotta al suo concetto (mentre per lo scolastico una molteplicità di concetti non basta comunque a cogliere l’essenza della cosa). Messa in questi termini, la realtà per forza si riduce a quei due princìpi fondamentali, il pensiero e l’estensione, che sono uno dei tratti distintivi del sistema di Descartes. Ma sempre Descartes, poi, non ha saputo dirci esattamente come mettere in comunicazione le due “sostanze”, da cui una serie di tentativi, proposti dai filosofi a lui successivi, come Malebranche (occasionalismo), Leibniz (armonia prestabilita), Spinoza (parallelismo), tutti basati sull’elaborazione di una nozione soddisfacente di causalità, fino al trascendentalismo kantiano, che la pose come categoria a priori, riassorbendola nel soggetto. Di sfuggita, l’Autore fa anche notare come l’estensione del dualismo antinomico cartesiano alla teoria politica e alle scienze sociali abbia determinato quell’avvicendamento di dottrine, da Hobbes a Nietzsche, che contrappongono, in maniera irriducibile, l’individuo allo Stato. All’origine delle difficoltà in cui si trova la filosofia contemporanea – che, non a caso, è di orientamento prevalentemente idealista – Gilson colloca la scelta di Descartes di applicare alla totalità del reale un metodo, quello matematico, che è valido solo per un aspetto scientifico particolare. Non solo, ma ritiene anche che nel momento in cui Kant fa lo stesso con il metodo della fisica newtoniana, ciò pone le basi per la scomparsa della filosofia stessa; in quanto, non più le idee, ma le intuizioni sensibili divengono ora il fondamento della conoscenza, e dove queste mancano non vi sarà conoscenza, tantomeno metafisica. Matematizzare la realtà, cioè eleggere a teoria della conoscenza il metodo proprio delle scienze fisico-matematiche, rende innanzitutto molto difficoltoso rapportarsi a tutti quegli ambiti dell’indagine in cui l’oggetto è l’essere vivente. In secondo luogo – ed è il punto cruciale – la scienza studia i vari “modi” dell’ente, mentre la metafisica studia l’ente “in quanto ente”. Infatti, al di là, e prima, del problema posto dai diversi “modi di essere” vi è il problema dell’ “essere” stesso, che rinvia all’interrogativo sulla contingenza e sul significato dell’esistenza della realtà. Quella realtà che la fisica indaga dal suo, specifico, punto di vista, ma che non sembra avere in sé la propria ragion d’essere. Appare dunque chiara la risposta alla domanda posta in apertura di capitolo: «Finché ci sarà un cristianesimo, ci sarà una metafisica per ricongiungere le modalità diverse dell’esistenza a Colui qui non aliquo modo est, sed est, est. Ogni scienza al posto suo; ma, al di sopra delle altre deve esservi quella senza la quale non ci sarebbe scienza, perché non ci sarebbe né realtà da conoscere né intelligenza per comprenderla» (p. 113).
Il realismo non sceglie “prima” il proprio metodo, come invece fa l’idealismo, ma lo trova nell’oggetto stesso della ricerca filosofica – l’ente; il che lo rende da subito anche una metafisica. Il metodo realista, infatti, poggia su questo principio di base: il fatto che ogni esistenza sia sempre data in una conoscenza, non implica, in alcun modo, che tale conoscenza determini l’esistenza. Quest’ultimo è invece il postulato dell’idealismo, che però manca dell’evidenza iniziale che possiede quello realista. Secondo Gilson, quindi, l’idealismo tende ad “ipostatizzare” il proprio metodo (dell’immanenza), fino ad arrivare al paradosso per cui non è più questo che si adatta alla realtà, ma è la realtà stessa che “è forgiata” dal metodo in una forma di minor valore rispetto al suo concetto, e quindi, in un certo senso, svalutata, corrotta, illusoria. Questo perché l’idealismo – continua l’Autore – non ha capito, o voluto capire, che la conoscenza non è il pensiero. Nel senso che il realismo si occupa della conoscenza in quanto concetto che va oltre il pensiero, perché per il realista “pensare” significa organizzare delle conoscenze che però sono “esterne” al pensiero, non provengono dal pensiero stesso, mentre l’idealismo considera la conoscenza come pensiero che riflette sul proprio contenuto. Per l’idealista, quindi, la “critica” della conoscenza consiste in un tentativo di fondare a priori le condizioni stesse del conoscere, una volta abbandonato il terreno del realismo. E non ha senso, allora, pensare ad un realismo che sia anche “critico”, perché l’aggettivo non può applicarsi che ad una filosofia svuotata dell’oggetto della conoscenza, che allora non sarà più realista.
Concludendo, la traduzione in italiano di questo saggio di Gilson ci fa accedere ad uno dei punti essenziali del pensiero del filosofo francese, indicandocelo in una tanto semplice quanto geniale intuizione; e cioè che il punto d’inizio di ogni filosofia che aspiri a raggiungere la verità deve basarsi su quel “senso comune” che riconosce immediatamente come amico e familiare l’adagio derivante dall’inversione del “cogito” cartesiano: res sunt, ergo cogito.