Dio e gli scienziati: attrazione o repulsione?

Giuseppe Tanzella-Nitti
Pontificia Università della Santa Croce. Direttore SISRI.

Nel mondo in cui viviamo gli scienziati sono sempre più ascoltati. A loro non si chiede soltanto una spiegazione delle scoperte più recenti, ma anche una risposta sui futuri scenari del nostro pianeta, sulle tendenze della società, sulle scelte strategiche da operare. Non è infrequente che nelle interviste a un Nobel per la fisica o per la chimica l’interessato sia chiamato a rispondere a quesiti di bioetica, di sociologia, di religione. Il camice bianco ed una lavagna piena di formule sembrano lo sfondo più adeguato per risposte sempre affidabili ed autorevoli. Non importa che il proprio ambito di studio e di ricerca sia a volte distante dai temi più caldi oggi dibattuti: sono scienziati, e questo garantisce loro di vedere più lontano, di orientare, quali nuovi filosofi, le scelte dell’umanità. Almeno questo è il sentire comune. Così il ruolo dello scienziato viene oggi percepito dalla maggioranza. E se gli scienziati parlano di religione? Allora la cosa si fa interessante e si è disposti, anche in questo importante terreno, a prestare ascolto alle loro conclusioni. Già vari anni or sono la Fondazione Agnelli di Torino finanziò un’importante ricerca, pubblicata con il titolo Valori, Scienza, Trascendenza per conoscere l’opinione dei ricercatori italiani in merito a questioni di ordine politico, etico e religioso. Negli ultimi decenni si sono susseguite molte ricerche di questo genere, specie nel mondo anglosassone, sfociate in libri pubblicati da prestigiose case editrici oppure presentate su riviste scientifiche internazionali. Il risultato è più o meno analogo in tutti i sondaggi: l’incidenza della fede religiosa in chi si occupa di ricerca scientifica non è poi tanto diversa dal resto della popolazione mortale.

L’opinione che il grande pubblico ha circa la religiosità degli uomini di scienza è a volte contraddittoria, perché poco documentata. Nel caso di un personaggio emblematico come Einstein, ad esempio, mi è capitato di ascoltare i giudizi più svariati. Da chi era fermamente convinto che la sua “teoria della relatività” avesse ormai confermato la necessità di mantenere una posizione relativista e non dogmatica in temi di carattere etico o morale, a coloro che ne impiegavano frasi e aforismi per mostrare la sua sincera fede ebraica e talvolta perfino cristiana; da commenti che lo invocavano come esempio di uno scienziato che aveva ormai defenestrato ogni riferimento a Dio dalla descrizione dell’universo, ad articoli che pretendevano di illustrarne un panteismo senza sconti. È un dato di fatto che la maggior parte delle persone ha degli scienziati l’immagine di uomini poco avvezzi alle cose spirituali, abituati come sono a studiare ciò che si tocca e si misura. Abbiamo recentemente ascoltato anche la bizzarra opinione che una dichiarazione di ateismo sarebbe un requisito necessario per fare buona ricerca scientifica. Il grande spazio mediatico dato a poche personalità funge da amplificatore, ed il gioco è fatto: gli scienziati sono atei e chi vuole davvero accostarsi alla ricerca scientifica deve rinunciare a qualsiasi credenza religiosa, perché irrazionale (qualcuno, indulgente, ne potrà forse indicare la posizione precisa in un lobo cerebrale, ma solo per affermare la sua inferiorità rispetto alle ben più ampie zone dedicate al ragionamento razionale, e dunque scientifico).

Se le cose stanno davvero così ci si chiede allora a quale comunità, se non a quella scientifica, sono appartenuti personaggi come Pierre Duhem, James Clerk Maxwell, Agoustine Cauchy, Max Planck, Angelo Secchi, Gregorio Mendel, Antonio Stoppani, Henri Poincaré, Guglielmo Marconi, George Lemaître, Pavel Florenskij, Jerome Lejeune, Wernher von Braun, Louis Pasteur, Theodosius Dobzhanski, Abdus Salam, Charles Babbage, o per essere vicini al contesto italiano recente, scienziati come Enrico Medi, Luigi Fantappié, Ennio de Giorgi o Giovanni Prodi, una breve lista solo rappresentativa, che riguarda personaggi non più viventi, e di tempi non troppo lontani. Andare indietro nel tempo, lo notiamo per inciso, non avrebbe senso, essendo l’ateismo un fenomeno piuttosto recente ed essendo il contesto religioso assai familiare a quasi tutti gli uomini di scienza vissuti prima del XIX secolo. Anzi, un’ispezione al monumentale Dictionary of Scientific Biographies (ben 16 volumi), mostrerebbe che fino a tutto il 1700 un terzo degli scienziati era rappresentato da ministri ordinati di Chiese cristiane. Sebbene le cifre del secolo XXI non sono più queste, un ricercatore che oggi affermasse che la fede religiosa è incompatibile con l’attività scientifica dovrebbe vedersela con il 50% dei suoi colleghi che, secondo lo studio pubblicato da Elaine Ecklund, si dichiara appartenente ad una religione, ai quali andrebbero forse sommati ancora un 20% di ricercatori che si qualificano credenti in un Assoluto, certamente nel loro insieme ben maggiori del 30% di coloro che si qualificano agnostici o atei (due attributi che pure meriterebbero di essere differenziati). Perfino un personaggio come Charles Robert Darwin, che molti considerano erroneamente uno dei Padri fondatori del materialismo, non ha voluto mai qualificarsi come ateo. Nella sua autobiografia (quella curata dalla nipote Nora Barlow, che reintegra i riferimenti a Dio espunti da una prima autobiografia pubblicata dopo la morte del naturalista) o nelle lettere degli ultimi anni inviate ad amici e giornalisti che lo interrogavano sulla sua fede, lo scopritore della selezione naturale si considera teista, credente in una Causa prima (diremmo più precisamente deista) e quando applica a sé la qualifica di agnostico si riferisce ad un agnosticismo scientifico (“non potremo mai conoscere l’origine dell’universo”, afferma) e non filosofico.

Per acquistare una prospettiva più fedele alla realtà dei fatti, in tema di fede degli scienziati non vi è cammino migliore che accostarsi alle loro biografie (spesso auto-biografie, come nel caso di Planck) o ai loro saggi di riflessione filosofica su scienza e filosofia o su scienza e società, scritti di solito verso il termine della loro carriera, un genere presente in tutti i “grandi”, da Boltzmann a Poincaré, da Planck ad Heisenberg, da Feynman ad Eccles. Quando non siamo di fronte all’adesione ad una Chiesa, esplicita in numerosi casi, in tutti costoro vi è per lo meno la chiara percezione che il metodo scientifico non esaurisce la conoscenza della realtà e che la vita dello spirito, l’apertura ad una dimensione trascendente, hanno un diritto di cittadinanza nella vita degli uomini e degli scienziati allo stesso modo che le equazioni differenziali e le formulazioni empiriche. Se la ricchezza di queste esperienze giungesse anche nelle nostre scuole e nelle nostre università, vi sarebbero delle autentiche sorprese. Chi lo avrebbe mai detto che Clerk Maxwell, quello delle equazioni elettromagnetiche, scriveva poesie all’Eucaristia, o che Agoustine Cauchy, quello della soluzione al problema del calcolo integrale, fu membro attivissimo delle conferenze di San Vincenzo de Paoli e diede vita a molte società filantropiche nella Parigi del XIX secolo? Chi immaginerebbe che Alessandro Volta, inventore della pila, impartiva con regolarità il catechismo ai bambini poveri della sua parrocchia di san Donnino a Como, o che Jerome Lejeune, scopritore dell’anomalia genetica che causa la sindrome di Down, fu cattolico di grande impegno sociale, al punto che, dopo la sua morte, Giovanni Paolo II volle un “fuori programma” durante una sua visita in Francia per andare a pregare sulla sua tomba? Pierre Duhem deve alla sua fede cattolica l’interesse per la storia della scienza e per gli studi filosofici, la cui congruenza nella vita di uno scienziato difende nella sua opera La fisica di un credente. Von Braun, luterano convinto, al ritorno degli astronauti dalla missione che li aveva portati sulla Luna recitò un Padre nostro di ringraziamento. Guglielmo Marconi volle introdurre personalmente nel 1931 la prima trasmissione radiofonica di un pontefice, Pio XI, annunciando al microfono: «con l'aiuto di Dio, che tante misteriose forze della natura mette a disposizione dell'umanità, ho potuto preparare questo strumento che procurerà ai fedeli di tutto il mondo la consolazione di udire la voce del Santo Padre».

Non avrebbe senso commentare la fede di scienziati di livello internazionale che furono anche sacerdoti, perché sarebbe come far piovere sul bagnato. Eppure, limitandoci solo agli ultimi 150 anni, la prima intuizione del Big Bang fu di mons. George Lemaître, un cosmologo che collaborò con Einstein alla formulazione delle equazioni che descrivevano la dinamica dell’universo e scoprì insieme ad Edwin Hubble la legge di espansione dell’universo. Uno dei fondatori della geologia contemporanea fu Antonio Stoppani, un sacerdote di fine Ottocento dalla chioma fluente, autore del primo trattato geologico del territorio italiano, chiamato appunto Il Bel Paese, che gli meritò di essere immortalato per vari decenni sulle etichette di un omonimo formaggio italiano! Fu ancora un sacerdote cattolico, Angelo Secchi, l’iniziatore della spettroscopia stellare e fondatore nel 1871 della Società degli Spettroscopisti, ora Società Astronomia Italiana. Del beato Francesco Faà di Bruno, di padre Agostino Gemelli o del sacerdote ortodosso Pavel Florenskij, il grande pubblico ha sentito già parlare. La disciplina più rappresentata fra i sacerdoti-scienziati è senza dubbio l’astronomia, seguita immediatamente dalla matematica e poi dalla botanica.

Gli esempi di potrebbero moltiplicare. Vale però la pena non omettere almeno un riferimento ad alcuni scienziati italiani a noi vicini. Molti ricorderanno il prof. Enrico Medi, geofisico di fama internazionale e uomo politico, vicepresidente dell’Euratom e divulgatore televisivo, padre di sei figli. Scomparso nel 1974, nel 1996 fu introdotta la sua causa di beatificazione. Ricordo di aver assistito ad alcune sue conferenze dal vivo. In una di queste, per mostrare tutta la bellezza e l’armonia della fisiologia umana, creatura di Dio, nella quale fisica, chimica e biologia concorrevano al perfetto svolgersi dei movimenti, dopo aver delicatamente poggiato un bicchiere pieno d’acqua sul tavolo ne concludeva che c’era più fisica innata in quel gesto che nella tecnologia del LEM, il modulo lunare che qualche mese dopo si sarebbe poggiato dolcemente sulla superficie lunare. Ennio de Giorgi, il grande matematico italiano scomparso nel 1996, scoprì la soluzione al 19° problema di Hilbert, uno della famosa lista di 23 problemi che Hilbert riteneva avrebbero impegnato tutti i matematici nel XX secolo. A lui si deve anche la scoperta del carattere analitico delle soluzioni di alcuni problemi di calcolo delle variazioni, un risultato dimostrato indipendentemente anche da John Nash (il protagonista del film A Beautiful Mind), noto ora come teorema di De Giorgi-Nash, che rappresenta una pietra miliare nello studio di molti problemi non lineari. Convinto difensore dei diritti umani, fu sensibile commentatore della Sacra Scrittura, in particolare della Sapienza biblica. Egli riteneva che ogni studioso, nell’invito a prendere parte al banchetto che la Sapienza rivolge agli uomini nel Libro dei Proverbi, dovesse vedere un richiamo alla grande dignità e responsabilità del proprio lavoro; e che la condivisione e la trasmissione delle conoscenze fosse una delle più alte forme di carità. Di lui scriveva Antonio Ambrosetti, docente come lui alla Normale di Pisa: «Alcuni poveri, che De Giorgi cercava di aiutare con assiduità, avevano imparato i suoi orari e si facevano trovare quando arrivava in Piazza dei Cavalieri ai piedi della scalinata che porta all’ingresso della Scuola Normale. Lui aveva sempre qualcosa da dare loro, senza farlo mai pesare, senza mai avere un gesto di insofferenza o, ancora meno, di fastidio. E io rimanevo colpito da questi slanci di generosità e mi sembrava che davvero la bontà di Dio si manifestasse in lui in modo sublime». Con Giovanni Prodi, anche lui matematico, la comunità scientifica italiana ha perso nel gennaio di quest’anno uno dei suoi esponenti più illustri. Autore di uno dei più diffusi manuali di analisi matematica impiegati dagli studenti delle materie scientifiche, fu testimone cristiano benvoluto da tutti. A Prodi si deve la creazione dei gruppi di discussione “Scienza e Fede” nei quali docenti universitari di varie sedi italiane si riunivano e si riuniscono ancora oggi per riflettere e approfondire, alla luce delle proprie competenze scientifiche, il senso della scienza in relazione alle domande ultime che l'uomo si pone. Questi incontri, promossi da Prodi grazie anche all’impulso di mons. Carlo Colombo, presero avvio nel maggio 1977; nel corso dei decenni vi hanno assistito centinaia di docenti e ricercatori di tutta Italia, contribuendo così in modo fattivo alla maturazione del dialogo fra discipline scientifiche e pensiero filosofico-teologico, i cui frutti sono diventati col tempo visibili in diverse sedi culturali e universitarie.

Dio e gli scienziati: due forze che si attraggono o si respingono? Non vi è dubbio che appena si rinuncia ai luoghi comuni e si cerca di approfondire qualcosa di più della storia, si scoprono fra gli scienziati molte personalità di grande spessore umanistico, filosofico e perfino religioso. Non costerebbe molto far giungere almeno parte di questa storia a tutti. O solo allargare lo sguardo per mostrare che chi ritenga la professione di ateismo una condizione necessaria per fare buona scienza sarebbe costretto, buona parte della storia della scienza, a riscriversela tutta da solo. Forse ha ancora ragione Louis Pasteur quando affermava che poca scienza allontana da Dio, ma molta scienza riconduce a Lui.

 

Pubblicato su Avvenire il 3 ottobre 2010