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La bellezza come metodo. Saggi e riflessioni su fisica e matematica

Paul Dirac
trad. it. di Francesco Graziosi
Indiana, Milano 2013
pp. 181
ISBN:
9788897404187

Testi originali: My life as a physicist (1983); The Relation between Mathematics and Physics (1939); The Evolution of the Physicist’s Picture of Nature (1963); Hopes and Fears (1969); Development of the Physicist’s Conception of Nature (1973); Einstein’s Influence on Physics (1979); The Test of Time (1979).

 

iy·∂ψ = mψ

 

È così che la raccolta accoglie il lettore. Questa equazione, l’equazione di Dirac, com’è presto chiarito, è considerata la più bella di tutta la fisica. Solo questo dato dovrebbe far riflettere il lettore sullo statuto della bellezza e sulla posizione di Paul Dirac, che non solo merita un’opportuna considerazione invece di essere frettolosamente accusata di inanità o qualunquismo, ma ha anche trovato spazio nelle aule universitarie di fisica.

Si tratta di una raccolta di testi scritti in epoche diverse, ma accomunati dalla riflessione personale maturata dallo scienziato premio Nobel sulla fisica e sulla ricerca: il rapporto che la fisica ha con la matematica e il metodo da adottare per ottenere nuove scoperte, la vita di ricerca del fisico, non scevra da speranze e paure (che possono influenzarlo nel bene e nel male), la differenza tra «piccoli passi» e «grandi salti», la sintetica ricostruzione dei cambiamenti avvenuti nella fisica del ‘900 e dei quali è stato attore e spettatore nonché le sue aspettative per il futuro. Dirac si dichiara convinto che avverranno ulteriori cambiamenti nella nostra immagine della natura, ancora incompleta e imperfetta, fino a giungere ad uno stato pressoché “definitivo”.

Nella traduzione italiana sono stati espunti alcuni passaggi molto tecnici, sebbene sia comunque necessaria una certa conoscenza della fisica per apprezzare appieno il senso di alcuni passi.

Si noti che il titolo di questa breve raccolta non è mai stato scelto da Paul Dirac (è stato coniato per quest’edizione italiana quasi vent’anni dopo la sua morte), pur intendendone cogliere una delle intuizioni più profonde. Dirac stesso non ha mai scritto esplicitamente in questi testi che la bellezza debba assurgere a metodo d’indagine vero e proprio, ma la deduzione non sembra impropria. Si potrebbe forse dire, attraverso un’attenta lettura, che la bellezza è sì lo scopo dell’indagine, ma non primariamente, bensì come segno di correttezza, in quanto è segno di ciò che dice qualcosa sul mondo fisico. Si mira alla bellezza quindi, ma solo per giungere alla descrizione della realtà fisica. Un’equazione che coglie nel segno è per Dirac necessariamente un’equazione bella, sia pure di una bellezza matematica. Ciò rientra nel metodo forse totalmente nuovo di fare ricerca fisica che egli propone ai suoi ascoltatori: non si tratta, quantomeno primariamente, di cercare di rendere ragione degli esperimenti e dei dati che tramite questi sono raccolti, anche perché potrebbero eventualmente essere errati, ma di far partire la propria indagine dalla teoria matematica. Per Dirac – ed è un metodo che egli adottava costantemente – bisogna individuare quale sia il campo di matematica teorica più promettente (soprattutto in geometria) e cercare poi di applicarlo alla realtà; in questa ricerca, il criterio di selezione è quello della bellezza. La bellezza risulta così un segno della correttezza della propria teoria.

L’interesse di questi testi, in ogni caso, non è da ricercarsi unicamente nel ruolo da attribuire in fisica alla bellezza, ma anche nel resoconto “di prima mano” delle vicende della fisica nel XX secolo, nella fine ricostruzione della psicologia del ricercatore e nella concezione del progresso della fisica di cui lo scienziato si fa portavoce.

Tra le “chicche” della raccolta: Dirac ammette schiettamente di nutrire ancora qualche perplessità nei confronti dell’indeterminismo quantistico e di aspettarsi che le future scoperte avrebbero permesso di chiarire meglio il rapporto tra determinismo e indeterminismo, forse attraverso il superamento o la reinterpretazione di quest’ultimo.

La bellezza, dunque, in un accordo con una parte non indifferente della riflessione filosofica che era probabilmente ignoto a Dirac stesso, non è relegata in una percezione isolata e quasi incomunicabile di colui che conosce, ma si scopre anche negli aspetti più intellettuali e più universali della realtà. Come tale, giunge a costituire non tanto il fine della ricerca scientifica, ma, se vogliamo, la sua guida o, forse, il fine intermedio. In quest’ottica, il bello è inseparabilmente legato al vero, anzi ne è il segno, potremmo dire la manifestazione.

Si può concludere con una delle frasi di Dirac, che evoca le parole di altri scienziati che lo hanno preceduto: «Uno degli aspetti essenziali della Natura sembra essere che le leggi fisiche fondamentali sono descritte da una teoria matematica di grande bellezza e potenza, per la cui comprensione è necessario un alto livello matematico. […] Si potrebbe forse riassumere la situazione dicendo che Dio è un matematico di primo ordine, e che nel costruire l’universo ha realizzato una matematica molto avanzata. I nostri deboli tentativi ci permettono di comprendere una parte dell’universo» (pp. 121-122).

Miriam Savarese