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J. H. Newman: una concezione non soggettivista della soggettività, intervista a Luca Tuninetti

Luca Tuninetti
Ordinario di Filosofia della conoscenza - Pontificia Università Urbaniana
2019

Prof. Tuninetti, il prossimo 13 ottobre, John Henry Newman sarà canonizzato come nuovo santo della Chiesa Cattolica. Lei ha studiato da vicino il pensiero di questo autore. Quali sono i temi trattati da Newman che ritiene di particolare attualità nell’odierna temperie culturale?

Un tema di fondo nell’opera di Newman è l’interesse per quella che definirei una concezione non soggettivista della soggettività. Mi pare un tema di grande importanza ancora oggi. Il pensiero moderno ha messo in evidenza il soggetto del conoscere e dell’agire, ma lo ha fatto tante volte a spese dell’oggettività del vero e del bene. Newman riconosce che il soggetto reale non è un soggetto autonomo, ma il soggetto in relazione con il vero e con il bene, ovvero il soggetto in relazione con Dio. Newman però non fa programmi di riforma filosofica. Non lo definirei neppure un personalista, se per personalismo si intende una concezione filosofica che insiste su certe caratteristiche specifiche dell’essere personale. Certamente le sue opere contengono insegnamenti preziosi per l’epistemologia e per l’etica in quanto propongono una visione corretta e profonda della ragione e della coscienza. La concezione non soggettivista della soggettività, però, direi che Newman innanzi tutto la pratica nei suoi scritti e nelle sue azioni. Essere una persona tesa alla conoscenza della verità non significa fare un discorso sulla persona e sulla verità, ma vivere la tensione alla conoscenza e coinvolgere anche altri in quella stessa tensione. Si impara a vivere da persona vivendo con altre persone che in qualche misura già vivono così. Newman prende sul serio il suo rapporto personale con Dio e, facendolo, invita anche chi lo incontra a fare lo stesso.

 

Littlemore
Littlemore, Okford.

Fra i riferimenti che Newman ha posto al centro della sua riflessione vi è l’amore alla verità, da lui cercata con passione e per la quale ha accettato incomprensioni e anche qualche persecuzione. Troppo ideale la sua visione, rispetto alla contemporanea tendenza ad evitare tesi forti e toni decisi?

L’amore alla verità è sempre, in un certo senso, inattuale. Interessarsi alla verità significa appunto chiedersi se occorre dire o fare qualcosa di diverso da ciò che è momentaneamente conveniente dire o fare. Certamente noi possiamo invidiare la capacità che Newman ha di inserirsi nel dibattito culturale dell’Inghilterra vittoriana, portando un contributo che talvolta è stato riconosciuto anche dai suoi avversari. Newman segue con attenzione gli avvenimenti contemporanei e anche le discussioni scientifiche. Tuttavia non si può ignorare che per certi versi pure Newman è isolato nel suo tempo. La sua preoccupazione fondamentale per la ragionevolezza della fede cristiana si rifà a dibattiti del XVIII secolo che molti suoi contemporanei potevano considerare come definitivamente conclusi a vantaggio del razionalismo. Forse solo molto tardi Newman si accorge che il suo ideale di una nazione cristiana è tramontato per sempre. Certamente è molto critico delle illusioni del progressismo liberale, che prende di mira in alcune delle sue pagine di satira più riuscite. Detto questo, l’amore alla verità, con tutta la sua inattualità, appare per Newman come costitutivo della persona: senza l’amore alla verità, la persona non si pone neppure in rapporto con il proprio tempo.

 

Oltre a Newman teologo e filosofo, vi è anche Newman storico, romanziere, poeta… Come si armonizzano, secondo lei, queste varie dimensioni?

Newman è un uomo colto. Nell’Idea di Università ha tratteggiato l’ideale di formazione compiuta della persona, ma si può dire che quell’ideale egli lo ha innanzi tutto realizzato in sé stesso. Un uomo colto è capace di integrare nella sua persona le conoscenze che gli vengono da ambiti diversi di studio e di esperienza. Che questa integrazione sia riuscita lo si nota innanzi tutto dalla capacità di parlare con competenza di diverse questioni. La padronanza del linguaggio è insieme un segno e un risultato della cultura di una persona. In tutti i suoi scritti, anche nelle lettere di carattere personale, Newman dimostra - e dimostra in modo straordinario - quella padronanza della lingua che è un carattere distintivo dell’uomo colto. Che Newman sia stato un uomo colto è interessante notarlo proprio nel momento in cui aspettiamo la sua canonizzazione. Quando, una volta, venne a sapere che una pia signora lo aveva definito un «santo», Newman replicò: «Non ho nessuna tendenza a essere un santo, per quanto sia triste dirlo. I santi non sono uomini di lettere, non amano i classici, non scrivono racconti». La Chiesa adesso ci dice che Newman si è sbagliato: ci può essere un santo che scrive romanzi. La storia della Chiesa, del resto, ci mostra che ci sono molti modi di essere santo. Ci sono tante forme di santità quante sono le persone che Dio chiama all’amicizia con lui. Certamente non è necessario essere una persona colta per essere un santo. Ma l’esempio di Newman ci mostra che non è neppure necessario non esserlo: Newman certamente era una persona colta, probabilmente una delle più colte del suo tempo, e non è un santo nonostante il fatto che fosse una persona colta, ma perché è stato una persona colta che in mezzo ai suoi molteplici interessi umani e culturali ha accolto la chiamata di Dio.

 

Oriel College
Oriel College, Okford.

Se desiderasse accostare dei giovani studiosi al pensiero del filosofo di Oxford, con quale opera suggerirebbe di iniziare?

È davvero difficile rispondere a questa domanda perché le opere di Newman che meritano di essere lette sono tante. In generale, meritano di essere lette nella lingua originale, perché, come accennavo, Newman è un grande scrittore. Da dove cominciare dipende anche dagli interessi e dalla sensibilità di ciascuno. Molti cominciano dall’Apologia (1864), in cui Newman racconta in un modo insieme discreto e appassionato il percorso che lo ha portato dalla Chiesa d’Inghilterra alla Chiesa di Roma. L’Idea di Università (1852) è un libro legato a un altro momento fondamentale della vita di Newman, quando ebbe l’incarico di fondare una Università cattolica in Irlanda e in una serie di conferenze tratteggiò il fine che l’educazione universitaria deve perseguire. Non mi sembrerebbe neppure una cattiva idea cominciare da un romanzo come Callista (1855), che è un bellissimo racconto ambientato nel terzo secolo, o anche Loss and Gain (1848), che è una riflessione romanzata sulle ragioni della conversione. Chi ha interessi teologici non può ignorare il Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana del 1845: è una pietra miliare nella storia della riflessione teologica, ma è probabilmente anche uno dei libri di teologia che hanno avuto conseguenze più rilevanti per la vita del loro autore, dato che l’argomento proposto nel libro portò Newman a lasciare tutto per entrare nella Chiesa cattolica. A chi è interessato alle riflessioni di Newman su fede e ragione consiglierei di iniziare dai Sermoni universitari (1843), più accessibili della Grammatica dell’assenso (1870). Questo capolavoro costò una fatica immensa a Newman e qualche segno dello sforzo affrontato rimane nella composizione dell’opera: per questo consiglierei di iniziarne la lettura cominciando dal primo capitolo della seconda parte (capitolo sesto). Infine, chi ha già letto una buona biografia di Newman (come quella di Ker o quella di Gilley), può avere il desiderio di conoscerne meglio la personalità leggendo le sue lettere: saranno pochi quelli in grado di affrontare i 32 volumi dell’epistolario, ma esiste una raccolta in un volume a cura di Roderick Strange.[1]

 

E se invece dovesse preparare lei un corso su Newman o scrivere un libro sul suo pensiero, quale titolo sceglierebbe e quali aspetti le piacerebbe trattare?

In realtà ho già tenuto più di un corso su Newman... Il mio interesse è andato soprattutto alle questioni epistemologiche. Ho raccolto un po’ di materiale e mi piacerebbe raccontare in modo un po’ dettagliato lo sviluppo delle riflessioni di Newman su ragione e certezza. Non so però se riuscirò mai a farlo e forse altri lo potrebbero fare meglio di me. In generale, credo che il frutto più significativo della mia lettura di Newman non stia neppure negli scritti che ho dedicato specificamente al suo pensiero, ma nell’influenza che ha avuto sul mio lavoro in epistemologia, anche là dove magari lo cito appena. Molte delle cose che sono state scritte a proposito di Newman sono insoddisfacenti perché si limitano a ripeterne le parole oppure cercano di inserirne il pensiero in categorie che gli sono estranee. Non è facile scrivere di Newman e forse è meglio leggerne le opere senza preoccuparsi di ricavarne una pubblicazione, ma lasciando che questa lettura formi il nostro sguardo. Detto questo, però, il progetto non di un libro, ma di un articolo ce lo avrei. Si intitola “Newman e l’idea di cultura”. Newman non usa la parola cultura in questo senso come condizione propria dell’uomo colto. Per lui culture non indica una condizione della persona, ma piuttosto quell’attività di coltivazione della mente che la porta alla condizione di pieno sviluppo che è propria del gentleman. A prescindere dalla questione terminologica, tuttavia, credo che le riflessioni di Newman ci possano aiutare a districarci in una situazione in cui è più che mai necessario distinguere la ricerca di informazione, la ricerca che permette di dare un contributo specialistico in una determinata disciplina scientifica e la ricerca della sapienza senza della quale la persona non è intellettualmente compiuta.

 

Un’ultima domanda, forse insolita. Supponiamo che Newman, il giorno della sua canonizzazione, potesse far sentire la sua voce agli uomini e alle donne del XXI secolo. Cosa direbbe loro?

Scherzando un po’, risponderei che potrebbe dire: «Vedete che avevo ragione io ... ». Le profezie di Newman sul futuro della Chiesa e del mondo potevano apparire fosche quando furono pronunciate, ma credo che non si possa negare che descrivono la nostra situazione attuale in modo efficace. Newman riteneva che i cristiani si sarebbero trovati a vivere in un mondo irreligioso, un mondo radicalmente diverso da quello in cui il cristianesimo si era diffuso inizialmente, che era un mondo pieno di superstizione, ma non indifferente alle cose religiose. Forse qualcuno potrebbe obiettare che non si è realizzata la previsione di Newman secondo cui in futuro sarebbero via via scomparse le posizioni intermedie e il cattolicesimo si sarebbe confrontato direttamente con l’ateismo. Tuttavia la percezione di questo confronto radicale tra cattolicesimo e ateismo, probabilmente, non viene soltanto dalla considerazione di quello che dicono i dati sociologici, ma dipende dal modo in cui si legge la situazione culturale contemporanea ... Ad ogni modo, scherzi a parte, certamente Newman non si fermerebbe a rivendicare i suoi meriti; e non lo farebbe già solo perché farlo sarebbe di cattivo gusto per il gentleman che lui è. Ma certamente Newman ci esorterebbe a vivere nel tempo presente la speranza che è data a chi segue Cristo. Anche nella situazione presente, la questione più urgente rimane quella di prendere sul serio la propria persona in rapporto con Dio.



[1] Cf. I. Ker, John Henry Newman. A Biography, Oxford University Press, Oxford - New York 2009; S. Gilley, Newman and His Age, Longman & Todd, London 1990; R. Strange (ed.), Newman. A Portrait in Letters, Oxford University Press, Oxford - New York 2019.