Tra il settembre del 1929 e il dicembre del 1930 Ludwig Wittgenstein viene invitato da un’associazione di Cambridge, The Heretics, a tenere una conferenza. La scelta del filosofo cade sul tema dell’etica, da intendersi in un senso ampio come ambito del valore, contrapposto all’ambito dei fatti. In questa conferenza Wittgenstein distingue tra valore relativo (riducibile a descrizioni fattuali) e valore assoluto, fornendo alcuni esempi di quest’ultimo attraverso alcune esperienze come la “meraviglia per l’esistenza del mondo”. In una simile esperienza il mondo viene visto come un miracolo: con questo termine Wittgenstein non intende riferirsi a un fatto inspiegabile (ma in attesa di una spiegazione scientifica) bensì a ciò che strutturalmente sfugge al linguaggio e che allo stesso tempo costituisce lo sfondo del nostro parlare e agire. Con un termine utilizzato da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1922), il Mistico viene qui distinto dall’ambito di ciò che è dicibile attraverso proposizioni sensate: ogni tentativo di dire l’esperienza miracolosa dell’esistenza del mondo è condannato pertanto al nonsenso. Tuttavia questo tentativo dà testimonianza di una tensione insita nell’animo umano «che io personalmente – conclude Wittgenstein – non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo».
Prima di entrare in argomento, farò qualche osservazione preliminare. Sento che mi sarà molto difficile comunicarvi i miei pensieri, e penso che alcune delle difficoltò potrebbero ridursi se ve le esporrò subito. La prima, che potrei quasi fare a meno di menzionare, è che l'inglese non è la mia lingua, e quindi il mio modo di esprimermi manca spesso di quella precisione e sottigliezza che sarebbero desiderabili quando si parla di un argomento difficile. Posso solo chiedervi di facilitare il mio compito, cercando di capire il mio pensiero a dispetto degli errori che verrò continuamente commettendo nei confronti della grammatica inglese. La seconda difficoltà è che probabilmente molti di voi sono venuti a questa mia conferenza con aspettative leggermente sbagliate. E, per chiarirvi le cose su questo punto, voglio dirvi qualche parola sulle ragioni della mia scelta dell'argomento. Quando l'allora segretario della vostra associazione mi fece l'onore di chiedermi di tenere una conferenza, il mio primo pensiero è stato di accettare senz'altro; poi ho pensato che, se avessi avuto l'occasione di parlare a voi, avrei dovuto parlare di qualcosa che voglio davvero comunicarvi, e non sprecarla facendovi una conferenza, ad esempio, di logica. Ho detto «sprecarla» perché per trattare con voi un argomento scientifico sarebbe necessario disporre di un intero corso di conferenze e non di un'ora sola. Un'altra alternativa avrebbe potuto essere quella di una conferenza cosiddetta scientifico-popolare, intesa cioè a farvi credere di capire una cosa che di fatto non capite, e di soddisfare quel che, secondo me, è uno dei più bassi desideri dell'uomo moderno, ossia la curiosità superficiale per le ultime scoperte della scienza. Ho respinto queste alternative e ho deciso di parlarvi di un argomento che a me sembra di importanza generale, nella speranza che possa contribuire a chiarire le vostre idee al riguardo (anche se doveste totalmente dissentire con quanta verrò dicendo). La mia terza e ultima difficoltà è di quelle proprie in realtà ad ogni discorso filosofico di una certa ampiezza: chi ascolta è incapace di vedere la via per cui è condotto e la meta a cui conduce. Ossia pensa «Capisco tutto ciò che dice, ma dove vuole arrivare?», oppure «Vedo dove vuole arrivare, ma come farà a pervenirvi?». Posso solo, di nuovo, chiedervi di essere pazienti, sperando che alla fine possiate vedere tanto la strada quanto dove essa conduce.
E ora incomincio. Il mio argomento, come sapete, è l'etica, e io adotterò la spiegazione del termine data dal professor Moore nel suo libro Principia Ethica. Egli dice: «Etica è la ricerca generale su ciò che è bene». Ora, io userò il termine «etica» in un senso un poco più lato, in un senso, di fatto, che include la parte secondo me più essenziale di ciò che di solito viene chiamato estetica. E per farvi vedere il più chiaramente possibile che cosa assumo come oggetto proprio dell' etica, vi presenterò alcune espressioni più o meno sinonime, ciascuna delle quali può essere sostituita alla definizione precedente; enumerandole, voglio produrre lo stesso tipo di effetto prodotto da Galton quando disponeva sulla stessa lastra fotografica un certo numero di fotografie di facce diverse per avere il quadro delle caratteristiche tipiche comuni a tutte. E come, mostrandovi una tale fotografia collettiva, potrei farvi vedere quale sia, ad esempio, la tipica faccia cinese, così, passando lo sguardo sulla serie di sinonimi che vi porrò di fronte, sarete in grado, spero, di vedere le caratteristiche tipiche comuni a tutti, e che sono le caratteristiche tipiche dell'etica. Ora, invece di dire che l' «etica è la ricerca su ciò che è bene», avrei potuto dire che l'etica è la ricerca su ciò che ha valore; o su ciò che è realmente importante, o sul significato della vita, o su ciò che fa la vita meritevole di essere vissuta, o sul modo giusto di vivere. Io credo che se voi guardate a tutte queste frasi, avrete un'idea approssimativa di ciò di cui l'etica si occupa. Ora, quel che subito colpisce, in tutte queste espressioni, è che ciascuna di esse è in realtà usata in due sensi molto diversi. Li chiamerò il senso corrente, o relativo, da una parte, e il senso etico, o assoluto, dall'altra. Se dico, per esempio, che questa è una buona sedia, ciò significa chela sedia serve a un certo scopo ben determinato e la parola buono, qui, ha significato solo se questa scopo è stato fissato in precedenza. Infatti, la parola buono, nel senso relativo, significa semplicemente raggiungere un certo predeterminato livello. Cosi, quando diciamo che quest'uomo e un buon pianista, vogliamo intendere che può suonare pezzi di un certo grado di difficolta con un certo grado di destrezza. E similmente se dico che per me è importante non prendere freddo, voglio significare con questa che prendere un raffreddore produce certi disturbi, descrivibili, nella mia vita, e se dico che questa è la via giusta, voglio dire che è giusta relativamente a una certa meta. Usate in tal modo, queste espressioni non presentano problemi gravi e di difficile soluzione. Ma questo non e il modo in cui l'etica le usa. Supponiamo che io giochi a tennis e che uno di voi mi veda giocare, e dica «In realtà lei gioca abbastanza male». Supponiamo che io replichi «Lo so, gioco male ma non voglio giocare meglio »; quell'uno di voi potrebbe allora solo dire «Ah, se è così va tutto bene». Ma supponiamo invece che io abbia detto a uno di voi una bugia assurda e che costui venga da me e mi dica «Lei si comporta come un disgraziato », e io gli rispondo «Lo so di comportarmi male, ma non voglio comportarmi meglio», potrebbe forse dire, costui «Ah, se e cosi va tutto bene»? Certamente no; direbbe piuttosto «Ma lei dovrebbe desiderare di comportarsi meglio». Qui abbiamo un giudizio assoluto di valore, mentre il primo era un caso di giudizio relativo. L'essenza di questa differenza sembra, ovviamente, essere questa: ogni giudizio di valore relativo è una pura asserzione di fatti e può quindi essere espresso in una forma tale da perdere del tutto l'aspetto di un giudizio di valore. Invece di dire «Questa è la via giusta per Granchester», avrei potuto dire altrettanto bene «Questa è la via giusta che dovete percorrere se volete raggiungere Granchester nel più breve tempo possibile». «Quest'uomo è un buon corridore» significa solo che percorre un certo numero di chilometri in un certo numero di minuti, ecc.
Ora, io voglio affermare che, mentre si può mostrare come tutti i giudizi di valore relativo siano pure asserzioni di fatti, nessuna asserzione di fatti può mai essere, o implicare, un giudizio di valore assoluto. Permettetemi di spiegare ciò: supponiamo che uno di voi fosse onnisciente, e conoscesse, quindi, tutti i movimenti di tutti i corpi nel mondo, vivi o morti, e conoscesse anche tutti gli stati mentali di tutti gli esseri umani che siano mai vissuti, e supponiamo che quest'uomo abbia scritto tutto ciò che sa in un grosso libro, che conterrebbe quindi l'intera descrizione del mondo: quel che voglio dire è che questa libro non conterrebbe nulla che noi potremmo chiamare un giudizio eticoo qualcosa che logicamente implichi un tale giudizio. Conterrebbe, certo, tutti i relativi giudizi di valore e tutte le vere proposizioni scientifiche, e, in realtà, tutte le vere proposizioni possibili. Ma tutti i fatti descritti sarebbero, per cosi dire, allo stesso livello, e, allo stesso modo, tutte le proposizioni. Non vi sono proposizioni che, in qualsiasi senso assoluto, sono sublimi, importanti o correnti. Ora, forse, alcuni di voi saranno d'accordo su questo, e si ricorderanno delle parole di Amleto «Nothing is either good or bad, but thinking makes it so» [Nulla è buono o cattivo, ma il pensiero lo fa tale]. Ma anche questo potrebbe portare a un malinteso. Ciò che dice Amleto sembra implicare che bene o male, benché non siano qualità del mondo a noi esterno, siano attributi del nostro stato mentale. Mentre, secondo me, uno stato mentale – intendo per esso un fatto passibile di descrizione – in un senso etico, non è né buono né cattivo. Se, per esempio, nel vostro libro universale leggiamo la descrizione di un delitto, compresi i particolari fisici e psicologici, la pura descrizione di questi fatti non conterrà nulla che potremmo chiamare una proposizione etica. II delitto sarà esattamente sullo stesso livello di un qualsiasi altro evento, per esempio la caduta di una pietra. Certo, la lettura di questa descrizione può causarci dolore o rabbia, o ogni altra emozione, oppure possiamo leggere del dolore e della rabbia causati da questo assassinio in altri quando ne ebbero notizia, ma saranno sempre fatti, semplicemente, fatti e fatti, e non etica. E ora debbo dire che se osservo ciò che l'etica veramente dovrebbe essere, se ci fosse una scienza del genere, il risultato mi sembra del tutto ovvio. Mi sembra evidente che nulla di ciò che noi potremmo pensare o dire sarebbe la cosa; che noi non possiamo scrivere un libro scientifico, il cui tema possa essere intrinsecamente sublime e superiore a qualsiasi altro tema. Posso solo descrivere i miei sentimenti con la metafora che, se un uomo potesse scrivere un libro di etica che fosse veramente un libro di etica, questo libro distruggerebbe, con un'esplosione, tutti gli altri libri del mondo. Le nostre parole, usate come noi le usiamo nella scienza, sono strumenti capaci solo di contenere e di trasmettere significato e senso, senso e significato naturali. L'etica, se è qualcosa, è soprannaturale, mentre le nostre parole potranno esprimere solamente fatti; cosi come una tazza contiene solo la quantità d'acqua che la riempie fino all'orlo, e io ne facessi versare un ettolitro. Ho detto che per quanto riguarda fatti e proposizioni, c’è solo valore relativo e bene relativo, ecc. Permettetemi, prima di andare avanti, di darne un esempio abbastanza ovvio. La via giusta è quella che conduce a una meta arbitrariamente predeterminata, ed è abbastanza chiaro a tutti noi che non ha senso parlare di una via giusta indipendentemente da una tale meta predeterminata. Vediamo ora che cosa potremmo eventualmente voler dire con l'espressione «la via assolutamente giusta».
Penso sarebbe la via che ciascuno, vedendola, dovrebbe, per necessità logica, percorrere, o vergognarsi di non farlo. E, similmente, il bene assoluto, se è uno stato di cose descrivibile, sarebbe quello che chiunque, indipendentemente dai propri gusti e dalle proprie inclinazioni, dovrebbe necessariamente conseguire, o sentirsi colpevole per non conseguirlo. Voglio dire, inoltre, che un simile stato di cose è una chimera. Nessuna situazione possiede, in quanto tale, quello che mi piacerebbe chiamare il potere coercitivo di un giudice assoluto. Ma allora, tutti noi che, e io tra questi, siamo tuttavia tentati di usare espressioni come «bene assoluto», «valore assoluto», ecc., che cosa abbiamo in mente, e che cosa cerchiamo di esprimere? Ora, ogni volta che io cerco di chiarirlo a me stesso, è naturale che io ricordi dei casi in cui farei certamente uso di queste espressioni, trovandomi allora nella situazione in cui sareste voi se, per esempio, io stessi tenendovi una conferenza sulla psicologia del piacere. Cerchereste allora di ricordarvi qualche situazione tipica in cui sempre avete provato piacere, perché, avendo richiamato alla mente una simile situazione, diverrebbe per voi concreto e, in certo modo, controllabile, tutto quello che io potrei dirvi. In un caso del genere, uno potrebbe scegliere come esempio tipico la sensazione provata durante una passeggiata in un bel giorno d'estate. Ora, appunto, io mi trovo in un caso analogo, volendo fissare la mia mente su ciò che intendo per valore assoluto o etico. E sempre mi capita che mi si presenti l'idea di un'esperienza particolare che quindi è, in un certo senso, la mia esperienza per eccellenza: ed è per questa ragione che ora, parlando a voi, userò questa esperienza come il mio primo e principale esempio. (Come ho detto prima, si tratta di una questione del tutto personale, e altri, quindi, potrebbero trovare esempi diversi e più persuasivi). Descriverò questa esperienza in modo che voi possiate richiamare alla vostra mente la stessa esperienza, o esperienze simili, così da avere una base comune per la nostra ricerca. Credo che il modo migliore di descriverla sia dire che, quando io ho questa esperienza, mi meraviglio per l'esistenza del mondo. E sono allora indotto a usare frasi come «Quanto è straordinario che ogni cosa esista», oppure «Quanto è straordinario che il mondo esista». Farò menzione di un'altra esperienza, subito, che mi è pure nota e che può essere nota anche ad alcuni di voi: l'esperienza, si potrebbe dire, di sentirsi assolutamente al sicuro. Intendo lo stato d'animo in cui si è portati a dire «Sono al sicuro, nulla può recarmi danno, qualsiasi cosa accada». Ora prenderò in considerazione queste esperienze, dal momento che, secondo me, presentano proprio quelle caratteristiche che cerchiamo di chiarire. E, prima di tutto, voglio dire che l'espressione verbale che diamo a queste esperienze non ha senso! Se dico «Mi meraviglio per l'esistenza del mondo», faccio un cattivo uso della lingua. Lasciatemi spiegare: ha un significato chiaro e preciso il dire che mi meraviglio di qualche cosa perché è come è, tutti capiamo cosa voglia dire meravigliarsi per le dimensioni di un cane più grosso di qualsiasi cane mai visto, o per qualcosa di straordinario, nell'accezione comune del termine. In tutti questi casi, io mi meraviglio di qualcosa perché è come è, e che potrei concepire come diversa.
Mi meraviglio per le dimensioni di questo cane, perché potrei immaginare un cane di dimensioni normali, per esempio, di cui non mi meraviglierei. Dire «Mi meraviglio di questo e di quest'altro», ha senso solo se posso immaginarmi che le cose non stiano così. In questo senso, ci si può meravigliare, diciamo, per l'esistenza di una casa, vedendola, non avendola visitata da molto tempo e avendo immaginato che l'avessero demolita nel frattempo. Ma non ha senso dire che mi meraviglio per l'esistenza del mondo poiché non posso immaginarlo non esistente. Posso certo meravigliarmi che il mondo attorno a me sia così. Se, per esempio, avessi una tale esperienza mentre guardo il cielo azzurro, potrei meravigliarmi del suo essere azzurro, invece che coperto di nubi. Ma non è questo che voglio dire. Mi sto meravigliando del cielo, comunque esso sia. Si potrebbe essere tentati di dire che mi sto meravigliando di una tautologia, e cioè del cielo azzurro o non azzurro che sia, ma allora non ha senso dire di meravigliarsi di una tautologia. Ora, capita lo stesso per l'altra esperienza da me menzionata, l'esperienza cioè di sentirsi assolutamente al sicuro. Sappiamo tutti cosa voglia dire, nella vita normale, essere al sicuro. Sono al sicuro nella mia stanza, dove non posso essere travolto da un autobus, sono al sicuro se ho avuto già la pertosse e quindi non posso averla una seconda volta. Essere al sicuro significa, essenzialmente, l'impossibilità fisica che mi possano capitare certe cose, e quindi non ha senso dire che io sono al sicuro, qualsiasi cosa capiti. Di nuovo, e un uso errato della parola «sicuro», come, nell'altro esempio, perle parole «esistenza» e «meravigliarsi». Vorrei ora imprimere nella vostra mente che un certo caratteristico uso errato della nostra lingua percorre tutte le espressioni etiche e religiose. Le quali, prima facie, sembrano solo similitudini, e sembra quindi che, quando usiamo la parola giusto in senso etico, benché non intendiamo «giusto» nel suo senso corrente, si tratti di qualcosa di simile, e così pure nell'espressione «È un brav'uomo», benché la parola «bravo» non abbia qui lo stesso significato che ha nella frase « È un bravo giocatore di calcio».E quando diciamo «La vita di quell'uomo aveva un valore», non lo intendiamo nella stesso senso in cui parliamo del valore di un gioiello, ma sembra si dia una qualche analogia. Orbene, sembra che tutti i termini religiosi, in questo senso, siano usati come similitudini, o in modo allegorico, perché, quando parliamo di Dio, che vede tutto, e quando ci inginocchiamo e lo preghiamo, tutte le nostre parole e le nostre azioni sembrano parti di una grande elaborata allegoria che rappresenta Dio come un essere umano che ha un grande potere, la cui grazia cerchiamo di cattivarci, ecc., ecc. Ma questa allegoria descrive anche le esperienze già riferite, perché la prima e, secondo me, esattamente l'esperienza cui si fariferimento quando si dice che Dio ha creato il mondo; mentre l'esperienza di sicurezza assoluta e stata descritta dicendo di sentirci sicuri nelle mani di Dio. Una terza esperienza della stesso genere è il sentirsi colpevoli, e, di nuovo, la si è espressa dicendo che Dio disapprova la nostra condotta.
Così sembra che nel linguaggio etico e religioso noi usiamo sempre similitudini. Ma una similitudine deve essere una similitudine per qualcosa, e se posso descrivere un fatto usando una similitudine, devo anche essere in grado di toglier via questa e di descriverlo senza di essa. Ora, nel nostro caso, se cerchiamo di eliminare la similitudine e di asserire semplicemente i fatti che vi stanno dietro, troviamo che questi fatti non ci sono. Così, quanto sembrava dapprima una similitudine, appare come un puro nonsenso. Ora, le tre esperienze che vi ho menzionato (e avrei potuto aggiungerne altre), a coloro che le hanno provate, e per esempio a me, sembrano possedere, in un certo senso, un valore intrinseco, assoluto. Ma se dico che sono esperienze, vuol dire certamente che sono fatti; accaduti in un certo posto, in un certo tempo, hanno avuto una certa durata e, per conseguenza, sono descrivibili. E allora, per quanto ho detto pochi minuti orsono, devo riconoscere che non ha senso dire che hanno un valore assoluto. Sarò ancora più persuasivo, dicendo «È un paradosso che un'esperienza, un fatto, sembri avere un valore sovrannaturale». C’è però un modo in cui sarei tentato di affrontare questo paradosso. Permettetemi di considerare, ancora una volta, la nostra prima esperienza del meravigliarsi per l' esistenza del mondo e di descriverla in un modo un po' diverso. Sappiamo tutti cosa si direbbe un miracolo nella vita normale. È ovviamente solo un evento di cui non abbiamo ancora mai visto l'uguale. Supponiamo ora che un evento simile si verifichi. Supponiamo che a uno di voi cresca improvvisamente una testa di leone e cominci a ruggire. Sarebbe certamente una cosa straordinaria davvero. Ora, una volta rimessici dalla sorpresa, la prima cosa che suggerirei, sarebbe di chiamare un dottore e di fargli esaminare il caso in modo scientifico, e, se non fosse per non fargli male, vorrei che fosse vivisezionato. Ma dove se ne sarebbe andato il miracolo? È chiaro infatti che se osserviamo le cose in questo modo, tutto quel che c’è di miracoloso sparisce, a meno che intendiamo per «miracoloso» solo ciò che la scienza non ha ancora spiegato, il che vuol dire, di nuovo, che non siamo finora riusciti a raggruppare questo fatto insieme con altri in un sistema scientifico. Questo mostra come sia assurdo dire che «la scienza ha provato che non ci sono miracoli». La verità è che il modo scientifico di guardare un fatto non è il modo di guardarlo come un miracolo. Perché, qualsiasi fatto voi possiate immaginare, non è miracoloso in se stesso, nel senso assoluto del termine. Vediamo ora, quindi, di aver usato la parola «miracolo» in senso relativo e in senso assoluto. E ora descriverò l'esperienza di meravigliarsi per l'esistenza del mondo, dicendo: è l'esperienza di vedere il mondo come un miracolo. Sono ora tentato di dire che l'espressione giusta nella lingua per il miracolo dell'esistenza del mondo, benché non sia alcuna proposizione nella lingua, è l'esistenza del linguaggio stesso. Ma allora cosa significa essere consapevoli di questa miracolo in certe occasioni e non in altre? Infatti, trasferendo l'espressione del miracoloso da un'espressione per mezzo del linguaggio alla espressione per l'esistenza del linguaggio, ho detto solo, di nuovo, che non possiamo esprimere ciò che vogliamo esprimere e che tutto ciò che diciamo sul miracoloso assoluto rimane privo di senso.
Ora, la risposta a tutto questo sembrerà perfettamente chiara a molti di voi. Direte: allora, se certe esperienze ci inducono sempre nella tentazione di attribuire a esse una qualità che chiamiamo valore e importanza assoluti o etici, questa mostra semplicemente come con queste parole noi non intendiamo un nonsenso e che quindi, dopo tutto, dicendo che un'esperienza ha un valore assoluto, intendiamo solo un fatto come un altro, e che tutto equivale a dire di non essere ancora riusciti a trovare la corretta analisi logica di ciò che intendiamo con le nostre espressioni etiche e religiose. Ora, di fronte a una tale asserzione, io vedo subito chiaro, come in un lampo di luce, non solo che nessuna descrizione pensabile per me sarebbe adatta a descrivere ciò che io intendo per valore assoluto, ma anche che respingerei ogni descrizione significante che chiunque potesse eventualmente suggerire, ab initio, sulla base del suo significato. Cioè, voglio dire: vedo ora come queste espressioni prive di senso erano tali non perché non avessi ancora trovato l'espressione corretta, ma perché la loro mancanza di senso era la loro essenza peculiare. Perché, infatti, con esse io mi proponevo proprio di andare al di là del mondo, ossia al di là del linguaggio significante. La mia tendenza e, io ritengo, la tendenza di tutti coloro che hanno mai cercato di scrivere o di parlare di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio. Quest'avventarsi contro le pareti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente disperato. L'etica, in quanto sorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l'assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice, non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza. Ma è un documento di una tendenza nell'animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo.
L. Wittgenstein, Conferenza sull’etica, in Lezioni e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Adelphi, Milano 1980, pp. 5-18.