È probabile che cinquanta anni dalla morte di Pierre Teilhard de Chardin rappresentino un intervallo di tempo sufficientemente lungo perché ci si possa accostare al pensiero e alle opere dello scienziato gesuita francese con una prospettiva equilibrata, capace di riconoscere sia le perplessità che alcuni punti della sua elaborazione intellettuale hanno suscitato nei decenni trascorsi, sia le profonde intuizioni e il valore di sintesi, inedita e feconda, contenuti nella sua visione cristiana del cosmo, del lavoro umano e della vita.
Il dovere di informazione impone il ricordo delle disposizioni disciplinari di cui egli fu oggetto in vita all'interno della Compagnia di Gesù, che gli causarono la sospensione dall'insegnamento di materie di carattere filosofico-teologico con la conseguente richiesta di non pubblicare saggi sui medesimi temi. Vari anni dopo la sua morte, ormai nel 1962 e in contemporanea con l'avvio dei lavori del Concilio Vaticano II, un Monitum dell'allora Sant'Uffizio dichiarava in un breve comunicato (cfr. AAS 54 (1962), p. 526) che le sue opere di natura filosofica e teologica, a differenza di quelle di carattere scientifico nel cui merito non si entrava, contenevano ambiguità e gravi errori. Si può ragionevolmente ipotizzare che gli errori in questione (non menzionati dal comunicato) si riferissero alla possibilità di dare luogo ad una visione panteista della presenza di Dio nel cosmo, ad una insufficiente separazione ontologica fra materia e spirito nella descrizione della evoluzione della materia fino alla comparsa della vita e dell'uomo, ad una probabile concezione determinista dell'Incarnazione, nonché ad una erronea comprensione della storicità del peccato originale. Al tempo stesso non si può non registrare che molte idee del pensatore francese avevano già influito sull'elaborazione teologica di non pochi autori del XX secolo e si erano ormai rese presenti in quadri interpretativi certamente ortodossi. Nel 1966, in un discorso sulle relazioni fra scienza e fede, papa Paolo VI parlava di Teilhard come di uno scienziato che aveva saputo, scrutando la materia, trovare lo spirito, e che aveva dato una spiegazione dell'universo capace di rivelare in esso la presenza di Dio, la traccia di un Principio Intelligente e Creatore (cfr. Allocuzione , 24.2.1966, Insegnamenti , IV (1966), pp. 992-993). Il 12 maggio 1981, in una lettera inviata dal card. segretario di Stato Agostino Casaroli a mons. Paul Poupard, Rettore dell' Institut Catholique di Parigi, a motivo del centenario della nascita del paleontologo francese, si affermava che in lui «una forte intuizione poetica del valore profondo della natura, una acuta percezione del dinamismo della creazione e un'ampia visione del divenire del mondo si coniugano con un incontestabile fervore religioso». Nella medesima lettera si aggiunge inoltre che «senza dubbio i nostri tempi non lasceranno cadere, al di là delle difficoltà dei concetti e delle deficienze di espressione del suo audace tentativo di sintesi, la testimonianza di una vita unificata, quella di un uomo conquistato dal Cristo nelle profondità del suo essere, e che ha avuto la preoccupazione di onorare allo stesso tempo la fede e la ragione, anticipando così una risposta all'appello di Giovanni Paolo II “Non abbiate paura, aprite, spalancate le porte a Cristo”» ( Insegnamenti , IV,1 (1981), pp. 1248-1249). Una breve nota pubblicata sull'Osservatore Romano dell'11 luglio dello stesso anno dalla sala stampa della Santa Sede preciserà che la lettera in questione non andava considerata una “riabilitazione” del gesuita francese, né dovevano considerarsi risolti gli aspetti problematici presenti nel suo pensiero.
Fin qui gli eventi. Sufficienti perché il credente che desideri accostarsi alle opere di Teilhard lo faccia dall'interno di un quadro teologico nel quale una precisa conoscenza dei principali contenuti della Rivelazione non solo lo protegga dall'estrapolare o dal fraintendere il pensiero dell'Autore, ma possa addirittura aiutarne una comprensione matura, chiarendo ciò che nel linguaggio esperienziale e mistico del pensatore gesuita potrebbe restare dogmaticamente incompiuto. Sarà probabilmente il tempo a dirci, come avvenuto in occasione di altri autori, se una nuova contestualizzazione del pensiero di Teilhard potrebbe mutarne il sobrio ma significativo giudizio disciplinare, e su quali aspetti della sua sintesi intellettuale i Pastori della Chiesa vorranno eventualmente intervenire, se lo riterranno opportuno, con ulteriori indicazioni.
È con questo spirito che invitiamo i visitatori del Portale di Documentazione Interdisciplinare a leggere i commenti ed i brani che offriamo in occasione del 50° della scomparsa di Pierre Teilhard de Chardin. Ne abbiamo in particolare proposti tre, tratti da La scienza e Cristo , da Il fenomeno umano e da L'ambiente divino. L'editoriale di Jean-Michel Maldamé mette già in luce alcuni dei principali meriti del gesuita scienziato. Desideriamo qui soltanto sottolineare che Teilhard sarà il primo ad offrire una lettura cristiana della lunga storia evolutiva del cosmo, della vita e dell'uomo, dopo che l'Ottocento aveva fatto di quella medesima evoluzione uno dei principali argomenti per scalzare ogni progettualità e intenzionalità creatrice nell'interpretazione della natura. Questa capacità di rilettura, fortemente cristologica, influirà non poco sulla teologia successiva consentendo di chiarire i rapporti fra storia del cosmo e storia della salvezza, e di affermare una convergenza fra cristianesimo e umanesimo, preparando in alcuni autori, fra cui H. de Lubac, la proposta di sintesi più mature e credibili, capaci di ispirare alcune delle pagine più significative del Concilio Vaticano II.
Uno speciale interesse lo suscitano le riflessioni, risalenti al 1927, contenute nel suo Le milieu divin. Si tratta dei primi scritti in cui Teilhard de Chardin parla della necessità di santificare le realtà terrene, di trasformare il cosmo e riportarlo a Dio attraverso la perfezione del lavoro umano. «Il nostro lavoro ci appare soprattutto come un mezzo per guadagnarci il pane quotidiano. Ma la sua virtù definitiva è ben più alta: per suo tramite perfezioniamo in noi il tema dell'unione divina […]. Perciò artisti, operai, scienziati, qualunque sia la nostra funzione umana, noi possiamo, se siamo cristiani, precipitarci verso l'oggetto del nostro lavoro come a un varco aperto verso il supremo completamento dei nostri esseri» (tr. it. Brescia 2003, pp. 38-39). Per Teilhard, la materia, il mondo, non allontanano da Dio, ma possono condurre a Lui se si riconosce il loro ruolo nel piano della creazione. Il mondo e non solo il tempio, in particolare il lavoro umano realizzato con perfezione, è il luogo dell'incontro con Dio: «Dio non è lontano da noi, fuori della sfera tangibile; ma ci aspetta ad ogni istante nell'azione, nell'opera del momento. In qualche maniera, è sulla punta della mia penna, del mio piccone, del mio pennello, del mio ago. È portando sino all'ultima perfezione naturale il tratto, il colpo, il punto al quale mi sto dedicando, che coglierò la Meta ultima cui tende il mio volere profondo» (p. 39).
Teilhard de Chardin è preoccupato del fatto che i cristiani, ai quali si raccomanda spesso solo di “offrire” il lavoro, senza aiutarli a comprenderne il profondo significato di contributo alla trasformazione di una materia e di un mondo che deve essere ordinato in Cristo a Dio, corrano il rischio di condurre una “doppia vita”. «Nonostante la pratica della retta intenzione e della giornata quotidianamente offerta a Dio – egli afferma – la massa dei fedeli cova oscuramente l'idea che il tempo trascorso in ufficio, nel proprio studio, nei campi o nella fabbrica sia sottratto all'adorazione. Certo è impossibile non lavorare. Ma è anche impossibile proporsi quella profonda vita religiosa riservata a coloro che hanno il tempo di pregare o predicare tutto il giorno. Nella vita, alcuni minuti possono essere recuperati per Dio. Ma le ore migliori sono sperperate o per lo meno svalorizzate dalle cure materiali. – Oppressi da questo sentimento moltissimi cattolici conducono in realtà una doppia vita, o una vita impacciata: hanno bisogno di abbandonare la veste umana per ritenersi cristiani, e solo cristiani di secondo ordine» (p. 40).
Egli si adopererà per mostrare tutta la necessità del compito di «divinizzare l'impegno umano». E ricorderà ai cristiani: «nel lasciare la Chiesa per la città rumorosa, non avrete altro che la sensazione di continuare ad immergervi in Dio» (p. 41). Se amiamo Dio, si chiede Teilhard, «lo stesso lavoro della nostra mente, del nostro cuore, delle nostre mani — i nostri risultati, le nostre opere, il nostro opus — non sarà forse, in qualche modo, anch'esso “eternato”, salvato?» (p. 32). E ancora: «Come temere che l'occupazione più banale, più assorbente oppure più affascinante, ci costringa ad uscire da Lui? – Ripetiamolo: in virtù della Creazione e ancor più dell'Incarnazione, niente è profano quaggiù per chi sa vedere» (pp. 40-41). Siamo di fronte a prospettive nuove, ad intuizioni che sorgeranno in modo indipendente anche in altri autori di quei medesimi anni, contribuendo alla progressiva affermazione di una visione cristiana che rivaluta la dignità spirituale del lavoro e la legittima autonomia della creazione, preparando così il terreno a riflessioni che anche il Magistero della Chiesa farà sue a partire dal Concilio Vaticano II. Basterebbe forse solo questo per guardare a Teilhard de Chardin con motivato interesse.
Spunti bibliografici:
H. de Lubac , Il pensiero religioso di Teilhard de Chardin (1962), Jaca Book, Milano 1983; L. Galleni , Teilhard de Chardin, Pierre , in “Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede”, Urbaniana Univ. Press - Città Nuova, Roma 2002, pp. 2111-2124; R. Gibellini , Teilhard de Chardin, l'opera e le interpretazioni , Queriniana, Brescia 1995 3 ; R. Latourelle , Teilhard de Chardin , in “Dizionario di Teologia Fondamentale”, Cittadella, Assisi 1990, pp. 1207-1216.
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