Virtù e Metodo

In questo editoriale apparso originariamente sulla rivista Universitas nel giugno del 1994, Stefano Zamagni, Ordinario di Economia Politica all'Università di Bologna, focalizza l'attenzione sulla condizione dello studioso accademico con l'intento di mettere in luce le virtù fondamentali del suo lavoro. Fra queste: l'accettazione di una fatica formativa, la necessità di una auctoritas a guida della propria ricerca, il rispetto del vero, l’acquisizione di un habitus critico, la finalizzazione della ricerca alla propria scelta vocazionale.

Nelle note che seguono, fisso l'attenzione sulla condizione dello studioso accademico — una condizione che si caratterizza come attività di ricerca (studium) guidata, tesa all'acquisizione di conoscenza e soprattutto di un metodo adatti ad affrontare la realtà in qualcuno dei suoi multiformi aspetti, perché essa venga indirizzata ad un determinato obiettivo — con l'intento di metterne a fuoco gli elementi fondamentali*. A ben considerare, questi paiono essere i seguenti: l'accettazione di una fatica formativa; la necessità di una auctoritas; il rispetto del vero; l'habitus critico; la finalizzazione della ricerca alla propria scelta vocazionale.

Pazienza e libera curiosità

La pazienza — con l'alone di sofferenza che il termine comporta — è il primo requisito di chi accede ad un cammino formativo, perché l'iniziante non è ancora in grado di giudicare l'utilità finale delle conoscenze sì da poter decidere quali siano veramente finali-fruitive e quali invece solo istantaneamente piacevoli. E soprattutto perché la ricerca che seleziona pregiudizialmente le sue fonti — fosse anche per il desiderio di conseguire una avvertita utilità immediata — chiude, nel nome del presente, il progresso dell'uomo. La storia della scienza è piena di notizie, a prima vista inservibili, che poi, in seguito alla scoperta di altre notizie, esse pure inservibili in sé, sono diventate feconde. Quante più sono le cose che si apprendono, tanto più cresce la probabilità che divengano tutte utili e feconde. C'è, per vero, ai nostri tempi, una curiosa separazione tra un'enfasi riservata all'allenamento nelle attività fisico-sportive e una pesante svalutazione di quell'allenamento spirituale che dal greco trae il nome di ascesi. C'è l'idea che lo spirito possa arrivare alle grandi conquiste scavalcando l'allenamento nei piccoli gesti ripetuti. La mentalità vitalistica tende a rigettare qualsiasi atto di abitudine, in nome della perenne originarietà del volere, alla quale sola conferisce valore di eticità. L'abitudine è svalutata in quanto escluderebbe la volontà della scelta. La fatica dell'apprendimento insegna però che è importante acquisire meccanismi che rendano naturale la scelta, ma anche che quei meccanismi sono acquisiti solo a prezzo d’uno sforzo e d'una determinazione che li rendono meritoriamente e liberamente abiti morali.
Certo, occorre stare attenti a non dare alla realtà strumentale della pazienza il valore di realtà finale, che è sempre l'acquisizione gioiosa del vero: e solo questa gioia parlerà a favore di una buona ricerca. Agostino, pur consapevole del tranello in cui rischiava di incappare, arrivava, in un’ipotetica scelta tra due indirizzi educativi errati, a preferire per assurdo una "libera curiosità", cioè una ricerca senza disciplina, a una "costrizione della paura", cioè ad una ricerca tutta metodica, imposta per via di minacce. Questo perché l'interesse personale, per quanto sregolato, reca in sé le tracce dell'orientamento al fine. Sicché gli stimoli primari alla ricerca risiedono nell'interesse e nella volontà di arrivare a risultati di fruizione, non nella pratica dello strumento. Dopo la loro valorizzazione, è saggio procedere alla relativizzazione degli strumenti.

Autorità come "sapere storico"

Un secondo elemento della condizione dello studioso accademico è la necessità per il cammino formativo della presenza di una auctoritas, sia essa un docente o, più in generale, la tradizione scientifica con cui occorre confrontarsi. Una malintesa idea di autorità sta alla base di utopiche concezioni secondo cui ogni generazione dovrebbe partire da zero, per formarsi autonomamente. Ciò comporterebbe il blocco del progresso delle conoscenze o un senso di impotenza a intervenire sul reale, le cui leggi occorre conoscere per modificarle.
Accettare l'autorità non significa (necessariamente) modificare la libertà, ma deve significare impadronirsi delle conoscenze che hanno resistito di più al tempo — i cosiddetti classici di ogni disciplina. Anche per la cultura, come per la biologia e la scienza in genere, il più valido resiste di più. La cultura si forma per sedimentazione di conoscenze resistenti e per scarto di quelle caduche. Di qui l'importanza della scuola (in genere) come trasmettitrice di un sapere non immediato, ma storico: di quei valori sedimentati nel tempo che permettono di valutare l'attuale e l'emergente. Ambrogio vedeva nella cultura due movimenti: nova semper quaerere («cercare sempre il nuovo») e parta custodire («conservare ciò che si è conseguito»). L'autorità scade infatti dal suo ruolo se si limita a conservare e non si preoccupa di augere, da cui il suo nome: se quindi non lo coordina con la ricerca del nuovo.

Ogni acquisizione e ogni valore umano, infatti, per quanto resistenti al tempo si siano dimostrati, non possono mai pretendere di essere completamente assoluti: può, cioè, sempre darsi un novumche ne comporti la modifica. Anzi, compito dello studium è proprio quello di cercare di falsificare sempre il noto, per raggiungere una verità più avanzata. E quindi di contestare il ruolo statico dell'autorità, senza però rigettarne la funzione costitutiva, perché non si può trovare il nuovo se non partendo dal noto.

Questo atteggiamento nei confronti dell'autorità dentro il sapere diventa habitus dell'intelligenza, garanzia contro i rischi che corre lo studio quando, rifiutando l'autorità, cade nel soggettivismo assoluto e nell'incomunicabilità. Ma più ancora che il rifiuto dell'autorità, sta oggi emergendo un rapporto scorretto con l'autorità, tipico di una società complessa dentro la quale lo studioso trova difficoltà ad orientarsi. Avviene che gli individui siano disposti a gettarsi nelle braccia di chi si presenta come capace di dominare la complessità con la tecnica della decisione e con la predeterminazione di un binario rigido. Si esalta cosi un referente carismatico che illuda che basti la decisione a dominare la complessità e si ripone in esso fiducia, non tanto in quanto modello di complessità dominata da imitare, ma nelle tecniche strumentali che escogita; dove la funzione carismatica è svilita al ruolo tecnico di apprestamento di parole d'ordine e non è stimolo delle menti e, quel che è peggio, pretende di determinare l'esito della ricerca.
Lo studio insegna quindi ad evitare due errati rapporti con l'autorità: quello del rifiuto, orgoglioso, che non fa maturare perché fa partire sempre da zero e dalla propria soggettività; quello della delega della libertà che snatura la funzione educativa dell'autorità. Si tratta dunque di cogliere, da una parte, la necessità nel cammino verso il vero; e dall'altra, di penetrare la natura ministeriale di essa rispetto al vero, esaminandone la ragionevolezza. È questa un'opera delicata ma rasserenante, perché ricrea continuamente le ragioni della sussistenza e della credibilità dell'autorità, la quale, a sua volta, indirizza la navigazione verso nuovi approdi.

L'habitus critico

Il rispetto del vero è indisgiungibile dal senso critico, che funziona da metodologia della ricerca e che è il marchio più tipico che il lavoro accademico lascia impresso su chi lo pratica. Dire senso critico significa avvertire il carattere limitato, e perciò rivedibile e riformabile di ogni conoscenza. Il senso critico fa sì che di ogni conoscenza siano declinate le ragioni dell'accettazione, di modo che tutti siano, per cosi dire, chiamati a raccolta attorno a una verità scoperta per partecipare alla verifica.

Si sa che la nuda testimonianza, che compete a tutti gli uomini di scienza, è di per sé diffusiva: essa però diventa più ricca, se la verità non è semplicemente posta, ma anche capace di dirsi, di dare ragione di sé e quindi di farsi giudicare. Lo studioso di oggi, aduso a riferire tutto in termini di esperienza, deve riappropriarsi del linguaggio della oggettivazione, badando a non equivocare sul senso autentico della tolleranza. La quale non è dovuta alla verità, verso cui ognuno è obbligato in maniera assoluta, pur nella consapevolezza della povertà dei mezzi umani e della complessità intrinseca della verità stessa, ma alla persona, il cui valore trascende le opinioni che ciascuno, a torto o a ragione, può sostenere.

Nella vita intellettuale, questo habitus critico significa ribadire l'importanza del convincimento intellettivo della volontà. Il richiamo alla compiutezza delle ragioni del cuore — come ad atto correttivo dell'enfasi intellettualistica — diventa piuttosto correttivo della debolezza della ragione, che tende a scadere nella visceralità e nel vitalismo. Il cuore è segno e luogo del valore genuino, dove la verità, che l'intelletto presenta come cogente, diventa rispondente alle strutture dell'uomo e perciò attraente e amabile.

Il dato cognitivo non passa immediatamente in vita se non dopo aver persuaso tutte le forze vitali e dopo aver creato una specie di automatismo etico. Il fatto è che esiste sempre un condizionamento che l'abitudine esercita sulla volontà, impedendole di volere completamente ciò che l'intelletto vede come vero. («Video meliora proboque, deteriora sequeor», come si esprime Ovidio). Certo, si può scavalcare l'abitudine con un atto d'imperio pressoché puro, come fa il semplice che compie il salto nel buio con un atto decisionale puro. Ma questo sarebbe un atto di tradimento per lo studioso, il quale sente che l'intellettuale non può fare a meno di convincere la volontà, proponendo a sé un cammino più lungo, ma più sicuro e comunicabile.

Intelletto e cuore

La mente è condizione necessaria ma solo parzialmente sufficiente per la ricerca scientifica. Vi sono infatti dei limiti della ragione che, specie in alcune circostanze, emergono con grande evidenza. Questi limiti sono sostanzialmente connessi al fatto che molti debiti, probabilmente la maggior parte, non possono essere mai saldati in modo soddisfacente. Per quanto accurato cerchi di essere, quello intellettivo è un modo estremamente approssimativo di remunerazione e lascia sempre un largo margine di insoddisfazione. Proprio per questo, la mente, nel suo sforzo di pareggiare ovunque debito e prestazione, sente veramente l’impossibilità di una corresponsione e quindi si lascia andare al cuore. L’amore interviene allora innanzitutto nella misura in cui si avverte l'inadeguatezza della ragione a rendere il dovuto a tutti coloro dai quali si è ottenuto; e interviene nel senso di colmare questo divario, questa lacuna, con il dono gratuito proveniente dal cuore e con la dedizione sganciata da criteri di reciprocità e da indurimenti formalistici.

D'altro canto, la messa in opera dell'amore influisce anche in un'altra direzione, quella della personalizzazione di un rapporto che la ragione mantiene — e non può non mantenere, data la sua natura — sul piano dell'asettica impersonalità e della sostanziale esteriorità. In sostanza, si può dire che, mentre la ragione prefigura l'orizzonte di una convivenza per la quale può essere sufficiente l'ossequio formale ed esteriore a un insieme di norme stabilite, l'amore prospetta una comunità di ricerca fondata sulla solidarietà e sulla dedizione incondizionata. La tensione tra il cuore "caldo" e la mente "fredda" è un tema ben noto nella cultura occidentale, soprattutto a partire dal Romanticismo.

Il nostro risultato analitico diventa automaticamente sospetto se viene posto apertamente al servizio della convinzione morale; e viceversa la convinzione morale non dipende dall'argomentazione analitica e può essere anzi da essa indebolita. Ciò ha trovato la sua espressione migliore in un epigramma del poeta tedesco Hölderlin. Intitolato Un buon consiglio, risale agli inizi dell'Ottocento e, in traduzione libera, suona così: «Se hai un intelletto e un cuore, mostra soltanto uno dei due; se li mostri tutti e due insieme, non ti sarà riconosciuto nessuno dei due». Ritengo, al contrario, che il consiglio non sia affatto buono, perché chi non coltiva la gratuità del vero, prima o poi, dimenticherà di praticare anche il vero "utile" o finirà per praticarlo come utile a sé.

I. Ceccarini, P. G. Palla (a cura di), Perché l’Università. Riflessioni sull’etica del sapere, Edimond, Città di Castello 2007, pp. 65-69.